La traversata

Un oceano a separare due continenti, distanti non solo fisicamente, ma anche a livello simbolico. Oggi anche le nazioni più lontane vengono mostrate alla Tv, nei documentari o in qualche telegiornale, e se dobbiamo viaggiare da qualche parte possiamo farci un’idea dei luoghi che andremo a visitare grazie a Internet.

Ma in passato era tutto diverso e partire verso un nuovo Paese significava andare incontro all’ignoto. Con le dovute proporzioni, era un po’ l’equivalente dei nostri viaggi nello spazio. Ci si inoltrava infatti in un nuovo mondo. Per farlo bisognava solcare l’oceano con le navi, i famosi piroscafi, lasciandosi alle spalle la terra di origine per giungere nella terra di destinazione. In mezzo c’erano venti o trenta giorni di navigazione, un periodo che assumeva un valore molto particolare per gli emigranti: era una fase di distacco dal passato per proiettarsi nel futuro, una situazione intermedia tra un prima e un dopo nella propria esistenza.

Normale che la traversata avesse tanta importanza per chi doveva compierla. Generava nostalgia, spaesamento, preoccupazioni, insicurezze, dubbi e timori, ma anche senso di libertà, determinazione a ricominciare, volontà di riscatto, curiosità e desiderio di scoprire.

Talvolta le traversate potevano essere particolarmente difficili e lasciare un ricordo del tutto negativo in chi le compiva. Dipendeva dal tipo di nave utilizzato (non sempre adeguato), dalla quantità di persone a bordo (a volte molto più alta del consentito, con conseguenze negative sulle condizioni igieniche e sulla salute dei passeggeri) e dalla situazione meteo (vento e pioggia potevano rendere ardua la navigazione). E se un po’ di mal di mare era pressoché garantito, non era così raro che qualcuno durante il viaggio ci rimettesse la vita.

Per farsi un’idea di come potesse essere una traversata, tornano utili i racconti di alcuni testimoni, giunti fino a noi grazie alle lettere che loro stessi avevano mandato in Italia. 


Lettera di Francesco Sartori
Marsiglia, 18 novembre 1877

Cari figli, e moglie

Il giorno 8 corrente mese vi ho spedito una lettera nella quale vi ho dichiarato che nel giorno 12 prenderemo partenza da Marsiglia per l’America (Brasile). Ma invece il giorno 11 e arrivato un’altra spedizione da Genova a Marsiglia per partire sul medesimo bastimento di 300 persone notando bene che erimo troppi senza di questi perché in tutti siamo un numero di 300 persone e sul bastimento non bisognerebbe oltrepassare a 350 perché è un bastimento fatto da tempo passato per le merci e non per passeggeri. In questi giorni i falegnami hanno lavorato a fare i posti per buttarsi a dormire uno sopra l’altro che bisogna stare inginocchiati e ancora si petta colla testa sopra peggio delle bestie senza respiro. A dichiararvi il tutto ci vuole troppo tempo ma vi dichiaro qualche cosa benché sono proibito dai miei compagni a dichiararvi questo fatto.

Attendete bene quanto segue.

Nel bastimento siamo spessi come in un bucco d’ave. È morto un giovane di 5 anni ed era un bellissimo giovane ben nutrito ce ne sono altri otto ammalati gravemente. Un strepito chi piange chi si lamenta spose coi figli in braccio che vogliono gettarsi nell’acqua a negarsi e dicono se si parte si muore tutti prima di arrivare nell’America”. 

Francesco Sartori e i suoi compagni di viaggio erano stati truffati. Avevano pagato per una nave a vapore e si ritrovavano su una nave a vela, molto più lente e insicura. 
Lo dice lui stesso in un’altra parte della lettera: 

“Noi siamo fatti un N. di 103 capi di famiglia e siamo andati dal R. Comisario dell’emigrazione e dal Console Italiano ed in altre parti, portiamo la ragione che abbiamo in contratto il bastimento a vapore e non a vela e vogliamo partire a vapore e non a vela, o il danaro che abbiamo versato”.

La sua conclusione è estremamente significativa:

“Ecco cara moglie e figli le mie dolorose notizie e i miei patimenti. Maledetta quella volta che mi decisi alla partenza che mi son messo nelle mani di questi mercatanti di carne umana”.

I trafficanti di esseri umani, pronti a guadagnare sulla pelle dei migranti, c’erano anche in passato.

Lettera di Bortolo Rosolen
S. Teresa di Cordeiros (San Paolo, Brasile), 9 marzo 1889

Egr. Sig. Padrone Dott. Ferdinando Chisini

Pieve di Soligo

Doppo un lungo silenzio, ora mi presto a dare a lei mie notizie.

Con grande dolore devo manifestargli una spaventevole mia sorte, comincerò a dirgli qualche cosa del viaggio, questo e statto molto pesante tanto ché per mio consiglio non incontrerebbe tali tribulazioni nepur il mio cane che ò lasciato in Italia, il sudetto viaggio e stato molto pesante prima per aver incontrato 4 giorni di grande burasca, poi per essere troppo affolati nel bastimento, di più nei ultimi giorni abbiamo sofferto un oribile caldo. 

Finalmente doppo 26 giorni siamo disbarcati a Santos ove si aspettava di dare una sazietà al nostro respiro, per sentire buone notizie, ma appena si poteva dirigere alcune parole verso qualche italiano e anche da costoro si sentiva risposta poco buona, a tale risposta cominciava a crescere la nostra disperazione, ma subito cimbarcò in un treno speciale e in circa 4 ore siamo rivatti in S. Paolo nella casa della Migrazione, e anche a tale arivo creseva più forte la nostra disperazione, prima per vedere una grande moltitudine di poppolo, e per sentire che esisteva grande morturità sui piccoli fanciulli non solo ma quando cominciò inoltrarsi la notte e osservando tutti i piccoli fanciulli e l’intiera famiglia che stanchi del viaggio dormivano coricati sopra le tavole circondati da 10.000 persone ma io non poteva darmi riposo per sentire che da un lato della stanza piangeva una donna, dall’altra un uomo e osservando i fanciulli, e pensarmi d’essere colpevole di averli fati suplire tante tribulazioni, gli dico la verità sig. Padrone che io non poteva tratenermi di piangere lungo la notte, e così passò il mio primo riposo nell’America”.

Lettera di Francesco Costantin 
Colonia Angelica (San Paolo, Brasile), 8 giugno 1889

Egregio Signore,

Non le dirò nulla del viaggio ferroviario, solo le dimostrerò in compendio il tragitto marittimo.

Riuscita bene la visita medica in Genova si figuri di vedere un agglomeramento di gente di ogni età, sesso e condizione un due o tre mila persone tutte riunite giulive e chiassose che se la contano del più e del meno. Ma ecco che il fischio del Piroscafo annunzia che si deve salutare la Patria e si parte verso la terra da tanto tempo desiderata.

Se il tempo è favorevole tutto va bene, ma è difficile compiere il viaggio così lungo sempre col buon tempo.

Non trovo parole adeguate per descriverle per l’intiero lo sconvolgimento del Piroscafo, i pianti, i rosari e le bestemmie di coloro che hanno intrapreso il viaggio involontariamente, in tempo di burrasca. Le onde spaventose s’innalzano verso il cielo, e poi formano valli profonde, il vapore è combattuto da poppa a prua, è battuto dai fianchi. Non le descriverò gli spasimi, i vomiti e le contorsioni dei poveri passeggeri non assuefatti a cositali complimenti. Il giorno che il mare è in burrasca, pochi sono quelli che vanno a prendere il rancio, il maestro di casa potrebbe tralasciare di far suonare il campanello. 

Tralascio dirle dei casi di morte, che in media ne muoiono 5 o 6 per 100, e pregare il Supremo Iddio che non si sviluppino malattie contagiose, che allora non si può dire come l’andrà. 

Riguardo al vitto io non posso dirne bene, ché essendo tutti emigranti gratuiti ci trattavano peggior dei maiali, rancio, pane, baccalà, carne, ed altro che ci davano era preparato peggio che potevano, e ci volevano stomachi di ferro per mangiare.

Finalmente permettendo Iddio dopo 20 e più giorni si arriva al porto desiderato di Santos, oppure a Rio de Janeiro”. 

(Tutte le lettere sono tratte da: Merica! Merica! Emigrazione e colonizzazione nelle lettere dei contadini veneti in America latina, 1876-1902, di Emilio Franzina; Feltrinelli economica, 1979)

Il piroscafo Duca di Genova.
(Immagine tratta da Jack Costa. L’epopea di Giovanni Dalla Costa, il trevisano che cercò l’oro in Alaska, e lo trovò, Dario De Bortoli; Milano: F. Angeli, 2006 – per gentile concessione di Dario De Bortoli)

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