Prendersi cura del futuro

Sono nata nel 1936 a Colderù. A tredici anni sono partita per Milano per lavorare al servizio della stessa famiglia in cui mia mamma – alla nascita di mio fratello – era stata balia nel 1933. Al suo ritorno a casa, dopo qualche tempo, era partita con mio padre, prima per la Germania, e poi per la Svizzera, dove lavoravano in una fattoria. Mi trovarono un lavoro nella fattoria di un cugino dei loro padroni e, a diciotto anni, partii per la Svizzera. Lì parlavano in tedesco e gli inizi non furono facili, ma imparai a sbrigarmela, a capire e farmi capire.

Per raggiungere i campi dalla fattoria bisognava percorrere un lungo tratto di strada attraverso la città. Il padrone mi precedeva in bicicletta con la falce. Lo seguivo con un’alta carretta tirata da due cavalloni. Avevo sempre tanta paura perché c’era parecchio traffico e spesso un tram mi sbarrava la strada. Mentre il padrone falciava l’erba, salivo in piedi sulla “grappa” e guidavo i cavalli avanti e indietro per sarchiare le patate, poi insieme caricavamo l’erba e ritornavamo alla fattoria. Ogni mattina partivo con i cavalli verso uno dei campi del padrone per fare il lavoro che mi veniva assegnato.

Avevo lasciato a Colderù il mio fidanzato, Giovanni Tremea. Mi mancava. Parlai di lui al padrone, raccontandogli della sua forza e della sua destrezza, e il padrone lo assunse. Lavorammo insieme durante un breve periodo di ambientamento, poi alloggiai in un convitto della stessa città. Malgrado fossi minorenne, fui assunta in una fabbrica di abbigliamento intimo grazie all’intervento del mio padrino, Felice Castellan, presso un dipendente di quella fabbrica con il quale era in buona relazione. Giovanni aveva lavorato da muratore a Lentiai con Gino Luzzatto e si adattò a fare il contadino in Svizzera. A fine stagione tornammo a casa in ferie.

Al nostro ritorno in Svizzera, Giovanni, tramite mio fratello, fu assunto in una fabbrica di lavorazione del marmo. Ritornai al mio posto precedente finché, sempre tramite mio fratello, fui assunta in un’altra fabbrica. Con mio fratello, un amico di Canai e Giovanni, affittammo un appartamentino dove vivemmo insieme fino al nostro rimpatrio. Nel 1956 ritornai a Colderù con Giovanni e ci sposammo. Ma non riuscivo ad adattarmi alla misera vita senza speranza a cui mi sentivo costretta. Dal nostro matrimonio nacque una bambina. Come si usava frequentemente a quei tempi, si viveva tutti insieme nella casa dei suoceri e le nuore erano sottomesse alla volontà di questi ultimi, prive di denaro e senza alcuna libertà d’iniziativa. Nutrivo l’ardente desiderio di tentare qualcosa per incidere sul mio destino.

Lentiai, 1956. Matrimonio di Solisca Tremea e Giovanni Tremea

Decisi di seguire l’esempio della mamma. Dovevo per questo avere un’altra maternità. Rimasta incinta della seconda figlia, annunciai a mia madre che volevo anch’io andare balia come aveva fatto lei. Mia mamma aveva accettato di occuparsi della futura nipotina, ma morì tre mesi prima della sua nascita. Malgrado il mio grande dispiacere, mantenni la mia intenzione di partire. Non volevo rimanere con due bambine a lavorare in una grande famiglia senza mai vedere l’ombra d’un quattrino.

All’ospedale di Venezia mi assegnarono una camera con due culle per i bambini. Allattavo uno di loro, mentre una balia esterna veniva puntualmente nella camera ad allattare l’altro.

Appena nacque Giulietta, mi rivolsi al servizio di baliatico di Santa Giustina e mi fu trovato un posto di balia all’ospedale Umberto I di Venezia per due gemelli la cui mamma era appena morta. Lasciai mia figlia a Stella Moret. Lei la nutrì al biberon con il latte di mucca e si prese cura di lei.

All’ospedale di Venezia mi assegnarono una camera con due culle per i bambini. Allattavo uno di loro, mentre una balia esterna veniva puntualmente nella camera ad allattare l’altro. Assistevo i due bambini negli intervalli e durante la notte. Un’infermiera veniva a pesarli, prima e dopo la poppata. Guadagnavo 60.000 lire al mese. La seconda balia rimase incinta. Il suo latte non era più buono e dovette ritirarsi. Rimasta sola, allattai da sola i due bambini e mi aumentarono il salario di ulteriori 40.000 lire al mese.

Terminato il periodo d’osservazione medica ci trasferimmo ad Adria, nella casa della nonna paterna dei bambini. Avevo già incontrato questa signora prima di partire. Era venuta a trovarmi per conoscermi, accertarsi della mia buona salute, accordarsi con me e firmare il contratto. I gemelli non avevano ancora compiuto il primo anno quando Giovanni mi informò di aver trovato un alloggio.

Solisca Tremea nel 1967

Potevamo finalmente separarci dalla famiglia di mio marito e vivere la nostra vita. Accolsi con entusiasmo la grande e tanto attesa notizia. Mi permetteva di ritrovare la mia famiglia, di riabbracciare le nostre figlie. Informai il padre dei gemelli della mia intenzione di partire. Lui mi offrì un aumento di 10.000 lire perché restassi con loro, ma non mi lasciai convincere. Gli proposi di sostituirmi con la balia asciutta di mia figlia. L’uno e l’altra accettarono e, quando Stella Moret arrivò, rimasi ancora qualche giorno affinché i gemelli famigliarizzassero con lei, poi ritornai a casa.

Solisca Tremea

Storia tratta da Va Pensiero… Immagini e memorie d’una comunità bellunese, terza parte, a cura di Luisa e Vittorio Zornitta.

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