Un ritorno complicato

Prima di partire mi ero detto che se mi fosse andata bene mi sarei comprato la Lancia Fulvia Coupé e mi sarei sposato. Se si lavorava il venerdì, che era festa, ci pagavano il doppio. Per quanto riguarda le ferie, potevamo fare un mese all’anno in Italia, cinque giorni ogni due mesi fuori dall’Arabia Saudita, in Etiopia o in Libano, oppure rimanere lì, e in questo caso ci avrebbero pagato doppie le cinque giornate.

Io ho sempre adottato quest’ultima soluzione, perché avevo bisogno di soldi. Il lavoro non era male, a me bastava ci fossero le macchine, anche se dovevamo solo guardarle. Si lavorava circa dieci ore al giorno e se ne segnavano dodici, ma nessuno reclamava.

Per passare il tempo dopo il lavoro non c’era granché. Quelli nuovi, quando arrivavano, ci prendevano per matti perché stavamo nove mesi nel deserto senza mai andare da nessuna parte. L’ultimo mese prima di tornare a casa non passava mai, anche perché il lavoro era diminuito e le macchine erano sempre meno. Fino a quando finalmente è arrivato il giorno della partenza.

Eravamo solo io e Gelindo. A Riad l’aereo è decollato regolarmente, ma dopo un’ora ha cominciato a ballare. Le pareti scricchiolavano e le luci si erano spente: sembrava di correre su una strada piena di buche. Le hostess erano sparite. Dopo, non so come, tutto si è calmato e l’aereo è atterrato. Mentre scendevamo la scaletta ho dato un’occhiata attorno e ho detto a Gelindo: «Guarda che siamo tornati a Riad». «Impossibile», ha risposto lui ridendo. Poi ci siamo accorti che era vero.

Tutti i passeggeri chiedevano spiegazioni. Il personale, con calma, spiegava che si era rotto un motore e avevamo incontrato una tempesta di sabbia. Ci hanno restituito le valigie e il biglietto, poi ci hanno invitato a tornare l’indomani. Usciti dall’aeroporto, abbiamo preso un taxi e ci siamo diretti alla guest house. A un tavolo c’erano due uomini arrivati dall’Italia. Ci hanno detto che se volevamo partire l’unica soluzione era raggiungere Dhahran in taxi durante la notte, a trecentocinquanta chilometri di strada. Da Dhahran si doveva partire il giorno dopo alle dieci e mezza.

Con il responsabile della ditta siamo andati in strada e abbiamo fermato un taxi contrattando il prezzo. Partiti, l’autista ha girato un po’ per la città e si è fermato in periferia, dove c’era un grande distributore con diversi mezzi in sosta. Ci ha fatto capire di attenderlo lì e si è allontanato. Si è rifatto vivo dopo mezz’ora con un altro taxi più vecchio e sporco e a gesti ci ha spiegato che non poteva accompagnarci perché non aveva le carte in regola.

Una volta fuori città c’era solo deserto, la strada correva su e giù sull’asfalto largo circa sei metri.

Era appena scoppiata la “Guerra dei sei giorni” tra Israele ed Egitto e in molti stavano raggiungendo proprio l’Egitto per dar manforte all’esercito. Il governo cercava di impedirlo e aveva piazzato posti di blocco un po’ dappertutto. A quel punto gli abbiamo detto che ci andava bene andare con un altro taxi allo stesso prezzo e così siamo ripartiti. Una volta fuori città c’era solo deserto, la strada correva su e giù sull’asfalto largo circa sei metri. Il taxi era un Chevrolet con la lana sul volante e sul cruscotto, pieno di pelli di pecora e altri ornamenti colorati. Ogni tanto incontravamo qualche camion, ma tutti andavano in direzione opposta alla nostra.

Dopo un centinaio di chilometri abbiamo visto delle luci e una sbarra sulla strada, con dei militari che ci hanno fermato. Hanno parlato con il tassista e l’hanno fatto entrare nella piccola caserma di fianco alla strada. Dopo mezz’ora di attesa senza avere comunicazioni, abbiamo provato a sollecitare i soldati. Ci hanno fatto scendere e ci hanno condotto nella casermetta. Un capitano ci ha fatto intendere che il taxi non poteva portarci. Gli abbiamo mostrato il biglietto aereo e a segni gli abbiamo spiegato che alle dieci del giorno seguente dovevamo prendere un altro volo a Dhahran. Dopo diverse discussioni, hanno ritirato tutti i documenti al tassista e gli hanno rilasciato un lasciapassare di ventiquattro ore. Ci hanno offerto un tè e siamo ripartiti.

Dopo una decina di chilometri l’autista si è fermato, ha accostato la macchina fuori dalla strada, si è appoggiato alla portiera e si è messo a dormire. Noi, però, avevamo poco tempo e non ci potevamo fermare. Gelindo rideva, come al solito. Ad avere fretta di tornare a casa – diceva – ero io. Ho spostato il tassista e ho preso il volante. Da lì a Dhahran abbiamo incontrato ancora due posti di blocco: quando vedevo la luce mi fermavo e mettevo il tassista al suo posto. Passata la barriera mi rimettevo io alla guida. Siamo arrivati a Dhahran giusto un’ora prima di prendere l’aereo.

Angelo Mioranza

La storia è un estratto di un capitolo più ampio presente nel libro Trent’anni nel mondo e poi la carrozzella, di Angelo Mioranza; Bellunesi nel mondo Edizioni.

Angelo (a sinistra) e il cuoco del cantiere.

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