Una proposta promettente – seconda parte

di Flora Costa

Racconto tratto dal libro: Vivo due amori… le Dolomiti e la Lorena, di Flora Costa; Bellunesi nel mondo edizioni, 2018

La prima parte è disponibile QUI.

La gentile signora fu molto ospitale, facendomi dormire a casa sua. Dopo una buonissima colazione, ci salutammo un po’ emozionate, senza sapere che non ci saremmo incontrate mai più.

Con la corriera Buzatti diretta ad Arabba, giunsi all’Albergo “Alle Alpi”, dove mi aspettavano i miei padroni. Dovevo riprendere il mio lavoro di cameriera, che sarebbe durato ancora alcune settimane. La cameriera dell’albergo centrale, Clorinda, divenne un’amica per me e qualche volta, per poter scambiare le nostre storie, lei veniva a passare la serata nella mia cameretta sotto il tetto. Alla fine della stagione, l’ultima sera mangiammo una torta e bevemmo un bicchiere di Albana, promettendoci di incontrarci ancora.

Con lo stipendio della stagione potei acquistare una valigia di cartone e un pezzo di tela mare per confezionare un vestitino a giacca con le maniche corte, di color celeste.

Fra poco sarebbero arrivati i passaporti in Comune, non c’era più tempo da perdere, il giorno della partenza era vicino.

Nell’ultima giornata di lavoro in quell’albergo, davanti al quale si fermava la corriera, stavo preparando i tavoli nella sala da pranzo quando il padrone mi disse che al bar qualcuno voleva salutarmi. «Forse un cugino?» mi disse. Arrivando nel bar mi trovai di fronte al bel studentino biondo di ritorno da Firenze. Per entrambi fu un momento di grande emozione, felici di incontrarci per l’ultima volta. La guerra aveva sconvolto i nostri sogni, ma, all’epoca, ancora non potevamo saperlo. Per fortuna il destino aveva scelto per noi. Adesso, settant’anni dopo, sento nel cuore un pizzico doloroso quando ricordo quel giorno così lontano eppure vivo dentro di me.

Arrivando a casa con il cuore triste, mio padre mi disse che era venuto Gastone Pollazzon, proponendo di andare con lui a San Lorenzo, a Brunico. Si trattava di una spedizione per raccogliere la resina dei pini sul pendio e i valloni dei boschi di quella regione. Mio padre mi invitò ad accompagnarli e questo mi fece grande piacere.
La resina raccolta sarebbe stata venduta e il denaro ricavato utilizzato per i bisogni causati dalla lunga guerra mondiale.

Due giorni dopo, con mio padre, Gastone, un pollo arrostito nel rusak (zaino) e un po’ di pane, con la corriera arrivammo ad Arabba. Da qui raggiungemmo passo Campolongo e Corvara, a piedi. A Corvara potemmo continuare la nostra spedizione in corriera, direzione Brunico. A San Lorenzo, in una pensione di famiglia, trovammo una camera per dormire. Durante la giornata dovevamo andare nei folti boschi a raccogliere la resina sui pini. I tronchi venivano scolpiti con i sassi che staccavamo dal suolo. Si creavano dei buchi profondi dai quali usciva la resina, come il sangue da una ferita.

Dopo una notte di meritato riposo, all’alba di una limpida giornata, partimmo con lo zaino sulle spalle. Conteneva gli attrezzi necessari a staccare la resina dagli alberi. La preziosa materia veniva fatta cadere in un sacco fissato all’albero con un cerchio di ferro.

Sarebbe stato più astuto cominciare la raccolta dall’alto, scendendo verso la valle e spostando il sacco pieno da un pino all’altro. Avremmo fatto meno fatica.

A mezzogiorno, mentre giù nella valle sentivamo il suono delle campane, cercammo un riparo sicuro, protetto dalla caduta dei sassi che, con l’umidità della notte, potevano staccarsi dal suolo.

Vicini, io e mio padre gustammo con grande appetito lo spuntino frugale che la mamma aveva cucinato per noi, un po’ di pollo e un pezzo di pane. Il luogo era favoloso, il cielo azzurro e velato di una pennellata bianca portata via dal venticello timido e un po’ freddo che annunciava l’autunno, con i suoi colori fiammeggianti sulla distesa dei boschi. Le meraviglie del Creato mi hanno sempre commossa, fin dall’infanzia, risvegliando il mio spirito. Un’emozione profonda e stupefacente che rende l’anima serena e il pensiero lieve.

Scendendo, man mano che si raccoglieva la resina, ci accorgemmo che il sacco si riempiva sempre di più e portarlo era sempre più faticoso. Arrivati a valle, aspettammo l’arrivo della corriera. Giunti alla pensione, per curiosità pesammo il prezioso raccolto, più che soddisfatti del lavoro compiuto. Il sacco di mio padre, ovviamente, era più pesante del mio. A volte io non riuscivo a scavare, perché la ferita del tronco era troppo in alto.

Alla pensione fummo subito adottati dai padroni, ci sembrava di essere in famiglia. Alla sera mi prestai aiutando a servire a tavola e a sparecchiare. La padrona mi chiese se conoscevo il lavoro con i ferri, e durante la settimana potei confezionare dei calzetti con la lana di pecora. Fu molto compiaciuta e riconoscente e io fui orgogliosa di avere dato un po’ di aiuto. Non avevo perso il mio tempo, avevo potuto rendermi utile. Il mio cuore era contento. La nonna Maria mi aveva insegnato l’arte. “Impara l’arte e mettila da parte”, proverbio vero.

Durante i dieci giorni raccogliemmo sei sacchi di resina, in tutto sei quintali. Gastone la vendette e ognuno ricevette la sua parte di denaro. Era costato tanto sacrificio e molto lavoro.

Finiva l’anno 1945. La lira era svalutata in modo spaventoso e anche coloro che possedevano un buon gruzzolo rimasero con le mani vuote. C’era disperazione, bisognava ricominciare tutto da capo.

Lo zio Paolo, fratello della nonna Maria, lavorò tutta la vita in Svizzera. All’età della pensione chiese a mio padre se poteva venire a stare a casa nostra. Non essendosi mai sposato, non aveva altra famiglia all’infuori di sua sorella Maria. Anche la sorella di mio nonno Tita si chiamava Maria, Rossi. Anche lei non si era sposata e viveva in famiglia con noi. Non era sorprendente a quei tempi lontani che le famiglie rimanessero tutte nella stessa casa. I figli e i nipoti erano disponibili e davano aiuto e assistenza con devozione e generosità.

Per noi bambini piccoli fu sempre un fatto di contentezza e orgoglio parlare con loro e soprattutto ascoltare i loro racconti dei tempi passati. Ci addormentavamo sulle loro ginocchia, ascoltando fiabe e leggende. I nonni e gli zii erano circondati dal nostro affetto, rispetto e amore. I loro sorriso era per noi la ricompensa. Zio Paolo ricercava indubbiamente questo modo di vivere, attorniato dall’affetto di sua sorella Maria, di Giovanni Battista, suo cognato, e di Maria, sorella di suo cognato Giovanni.

I nostri nonni e zii si sostenevano, fra loro c’era la fratellanza, la solidarietà, il rispetto. Condividevano i momenti di convivialità, riempivano i giorni con i loro ricordi. Ricordi che avevano il potere di farli sorridere, guardando l’avvenire con coraggio e speranza. Noi nipoti eravamo il loro diversivo, la loro contentezza che faceva dimenticare la vecchiaia.

Lo zio Paolo aveva un conto in banca, tutti i risparmi frutto di una vita di lavoro in Svizzera. All’inizio di ogni anno mi incaricava di andare a ritirare gli interessi del suo conto, e ogni volta mi regalava cinque lire. Io le depositavo sul libretto bancario che lui mi aveva sottoscritto. Se la memoria non mi tradisce, questo libretto è ancora archiviato, nella cartella.

Alla fine della guerra, tutte le economie del lavoro di una lunga vita furono inghiottite dalla svalutazione della lira. Mio padre aveva voluto essere generoso e fu sempre orgoglioso di aver aiutato suo zio, una persona umana che aveva vissuto lavorando onestamente.

Quanti anni sono trascorsi, benché a me sembri che il tempo si sia fermato tanto è rimasto vivo in me il ricordo di quei tempi della mia giovinezza. Soltanto le mani tremanti mi fanno ritrovare la realtà e ammettere, con un tocco di amarezza, che ho raggiunto adesso l’età che aveva lo zio. Lo zio che aveva lavorato lontano dal suo paese natio e che, ritornato in Patria, volle conquistare tutte le più belle cime Dolomitiche, ritornando alla sera con una stella alpina in mano, gioioso, contento.

È impossibile far capire a coloro che hanno avuto la fortuna di rimanere sul suolo della propria Patria la difficoltà del distacco dal paese in cui si è nati. L’allontanamento dalla casa paterna, dove abbiamo osato staccarci dalle mani della mamma e muovere i primi passi, con le braccia aperte, per buttarci in quelle del padre. “La grande avventura di un bambino”.

Fare i primi passi nel mondo dei viventi, senza capire, indovinare, come sarà il nostro destino e dove ci condurranno i suoi disegni.

Questo io sentivo, in quel mattino alla fine dell’ultima mia estate nel paese di una bellezza favolosa in cui ero nata. Questo sentivo salendo sulla corriera, azzurra come il colore del cielo di quel giorno che il mio sguardo abbracciava. Le lacrime scorrevano, senza che potessi fermarle, sulle mie guance, e sventolando un fazzolettino bianco dal finestrino salutavo la mia famiglia.

Le lacrime mi impedirono di vedere il campanile della chiesa, dal quale si spandeva il suono dell’Ave Maria. La corriera mi strappò via velocemente e, con coraggio, ebbi la forza di guardare in avanti la strada che mi conduceva lontano.

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