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Vite migranti tra Canada e Belgio

Belgio, fine anni ‘40. Antonio (a destra) con due compagni di lavoro

«Diceva che si doveva lavare tre volte: la prima volta veniva fuori ancora nero, la seconda si cominciava a vedere la pelle un po’ bianca e la terza volta era pulito». Racconta così Francesca Faoro, emigrate arsedese a Montreal, per rendere l’idea di quanto dura potesse essere la vita del marito. Prima di conoscerla faceva il minatore in Belgio. Lei, invece, non ha dovuto soffrire come il suo Antonio. Lo precisa spesso nella sua azione di memoria, quasi a sottolineare – con un velato senso di colpa che nasce dall’amore e dall’empatia – una sua maggior fortuna rispetto alle sventure patite dal coniuge. «Io mi sono sempre trovata bene in Canada. Per questo non ho una particolare nostalgia dell’Italia. Delle montagne bellunesi invece sì, quelle mi mancano». Per il resto, una vita dignitosa, serena, felice nel Quebec. Non come Antonio, salvo per miracolo in una miniera a pochi passi da quella più famosa – tristemente famosa – di Marcinelle.
«È partito dopo la guerra e ha lavorato sei anni a Charleroi. Se ne è andato dopo un incidente in cui ha visto morire tanti suoi amici». Non si conoscevano ancora – dicevamo – Antonio e Francesca. Ma lui di quell’incidente, impossibile da cancellare dalla mente, le ha raccontato. Un racconto che parla di quanto gli attimi, il caso, la fortuna, possano fare la differenza.

«Aveva avuto dei problemi di digestione per qualcosa che aveva mangiato la sera prima. Dovendo andare alla toilette, aveva perso l’ascensore per scendere in miniera, e questo gli ha permesso di restare vivo. Diceva sempre che era stato un miracolo. Lo raccontava piangendo perché da quel momento non ha più rivisto tanti dei suoi compagni».

Troppo dolore, troppo pericolo. Antonio torna in Italia, parla con il padre e gli annuncia di non volerne più sapere del Belgio. Meglio tentare con il Canada, la nuova terra promessa di quegli anni, i primi anni ‘50. In Canada ci arriva nella primavera del ‘51, nell’Ontario. Ma anche qui le cose partono con il piede sbagliato.
«Lavorava in una farm – racconta ancora Francesca – con duecento capi di bestiame da mungere ogni mattina, tutto solo, sotto il sole e tra le mosche e gli insetti. Era talmente pieno di punture sulla schiena che faticava a dormire. Gli davano così poco da mangiare che doveva rubare qualche uovo dalle galline». Impossibile restare.
«Dopo qualche mese ha scritto una cartolina a uno zio a Chicago: chiedeva qualche dollaro per scappare e andare a Niagara, dove c’erano altri paesani. Ma quando il padrone ha capito che se ne stava andando, l’ha aspettato sulla porta con la forca in mano. Allora lui gli ha detto: “Non rimango qui a morire di fame, nemmeno in Italia ho mai lavorato così tanto”. Lavorava dalle quattro del mattino alle dieci di sera».

A Niagara lo accoglie una signora di Fonzaso. «Era una donna che dava aiuto a quelli che arrivavano lì all’improvviso, dava loro ospitalità finché trovavano lavoro. Per tutta la vita, non ha mai smesso di ringraziarla, era stata il suo angelo custode».

Antonio trova impiego nelle costruzioni. Sono gli anni del pieno sviluppo. Un boom che prosegue con l’Expo di Montreal del 1967, l’evento che porta Antonio nella città in cui tuttora vive Francesca.
Ma i due non si incontrano in Canada. La loro storia comincia in Italia, quando Antonio rientra per far visita alla famiglia.
«Io lavoravo all’ospedale a Feltre – spiega Francesca – ci siamo conosciuti lì e sono finita in Canada anch’io».
Purtroppo Antonio a cinquant’anni si ammala. La maledetta miniera torna nella sua vita per presentare il conto. Dolore ai polmoni e problemi di respirazione, la diagnosi è inequivocabile: silicosi. «È stato fortunato perché un dottore ha appurato che la malattia era causata del lavoro e quindi ha potuto avere una pensione, ma ne ha sofferto per quindici anni prima di morire».
E nel ricordare questo ennesimo episodio di sventura, Francesca si fa prendere ancora dall’idea che ci sia stato un divario tra la sua vita e quella del marito.
«Io sono stata molto più fortunata: sono arrivata con l’aereo, non ho viaggiato in nave come lui, sono stata accolta dai paesani, non ho sofferto quello che lui ha dovuto soffrire. La lingua mi è entrata facilmente, ho imparato meglio il francese che l’inglese. Grazie all’esperienza di lavoro a Feltre ho fatto domanda per lavorare in ospedale e ci sono rimasta per venticinque anni.
Nella mia emigrazione non ho avuto disagi come invece li ha avuti mio marito. E come lui molti altri emigrati agli inizi degli anni ‘50. Per loro sì che è stata dura».