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8 marzo 2021, Festa della donna

10 storie di emigrazione femminile

Pubblichiamo in questa occasione dieci storie di donne bellunesi che hanno conosciuto l’emigrazione: chi quella temporanea e chi quella definitiva, qualcuna muovendosi entro i confini nazionali altre invece oltre, chi a seguito del marito e dei figli, chi in prima persona. Ognuna di loro è unica, come uniche sono la dedizione di queste donne per la famiglia e il lavoro, la determinazione e la forza nel sopportare le avversità e le sofferenze della vita. 


1. Maria Corso De Nando 

Maria Corso è nata a Pian del Vescovo di Lamon il 14 marzo 1905. Ancora giovane intraprese la strada dell’emigrazione recandosi per lavoro a Milano, poi in Germania e ancora in Svizzera, a Bellinzona. Nel 1940 sposò Romano De Nando di Arsiè ed insieme si spostarono nel Canton Uri. Nel 1942 nacque la loro figlia Marie-Louise. Due anni più tardi una fatale disgrazia le portò via il marito. Si trasferì quasi subito nel Cantone di Schwyz e nel 1950 ritornò a Erstfeld. Ha sempre lavorato come cuoca nelle mense per operai, soprattutto italiani. Rimasta sempre in Svizzera, è deceduta a Schattdorf il 12 agosto 1993.


2. Maria Flora Viezzer Dall’O 

Maria Flora Viezzer nacque a Peron di Sedico nel 1893. Nel 1914 sposò a Libano Antonio Dall’O’, del quale seguì sempre il destino; egli era dipendente della ditta Domenichelli. Nella sua vita Maria ebbe modo di dedicarsi in modo esemplare non solo agli otto figli (una dei quali religiosa in Sud America), ma anche agli altri, soprattutto ai poveri e agli ammalati. Nel 1927 si trasferì con la famiglia a Padova, dove dedicò il suo tempo libero al terzo ordine francescano con l’assistenza ai meno abbienti e ai sofferenti. Trasferitasi successivamente a Verona, svolse le stesse opere caritatevoli a servizio della parrocchia di San Pancrazio in Porto. Fu donna attiva e caritatevole anche presso l’Opera “Dame della Carità”, di cui era presidente, sempre in forma discreta e tempestiva. Morì l’8 novembre 1973 a Verona. 


3. Monica Fontana

foto si Maria Fontana con il suo negozio ambulante sulle spalle

Monica Fontana è stata una donna venditrice ambulante, una cròmera. Il suo viaggio per le vie della Svizzera è cominciato subito dopo l’ultima guerra mondiale. Percorse sei Cantoni e poi si stabilì in quello di Sciaffusa dove viveva con un nipote. Di là Monica pensava a suo marito, malato, e alla figlia che risiedevano a Belluno e regolarmente mandava loro i frutti delle sue fatiche. Era una camminatrice Monica, sempre portando sulle spalle il suo negozio volante tra i casolari sparsi. E con la merce portava il sorriso e la bontà degli italiani. Si ritirò solo quando la salute non le permise di continuare: chiuso con il commercio ambulante, decise di rimpatriare e di raggiungere i suoi cari per godersi insieme a loro le sue belle montagne. Molti hanno rimpianto mamma Monica e la sua bella figura di donna modesta, che va elogiata per la sua perseveranza e abnegazione. 


4. Maddalena Selle

Maddalena Selle era originaria di Tiser di Gosaldo. Fu nominata Cavaliere di Vittorio Veneto, una delle pochissime donne che hanno avuto questa onorificenza, una donna che la Grande Guerra non l’ha solo vissuta ma anche combattuta in qualità di portamunizioni: a soli 16-17 anni, portava nella sua gerla l’occorrente per far saltare le rocce teatro di guerra. Dopo il conflitto seguì il destino di molte donne agordine ed emigrò nella zona di Milano, rimanendovi per tanti decenni e dove si è formata una famiglia. Fu socia della Famiglia Bellunese di Milano, divenendo presto la sua beniamina. 


5. Angelina Zampieri

foto di Angelina Zampieri

Angelina Zampieri nacque il 28 dicembre 1898 a Visome di Belluno, figlia di Giuseppe e Teresa Trevisson, una coppia originaria di Polentes di Limana. Angelina apparteneva ad una famiglia povera e quando aveva solo sei anni lasciò famiglia, giochi ed amicizie, per andare in Francia, ospite di parenti. Qui rimase fino ai dodici anni quando era grande abbastanza per dare una mano nei lavori di casa e tornò in famiglia; dovette però rifare ben presto la sua povera valigia e ritornare in casa d’altri, stavolta in condizione di piccola serva, una cioda, come i trentini definivano le donne bellunesi. A Pove di Trento divenne domestica del falegname settantenne Bartolo Maggioli, l’uomo che si rivelò il suo aguzzino e che non tardò a minacciare la ragazza per soddisfare i suoi istinti maschili. Lei lo respinse sempre con decisione e riuscì anche a farsi cambiare di casa, ma lui decise di ucciderla. Lo fece con quindici coltellate sul pianerottolo della casa in cui la giovane prestava servizio. Era il 24 luglio 1913. Migliaia di concittadini presero parte al suo funerale; la salma fu inizialmente tumulata presso il cimitero di Trento, poi, nel 1972, i poveri resti furono portati a Limana. Da molti è considerata la Maria Goretti del Bellunese, dato che prima di morire perdonò il suo assassino chiedendo a Dio che lo accogliesse in Cielo. 


6. Luigia Angela Sacchet

Luigia Angela Sacchet nacque a Cesiomaggiore l’8 gennaio 1899. Quando il marito dovette partire per l’America, emigrò da sola per Biella per poter mantenere i suoi figli, provvisoriamente affidati ai genitori. Era il 1932. Trovò lavoro come balia. Ebbe cinque figli, due dei quali morirono giovani, seguiti dal marito, mai più rivisto. Si riunì con i figli a Biella dove visse e trascorse gli ultimi anni circondata dai suoi cari. Aveva una straordinaria forza d’animo che la sorreggeva nei momenti di dolore e nelle fatiche. Aveva sempre un sorriso e affetto per tutti. Morì a Biella il 23 settembre 1987, andando incontro alla morte con pace e serenità. 


7. Elena Boschet De Vallier

Foto di Elena Boschet che tiene in braccio la bisnipote Elena
Elena Boschet con la bisnipote, sua omonima

Elena Boschet è originaria di Celarda di Feltre; dopo due anni di lavoro presso l’ospedale cittadino, all’età di diciotto anni decise di emigrare in Svizzera, dove conobbe quasi subito Adelio De Vallier, originario di Laste di Rocca Pietore, emigrante nella zona di Neuchatel come operaio meccanico specializzato. Era il 1947. Si sposarono dopo un anno e dopo due ebbero la loro prima figlia, Diana, a cui fece presto compagnia il secondogenito, Walter. Dopo quattro anni in terra elvetica, Adelio decise di andarsene dall’Europa e raggiungere il Sudafrica, dove ottenne quasi subito un contratto di lavoro. Elena però era incinta e quindi decise di partorire prima il terzo figlio, Gianni, e di affrontare poi il viaggio da sola, senza il marito. Nel settembre 1958 Elena si imbarcò ad Amsterdam sulla nave Duncan con i tre figli per raggiungere il marito a Vanderbijlpark, città situata nella zona nordorientale del Paese. Qui si sistemarono inizialmente in una casetta in affitto ed Elena ricorda la felicità di vivere in un clima caldo, dove i bambini potevano giocare all’aria aperta per buona parte dell’anno. Dopo alcuni anni si trasferirono a Johannesburg, dove nacque l’ultimo figlio, Patrick. Per un certo periodo, quando i ragazzi cominciarono a frequentare l’università, Elena lavorò in un supermercato, dove era a capo del personale, costituito perlopiù da uomini e donne di colore, dai quali ha sempre avuto rispetto e collaborazione. Dopo più di quarant’anni di Sudafrica, nel 1999 Adelio e Elena decisero di tornare definitivamente a Laste, pur con l’intenzione di ritornare di tanto in tanto a Johannesburg, dove risiedono Walter e Gianni con le loro famiglie; Diana invece si è stabilita a Londra e Patrick a Brisbane, Australia. Purtroppo però, poco dopo il ritorno, Adelio si ammalò di un male incurabile che lo condusse alla morte. Tuttora Elena è in Sudafrica e la pandemia non le consente il rientro nel Bellunese; si gode l’ultima bisnipote, che porta il suo stesso nome. Dolcezza, umiltà e grande spirito di adattamento sono tratti caratteristici di questa donna straordinaria, un’altra espressione di laboriosità e dedizione alla famiglia, tipica della nostra emigrazione. 


8. Caterina De Martin Rosso

Caterina De Martin Martinon era originaria di Sedico, dove era nata nel 1848. Rimasta vedova del marito Giovanni Rosso, dopo pochi mesi lasciò il suo paese e la povertà che vi regnava e con i sette figli, tutti minorenni, emigrò verso il Brasile. Era il 20 dicembre 1888. Il figlio più piccolo aveva due anni, il maggiore venti ed aveva con sé la moglie diciassettenne, originaria di Barp. Si stabilirono nella zona di Criciuma, nello Stato di Santa Caterina, che raggiunsero da Laguna grazie al treno con uno dei primi viaggi sulla neonata linea ferroviaria. Ottenne inizialmente un unico lotto per sé e per i figli: qui costruirono la loro casa e vissero coltivando la terra. A Morro Albino, Caterina morì nel 1920.


9. Maria Cason Tonet

foto di Maria Cason, forse ventenne

Maria Cason nacque a Pren di Feltre il 14 settembre 1916, decima figlia di Giuseppe e Antonietta Buttol, i quali si erano conosciuti in Svizzera a fine Ottocento, entrambi emigranti. Giuseppe e Antonietta vissero per un certo periodo a Zurigo, dove ebbero i loro primi quattro figli, poi rientrarono a Pren; tra un figlio e l’altro Giuseppe continuò ad emigrare, dapprima in Svizzera e in Francia come muratore e poi nell’Agro Pontino per le bonifiche dell’epoca fascista. Anche i figli conobbero presto l’emigrazione, chi in “Tirol”, come si diceva allora, ciodet presso i contadini trentini, chi nell’edilizia, chi a servizio di qualche famiglia facoltosa della pianura. Maria partì a diciassette anni e la sua prima destinazione fu Milano, a servizio presso una famiglia del centro città. Il lavoro era duro, cominciava presto il mattino e finiva tardi la sera; solo la domenica pomeriggio aveva qualche ora libera. Teneva qualche soldo per sé, il resto lo spediva a casa. Di solito faceva il contratti di un anno o un anno e mezzo, poi finalmente faceva ritorno a casa per riabbracciare genitori e fratelli, quelli che c’erano. Si fermava un mese circa, poi ripartiva, con un altro contratto in mano. Anche se non si trovava bene come lavoro, cercava di tener duro almeno un anno, per timore che si dicesse che non aveva voglia di lavorare. Anche a distanza di tanti anni, Maria ricordava tutti i nomi dei datori di lavoro, dei quali conservava un bel ricordo. Tutte le sue amiche del paese sono partite per andare a servizio, molte sono ritornate, qualcuna ha trovato marito là. Nel ’49 si è sposata con Antonio Tonet. Dopo qualche anno a Pren, ha seguito il marito che emigrava come muratore stagionale in Svizzera; inizialmente lavorò come cameriera in un ristorante, poi prestò servizio presso una famiglia di Zurigo, occupandosi della casa e dei due figli della coppia. Nel 1961 rientrarono definitivamente in Italia e si sistemarono nella casetta che avevano costruito con tanti sacrifici. Maria morì a Pren il 27 aprile 2017. 


10. Orsolina Zatta Cecchin

foto di Orsolina Zatta

Orsolina Zatta nacque il 6 luglio 1923 a Tomo di Feltre, figlia di Umberto e Ida Marin. Dopo la seconda guerra mondiale, sperando in un futuro migliore al di là dell’oceano, decise di emigrare in Brasile con il marito Guerrino Cecchin e la figlia Rita. Si stabilirono nel Rio Grande do Sul, dove furono agricoltori per i primi quattro anni; poi Guerrino ebbe problemi agli arti inferiori, così decisero di trasferirsi nel centro urbano di Caxias, dove Orsolina fu impiegata nella fabbrica di tavole di compensato Gethal per quindici anni. In Brasile la coppia ebbe altre due figlie, Rosalba e Rosanna. Orsolina e Guerrino seppero mantenere anche in Brasile la loro cultura italiana, specialmente per ciò che concerne la religiosità e la cucina. Ambedue speravano un giorno di poter rivedere l’Italia: “la è dentro qua tel còr” diceva Orsolina riferendosi alla sua amata Patria. Nelle ore libere amava camminare e coltivare il piccolo orto, accontentandosi delle piccole cose. Con allegria, generosità e umiltà lasciò un esempio di vita per tutti. Morì il 3 febbraio 2012. 

A cura di Luisa Carniel

Zia Rosa

Questo breve racconto triste narra le vicende reali di due donne, zia e nipote, nate e vissute in terra bellunese. Il risvolto interessante della testimonianza si concretizza nella presa di coscienza e nella capacità di reazione delle protagoniste che decidono la propria vita, sovvertendo precetti primitivi e abbozzando così, nel bene e nel male, un nuovo modello di femminilità. Il motore di tale rivoluzione, in questo come in molti altri casi, è stata l’emigrazione.

In queste gelide sere, a filò nella stalla del Conte, noi ragazze abbiamo voce solo per qualche canto e per recitare il rosario. Sono brevi intervalli, per il resto del tempo parlano i padri e le madri, i nonni, gli zii e i fratelli più grandi. A tratti irrompono gli strilli dei bimbi che vengono subito rimproverati dai grandi.
Io taccio. Guardo la condensa di umidi fiati che cola in gocce luccicando lungo la calce dei muri e non riesco ad unirmi al coro di preghiere.
Lo spesso manto candido che in questi giorni ha sommerso ogni cosa impedisce ai giovanotti di farci visita ed è meglio così, perché Angelo non ci sarebbe e non verrà più. L’ultima volta che è stato a filò da noi, acceso in viso per la camminata, gli occhi lucenti ed il sorriso complice, mio padre l’ha chiamato fuori dalla stalla e gli ha detto di non ritornare perché sono già promessa ad un altro e la sua insistenza mi disturba.
Non è vero, Angelo mi piace. Mi piace più della mia stessa vita che senza di lui non ha importanza. Ma il figlio del macellaio ha chiesto la mia mano, me l’ha detto la mamma con un filo di voce, e questo significa pranzo e cena per il mio futuro. Non odio i miei vecchi per questa orribile ingiustizia, hanno undici figli da sfamare e la credenza sempre vuota. Pensano sinceramente di aver fatto la scelta migliore per me. Le mie due sorelle maggiori, compiuti dieci anni, erano già a servizio fora par le spese (nota 1) ed io ho la fortuna di essere abbastanza carina da turbare il sonno al corpulento Osvaldo, che gira per il paese sempre vestito a festa con il panciotto e le scarpe di pelle. In questi giorni però vorrei semplicemente smettere di respirare e penso continuamente alla sorella di mio padre che ha patito la mia stessa umiliazione e che ha avuto la forza di ribellarsi, subendo in seguito la vendetta del destino.
Quanta sofferenza, povera zia, ora la posso comprendere.
La zia Rosa, all’età di sedici anni, era emigrata per guadagnarsi il pane. Erano gli anni 20 del ‘900. Il paese foresto le aveva richiesto ansie e sacrifici ma, allo stesso tempo, le aveva spalancato una finestra sul mondo. Libera dai rigidi vincoli familiari, si era innamorata e promessa ad un bravo giovane del sud Italia, anch’egli esule per lavoro. Non aveva avuto il coraggio di scrivere la notizia ai suoi genitori ma, rientrata in famiglia per un Natale, aveva informato la madre dell’intenzione di sposarsi. Per tutta risposta aveva ricevuto la sfuriata e gli schiaffi del padre che l’aveva ammonita con il vecchio detto: moglie e buoi dei paesi tuoi.
Rosa era ripartita per la Svizzera con la valigia piena di risentimento e la ferma volontà di decidere la sua vita. Qualche tempo dopo aveva ricevuto uno scritto dal suo genitore con il quale le annunciava che, per il suo bene, un possidente vedovo, abitante nel paese di S. Giustina, l’avrebbe condotta a nozze e le avrebbe assicurato una vita da signora, purché rientrasse subito in Patria. A fine lettera le faceva sapere che se non avesse ubbidito, non avrebbe più potuto considerarsi sua figlia.

Rosa non fece ritorno a casa, sposò il suo amato Giuseppe, ebbe sei figli e rientrò in Italia solo quando suo marito si ammalò gravemente e dovette lasciare il duro lavoro di minatore. Non ricucì mai più i rapporti con i suoi familiari, che mantennero fede alla loro condanna e quando lo sposo morì ancora giovane, si ritrovò sola ad allevare la prole con indicibili privazioni.

Mentre penso alla vita della zia alzo gli occhi e, attraverso un velo di ragnatele rischiarato ad intervalli dalla tremula luce di una candela, incrocio lo sguardo benevolo di S. Antonio, inchiodato sopra la porta d’entrata con il compito di proteggere gli animali. Provo a considerare chi potrebbe soccorrermi in questa sventura che non riesco a confidare del tutto nemmeno a me stessa. Le mie sorelle più grandi sono lontane; quando tornano a casa hanno modi sempre più sbrigativi, molte curiosità da sussurrarsi e nessuna voglia di ascoltare i fastidi della vita familiare. I ferri da calza che tengo nelle mani sono immobili. La mamma, seduta accanto a me, continua a rammendare vecchi vestiti sui rattoppi precedenti e ogni tanto rimprovera i miei fratelli più piccoli che si rincorrono sollevando nuvole di polvere. Poi riprende a discorrere sommessamente con le cognate, ognuna china sul proprio lavoro, delle faccende legate alla prossima lissia (nota 2). La nonna, madre di mio padre, mentre fa scorrere il filo di lana attraverso le mani nodose, mi lancia occhiate di biasimo per la mia fiacchezza.
Sento intensa la presenza di queste donne e per la prima volta prendo in considerazione le loro esistenze, cerco di indovinare il percorso delle loro vite di ragazze, di mogli e di madri. Mi rendo conto che le ho sempre avute vicine, ma non le ho mai intimamente conosciute; non ci sono confidenze, rivelazioni, spiragli di interiorità. Dalle donne di casa ricevo piccoli e grandi insegnamenti riguardo il governo del focolare, della stalla e dei figli; dal padre, dagli zii e dal nonno ascolto i principi che regolano i lavori della campagna, ma nulla trapela in merito ai sentimenti. Tra queste genti, pudiche e sobrie, si usa così. Le voci degli uomini che si alternano e a tratti si sovrappongono aumentando d’intensità, sono un unico rumore lontano e fastidioso.
Angelo è un giovanotto vivace ed orgoglioso, avrà pensato che l’ho tradito per un piatto di minestra e non mi cercherà più.
Sono sola. Respiro il morbido, tiepido odore della Bisa, la mite vecchia mucca di casa. Appoggio la fronte alla sua grande mole e sento che si fa più vicina. Improvvisamente, mi vedo vestita con l’abito scuro delle suore e distinguo la mia strada… domani, dopo la messa, parlerò con don Luigi.

Dal diario di Suor Maria Innocente.
Belluno, 27 gennaio 1934

Note:

1 a servizio per vitto e alloggio
2 il bucato