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Una famiglia dell’Alpago

di Renée Götz

Il mio bisnonno Giovanni Bortoluzzi (nato a Tignes nel 1875) andò in Germania prima della Grande Guerra per lavorare alla costruzione della ferrovia a Dieringhausen (vicino a Gummersbach), uno snodo ferroviario importante nella parte Nord-Ovest della Germania, oggi parte del “Nordrhein-Westfalen”, vicino al fiume Reno e alle grandi industrie e miniere di carbone presenti in quella zona. Emigrò con suo fratello Domenico e altri compaesani.

Entrambi i fratelli sposarono donne tedesche. Domenico rimase in Germania con la sua famiglia e purtroppo, con il passare degli anni, abbiamo perso i contatti.

Mia nonna, figlia di Giovanni, nacque in Germania nel 1917. Alla fine del conflitto, Giovanni, sua moglie e la bimba piccola tornarono in Italia. Giovanni lavorò alla costruzione dell’impianto idraulico che consente di produrre elettricità con l’acqua del lago di Santa Croce e gli altri laghi nella zona di Vittorio Veneto, e anche all’impianto di Soverzene.

Mia bisnonna lavorava la terra della famiglia in Alpago, dalla quale ricavava il necessario per il sostentamento. Divideva una mucca con una sorella del marito e nei campi coltivava il mais per la farina da polenta e la canapa per realizzare tessuti per vestiti e lenzuola.

Mia nonna andò a scuola e suo padre le fece ripetere l’ultimo anno (la terza elementare, se non sbaglio) perché imparasse di più, visto che non poteva permettersi di mandarla alle medie (figurasi alle superiori!). Nel pomeriggio e durante le vacanze, lavorava da una zia come sarta e aiutava sua madre nei campi e a prendersi cura della mucca e delle galline. Imparò a cucire ed era bravissima, sapeva fare tutto, anche completi da uomo.

Già da ragazza, a soli undici anni, sapeva che, se fosse rimasta in Alpago, non avrebbe avuto speranza di fare una vita diversa dai suoi antenati. Parlava di questo con suo padre già a quell’età. Così, a tredici anni, decise di andare a servizio da una famiglia benestante a Busto Arsizio. Viaggiò da sola. Raccontava sempre che non aveva mai visto un treno prima del viaggio a Milano e che era molto impressionata dalla grande locomotiva a vapore.

Dormiva in una stanza sotto il tetto della casa, freddissima d’inverno e caldissima d’estate. Doveva lavorare molto duro per i signori di casa, che non erano molto benevoli. Non le piaceva ricordare quei tempi. Mandava a casa i soldi che guadagnava, per aiutare i genitori.

Nel 1935, suo padre morì e sua madre rimase sola con il fratello più giovane, Alfredo (detto Guido). Lui voleva diventare prete e frequentò il seminario. Però, per ragioni a noi ignote, decise di lasciare prima di finire gli studi e andò in Venezuela a trovare la sua fortuna. A quei tempi, tanti italiani andavano in Venezuela, un Paese con un’economia crescente. Anche uno dei cugini di mia nonna e di Guido andò in Venezuela a lavorare per un paio d’anni. Lui scriveva alla mamma in francese. Lei parlava francese, come tanti della sua regione in Germania, vicina alla Francia.

Nel 1936, un terremoto devastò la conca dell’Alpago e anche a Tignes ci furono molti danni. La nonna raccontava che aveva dormito con sua mamma nei campi per parecchi giorni dopo la scossa principale. Era ottobre, faceva freddo, e avevano molta paura che arrivassero altre scosse.

Mia nonna andò poi a Cortina d’Ampezzo durante la Seconda guerra mondiale e lavorò come cameriera ai piani in un albergo.

Una storia che raccontava spesso di quei tempi era quella della squadra tedesca dei mondiali di sci, che alloggiava nell’albergo dove lavorava e che per colazione mangiava pappa d’avena ogni mattina, una cosa che sembrava molto strana agli italiani, ma che la nonna sapeva dar loro la forza necessaria per le competizioni.

Giovanni Bortoluzzi a Dieringhausen con i compagni di lavoro.

Una storia di famiglia

Tutto inizia con l’emigrazione in Germania della bisnonna, Maria Frigo Mosca, nata a Villapiccola d’Auronzo e sposata con un Gregori di Vodo. Nel 1870 Maria emigra in Germania con il figlio Antonio. Aprono la prima azienda vendendo gelato con i carretti.

In quegli anni le gelaterie devono ancora nascere e la prima viene aperta alla fine del secolo. In breve tempo l’impresa si sviluppa fino a contare una quindicina di carretti. In Germania nacque Antonia, mia nonna materna, dalla quale, a Vodo, nel 1915, nacque mia madre, Maddalena.

Mio nonno paterno Mariano, invece, nel 1875 emigrò nel New Jersey e si stabilì nella località di Clifton-Passaic, dove inizialmente lavorò come vetraio. Ben presto, però, scoprì il gelato. Attorno al 1915 ritornò in Cadore, spostandosi poi a Galliate di Novara. Alcuni anni più tardi emigrò anche lui in Germania, sempre vendendo gelato. Mio padre Giacomo, nato nel 1906, gli succedette per alcuni anni alla guida dell’azienda di Galliate, fino a quando, nel ’33, emigrò in Olanda con un amico di Vodo.

La prima domenica di bel tempo uscirono in piazza con i carrettini luccicanti, la giacca bianca e il berretto. Furono però fermati da un vigile che, dopo aver controllati i permessi – trovati regolari – comunicò loro che in quella città era vietata la vendita ambulante di domenica. Fu una doccia fredda, ma dovettero adeguarsi, non senza qualche sacrificio: sobbarcarsi per l’intera stagione pedalate di venticinque, trenta chilometri e raggiungere altri borghi.

Sempre in buona armonia, nella stagione seguente si separarono e si stabilirono altrove. Rimasto solo, mio padre chiamò in Olanda la fidanzata. La morale e la religione di quei tempi non vedevano di buon occhio la convivenza per cui lei dovette sistemarsi da alcuni parenti in una città vicina.

Nell’aprile del ’36 finalmente si sposarono e aprirono la loro prima gelateria all’Aja. Nel giugno del ’37 nacqui io. Nel ’44 nacque mia sorella Lina. Nella mia infanzia frequentai alternativamente le scuole in Italia e in Olanda. In casa si parlava esclusivamente ladino o italiano, ma fuori solo olandese. Così nel tempo libero ho conseguito – primo italiano – il diploma di traduttore-interprete giurato italiano-olandese.

Ho svolto la mia professione in molti ministeri e in particolare per la polizia e per i tribunali, fino al Consiglio di Stato. La maggiore delle nostre figlie, Magda, nata a Pieve di Cadore, è docente di olandese all’Università di Milano. La seconda, Claudia, gestisce la gelateria fondata da me e mia moglie, Alida Burrei, originaria di Nebbiù. Anche lei proviene da una famiglia di gelatieri: nel 1938 il padre vendeva gelato con gente di Venas a Cracovia.

Io e Alida siamo sposati da cinquantuno anni. Da quasi sedici abbiamo ceduto il passo ai giovani e, pur con i limiti dovuti all’età, cerchiamo di goderci la vita viaggiando e coccolandoci vicendevolmente con i nostri nipotini: una bimba di tredici anni e due maschietti di dodici e dieci.

Mario Talamini-Brugo

Vita nei boschi

Provengo da una famiglia di mezzadri, originaria di Combai, in provincia di Treviso. A Combai rimanemmo fin quando avevo quindici anni. Poi, avendo dei parenti nel bellunese, a Farra di Mel, ci trasferimmo a Casteldardo. Eravamo una famiglia molto numerosa. Io sono il settimo di undici fratelli, ed ero sempre quello che rimaneva a casa, mentre gli altri andavano all’estero.

A vent’anni, quindi, decisi di andare via anch’io, perché chi rimaneva doveva lavorare sempre, anche la domenica. Nell’aprile del ‘62 feci i bagagli. Avevo la valigia di un fratello già emigrato in Australia. Era tornato dopo tre anni, si era sposato e di lì a qualche giorno sarebbe dovuto ripartire. Tutto era pronto, ma ebbe un incidente. Allora presi io la sua valigia. Partii da Trichiana. Non sapevo niente. Sapevo solo di avere un fratello più vecchio a Saarbrücken, in Germania, che mi aspettava alla stazione.

Eravamo in otto, in un sottotetto dove si entrava a malapena. Ci consegnò un sacco di juta, ci indicò dove era situato il fienile e così dormimmo in questa soffitta.

Durante il viaggio, per tutta la notte non chiusi occhio. Non sapevo qual era la mia stazione, dove potevo arrivare, comunque nella carrozza cercai di farmi capire e mi avvisarono al momento che dovetti scendere. Mio fratello, con la vespa, mi portò dal padrone nella segheria dove lavorava, a Dudweiler, e mi presentò. Il padrone ci mandò in una specie di dormitorio in cui alloggiavano altri italiani. Eravamo in otto, in un sottotetto dove si entrava a malapena. Ci consegnò un sacco di juta, ci indicò dove era situato il fienile e così dormimmo in questa soffitta.

Il primo periodo lo passai in segheria. Poi ci misero su una sorta di baracca mobile, su quattro ruote, che all’interno aveva l’attrezzatura da lavoro. Il lavoro consisteva nell’addentrarsi nei boschi della Foresta Nera a sbucciare i tronchi col coltello. Eravamo pagati a cottimo. Ci portavano all’interno delle foreste, a cinque o sei chilometri dal paese, ci preparavano la legna lungo la strada e noi dovevamo asportare la corteccia e riaccatastare i tronchi. Si guadagnavano quattro marchi al metro cubo.

Le foreste sembravano senza fine, ma di acqua nemmeno l’ombra. Ce la portavano con i camion quando venivano a caricare la legna. Tre o quattro taniche, che dovevano bastare per tutto.

Appena svegli al mattino si iniziava a lavorare e si andava avanti fin che le forze ci sostenevano. I più vecchi erano più furbi e individuavano subito la catasta dove sarebbero riusciti a fare più lavoro. In questa situazione, il principale problema era rappresentato dalla mancanza d’acqua. Le foreste sembravano senza fine, ma di acqua nemmeno l’ombra. Ce la portavano con i camion quando venivano a caricare la legna. Tre o quattro taniche, che dovevano bastare per tutto. In sostanza, non si poteva quasi mai lavarsi e d’estate era davvero un grosso problema. Le dita dei piedi mi sanguinavano a causa del sudore e della polvere. Anche bere era difficile. Ci portavano la birra e la grappa, altra seccatura.

Non scorderò mai il mal di denti che fui costretto a soffrire in Germania. Per cercare di dormire alla sera l’unica soluzione era mettere dei grani di sale grosso tra un dente e l’altro e così riuscivo a riposare un po’. Talvolta i camion con l’acqua non arrivavano, e ci capitò di rimanere senza una goccia anche per tre giorni interi. Feci questa vita per due anni, tra il ‘62 e il ‘63. Dal punto di vista economico ne valeva la pena, mandavo a casa un bel gruzzolo di soldi, ma il lavoro era estremamente duro. Si lavorava fino a Natale, poi si faceva una pausa di un paio di mesi e si ricominciava da capo.

Camillo Moro

Camillo Moro al lavoro nella foresta

Terra straniera… Quanta malinconia!

Sciacca, la mia città d’origine, si affaccia sul Mediterraneo come ultimo lembo d’Italia. Proprio lì, in quella terra piena di sole, sono nato il 1° aprile 1949. La mia famiglia era composta da otto maschi e una sola femmina. Cinque fratelli sono purtroppo mancati in tenera età, a causa di malattie per la cui cura all’epoca non esistevano ancora medicine. Mia madre era casalinga. Mio papà faceva il pescatore: lavorava per la Marineria di Sciacca. Lì si poteva pescare il famoso “pesce azzurro”, ovvero sardine e acciughe.

In giovane età lavoravo presso una fornace e seguivo a volte mio padre nelle uscite di pesca. Amavo la mia terra, fatta di gente umile e laboriosa. Mio padre, dotato di una voce dalla bellezza non comune, cantava volentieri, pur nella fatica del lavoro. Mi sembrava che nel suo canto rivolgesse preghiere al Signore, ringraziandolo di averlo fatto nascere in quell’ambiente ubertoso, ricco di fascino, abitato da gente umile e modesta.

Ero affascinato dal canto già da bambino e sin da allora venivo reclutato in occasione di sposalizi e feste. Un mio amico che lavorava in Germania mi fece sapere come in quel Paese ci fossero delle serie possibilità di lavoro, così come di tenere intrattenimenti musicali, dato che lì la canzone italiana era molto apprezzata. Era l’8 agosto del 1966 quando lasciai quella mia terra, che amavo tanto, ma che avrebbe potuto offrirmi solamente il mestiere di pescatore. Distaccarsi dai luoghi che ti hanno visto nascere diventa sempre un piccolo e intimo dramma. La valigia era pronta.

«Ma dove stai andando, Giovanni?» mi chiedevo. Arrivato al confine mi accorsi che piangevo.

Le onde di un mare increspato da un vento leggero sembravano portare un dolce canto sussurrato, che mi scendeva fin nel profondo dell’anima. Il profumo di zagara pareva farsi più intenso e le lacrime dei miei genitori erano come dolorose stilettate che ferivano il mio cuore. Il viaggio in treno fu lunghissimo. Guardavo continuamente dal finestrino. Scomparivano alla mia vista paesi su paesi e nella mia mente serpeggiavano mille pensieri: «Ma dove stai andando, Giovanni?» mi chiedevo. Arrivato al confine mi accorsi che piangevo.

Giunto a destinazione provai un senso di smarrimento, ma il mio amico mi trovò subito un posto di lavoro in una fabbrica metallurgica. Ben presto cominciai a conoscere circoli frequentati da italiani, accomunati dallo stesso destino. Sempre più spesso venivo chiamato a cantare canzoni nostalgiche che ricordavano la nostra Italia lontana. In principio cantavo in piccoli ritrovi, poi la mia fama si espanse e potei esibirmi nelle grandi piazze. La mia notorietà di emigrante si allargò e mi feci conoscere nelle città di Aschaffenburg, Francoforte, Würzburg. Ricevevo qualche compenso da aggiungere al mio stipendio e mi sentivo felice, perché potevo mandare qualche marco a sostegno della mia famiglia.

Nel 1969 venni invitato a Castrocaro, dove fra un migliaio di partecipanti, tra i quali figuravano i nomi di Michele e Rita Pavone, riuscii ad entrare nei dodici finalisti. Avevo già un’esperienza alle spalle, poiché nel 1964, alla festa degli sconosciuti a Reggio Calabria, condotta da Teddy Reno, riuscii a classificarmi al quarto posto. Quella manifestazione fu vinta da Dino, che sarebbe diventato poi un cantante di fama internazionale.

Il mio sole incominciò a risplendere quando incontrai sulla mia strada Maria Teresa Mosena, anch’essa emigrata.

In Germania la mia vita si divideva fra lavoro e canto. A volte provavo quella solitudine tipica di ogni emigrante quando si trova lontano. Ma il mio sole incominciò a risplendere quando incontrai sulla mia strada Maria Teresa Mosena, anch’essa emigrata. Lei era di Zoldo e ricordava i suoi monti che facevano da cornice alla borgata di Casal. Io ricordavo il mare che pareva accarezzare Sciacca. Una nostalgia in comune, lenita dal nostro amore. Ci sposammo a Forno di Zoldo nel 1972 e io continuai nel mio lavoro in fabbrica, lei in una sartoria, fino al momento del pensionamento. Il nostro amore fu completo con la nascita di due figlie.

Ma ciò che si ha nel cuore non si può abbandonare. Così continuai a cantare sempre per accontentare il pubblico, formato in gran parte da emigranti. Qualche anno fa venni chiamato persino a Miami Beach, a intrattenere gli invitati al matrimonio di un mio compaesano emigrato tanti anni prima negli Stati Uniti. Ora vivo tra Sciacca e Zoldo. Talvolta penso a quei giorni lontani della mia emigrazione, in special modo quando mi classificai secondo a un Festival in Germania nel 1976, per poi vincerlo l’anno seguente.

Ricordo sempre le fatiche di mio padre, che lavorava giorno e notte, l’amore di mia madre per la famiglia, gli amici emigranti incontrati nella mia vita. Non ho fatto del canto una professione. Tuttavia, mi sento onorato di aver allietato le serate dei miei connazionali in terra straniera, facendo conoscere quell’Italia che, attraverso le musica, viene sempre apprezzata e stimata. “Terra straniera… Quanta malinconia!”*. Mi torna ora alla mente questa canzone e mi accorgo che una lacrima scende dai miei occhi.

Giovanni Soldano

*”Terra straniera”, canzone di Claudio Villa.

Una famiglia di gelatieri

Oltre a guardare avanti e dare sempre il meglio di noi stessi, credo sia importante guardare anche indietro e conservare il nostro passato, o meglio quello dei nostri genitori, nonni, bisnonni. Mantenere viva la memoria, come un fuoco che arde di continuo, senza mai fermarsi. Dare voce a una parte del nostro essere, per ricordare chi sono stati i nostri avi e raccontare un po’ della loro vita.

I gelati, come gli occhiali, sono sempre stati i simboli del Bellunese, della nostra cultura, della nostra gente, e hanno dato lavoro a tantissime persone che hanno fatto conoscere all’estero l’aria e il profumo delle nostre montagne. La freschezza dei gelati riportava ai rigidi inverni e il sorriso dei gelatieri, che servivano i coni pieni di crema, rimandavano alla bellezza delle cime infuocate dai tramonti.

Nelle fredde città della Germania, lungo le vie percorse da grandi palazzi ottocenteschi e dal viavai dei tedeschi che camminavano guardinghi con un giornale in mano per i marciapiedi, si vedeva una specie di negozio, con un’insegna scritta in tedesco che riportava i nomi delle nostre montagne, come “Pelmo”, “Cristallo”, e cognomi bellunesi come “De Lorenzo” o ”De Pellegrin”, o ancora nomi come “Freddi Desideri”. Ma non erano negozi, erano le gelaterie dei nostri avi, gelaterie che davano un senso di amicizia, fratellanza e dove si ritrovavano i tedeschi di qualsiasi età per gustare la bontà dei gelati, con un’infinità di gusti a disposizione.

Anche io sono nipote di gelatieri. Il mio prozio Wiliam da giovane andò in Germania, assieme a una sorella, a fare i gelati. Lavoravano nella stessa gelateria. Poi, una volta tornato a Feltre, imparò il mestiere del barbiere da un certo Pietro, che aveva il negozio in piazza Isola, e quando non aveva ancora la macchina si faceva tutto il tragitto in bicicletta da Fonzaso a Feltre, nove chilometri andata e ritorno ogni giorno e con qualsiasi tempo. Fino a quando, presa la macchina e fatta un po’ di esperienza, si aprì un suo negozio a Feltre, vicino alla stazione, dove ancora oggi i figli portano avanti il suo lavoro.

Si può dire che tutta la sua famiglia è formata da gelatieri. Mia nonna (sua sorella), un altro fratello e altre sorelle, tutti presero la via dei gelatieri. All’inizio, quando avevano quattordici anni, partivano con delle famiglie zoldane, da Forno, e andavano a fare le stagioni nelle gelaterie in Germania o a pochi chilometri dall’Olanda, e se ne stavano lontani da casa da fine febbraio a inizio ottobre, quando iniziava l’inverno.

Mia nonna mi raccontava che i suoi quindici anni li compì proprio in Germania. Di sera la padrona la portava in giro per Francoforte, con tutti i negozi chiusi e un silenzio assordante. Era l’unico momento libero che aveva perché nel resto del tempo era impegnata a lavorare in gelateria.

Un’altra cosa che mi diceva era che la padrona la obbligava a tagliarsi i capelli, perché per quel mestiere non dovevano essere lunghi, e che il giorno prima di partire per la Germania andava a dormire nella casa dei padroni a Forno di Zoldo e vedeva il Pelmo, che si mostrava con tutta la sua maestosità e bellezza sopra il paese. Il ricordo di questa montagna ce l’ha sempre avuto nel cuore, e ancora oggi ne parla con fierezza e ammirazione.

Matteo Pizzeghello