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Una vita nella ristorazione

di Loris Doriguzzi

Sono l’ottavo di tredici fratelli e sorelle. Ecco i loro nomi, dal primogenito: Silvano, Armida, Vincenzo, Rita, Mario, Mara, Luciano, Loris, Nadia, Rosanna, Annalisa, Mauro e Fabio.

Mio padre, Severino Doriguzzi, era camionista, trasportava tronchi e in inverno faceva il servizio neve in zona. Mia mamma, Maria, nata Pomarè, naturalmente badava alla casa e ai figli, anche con l’aiuto di parenti e conoscenti.

Quasi tutti i maschi intrapresero il mestiere del papà e le sorelle si stabilirono a Rimini già in giovane età. Armida prese la strada per la Germania, nella città di Saarbrücken (Saarland), insieme alla cugina Floriana, nel settore gelateria per alcuni anni, poi – con i loro futuri mariti – lavorarono nel settore barbiere/parrucchiera. Erano gli anni Sessanta. 

Vincenzo dopo aver fatto il corso di scuola alberghiera a Jesolo raggiunse la sorella Armida e si mise subito all’opera nel ramo ristorazione.

Dopo avervi presentato brevemente la mia famiglia, vengo alla mia storia.

Dopo le scuole elementari a Casada e le medie a Santo Stefano, mi consigliarono la scuola ITC “P.F. Calvi” di Belluno, e così feci. Alloggiavo all’Istituto Salesiano Agosti con il piacere di essere insieme ad alcuni paesani del Comelico, erano gli anni tra il 1970 e il 1971.

In settembre mi fu fatta la proposta di visitare Armida e Vincenzo a Saarbrücken. Non esitai, anche se avevo solo sedici anni, e così il 1° ottobre mio padre e mia madre mi accompagnarono a Fortezza e lì presi il treno per la prima volta.

Fu un viaggio lungo e con molte fermate, durò un giorno e una notte. Arrivato in stazione a Saarbrücken, c’era Vincenzo che mi aspettava. Che gioia vederlo!

Andammo poi dalla sorella Armida per brindare, dopodiché Vincenzo mi portò a casa sua: con grande piacere, aveva preparato una stanza tutta per me.

Ricordo l’angoscia che avevamo nel sentire le notizie giornaliere del terremoto in Friuli.

Dopo qualche giorno andammo al ristorante dove lavorava Vincenzo con l’amico Carlo Incannova, poi venne il padrone, Nico Patanisi, e dopo la presentazione mi chiese se volevo iniziare a lavorare lì come apprendista di sala. Il giorno dopo cominciò la mia vita in gastronomia.

Nel ’72 Nico mi trasferì in un altro ristorante di sua proprietà, il “Milano”, situato in centro città, e gestito da suo cugino Paolo. Nel ’73 il “Milano” venne venduto, così per me cominciarono alcune esperienze a Saarbrücken nei ristoranti con cucina europea.

Nel ’74, eccomi all’Hotel Inglese Windsor, casa di grande prestigio e clientela altolocata. Fu un periodo bellissimo, anche perché a quell’epoca c’era il mio amico Tommaso Comis. Poi venne il ristorante “Csarda”, con cucina magiara e musica dal vivo. Anche lì, molte soddisfazioni.

Nel 1976 Vincenzo, Carlo e io facemmo l’apertura del Palais Royal a Völklingen-Fürstenhausen. Era una struttura con ristorante, bar e discoteca. Il proprietario, Michele Airo, resterà indimenticabile.

In quel periodo vennero a trovarci papà e mamma. Ricordo l’angoscia che avevamo nel sentire le notizie giornaliere del terremoto in Friuli.

Nel 1977 Nico Patanisi vendette il suo ristorante a noi tre, grazie anche a un cliente banchiere che ci approvò un consistente credito senza alcuna garanzia. Grazie ancora, Alfred!

Nel 1978 conobbi la mia futura moglie, Monique Haag, nativa di Sarreguemines, nella Lorena francese, con la quale avemmo, nel 1982, una figlia di nome Diana.

Nel 1980, il ristorante “Milano” era in vendita, così Vincenzo e io lo acquistammo e il 1° febbraio era già in nostra gestione. Da allora sono passati più di quarant’anni. Siamo molto grati di avere avuto personale competente, fedele e corretto. Io lasciai l’azienda qualche anno fa, Vincenzo è ancora attivo e tanto di cappello a lui e alla compagna Elke.

Vorrei ringraziare di cuore, oltre a Vincenzo, anche mia moglie e mia figlia per il supporto datomi in tutti questi anni.

Una famiglia dell’Alpago

di Renée Götz

Il mio bisnonno Giovanni Bortoluzzi (nato a Tignes nel 1875) andò in Germania prima della Grande Guerra per lavorare alla costruzione della ferrovia a Dieringhausen (vicino a Gummersbach), uno snodo ferroviario importante nella parte Nord-Ovest della Germania, oggi parte del “Nordrhein-Westfalen”, vicino al fiume Reno e alle grandi industrie e miniere di carbone presenti in quella zona. Emigrò con suo fratello Domenico e altri compaesani.

Entrambi i fratelli sposarono donne tedesche. Domenico rimase in Germania con la sua famiglia e purtroppo, con il passare degli anni, abbiamo perso i contatti.

Mia nonna, figlia di Giovanni, nacque in Germania nel 1917. Alla fine del conflitto, Giovanni, sua moglie e la bimba piccola tornarono in Italia. Giovanni lavorò alla costruzione dell’impianto idraulico che consente di produrre elettricità con l’acqua del lago di Santa Croce e gli altri laghi nella zona di Vittorio Veneto, e anche all’impianto di Soverzene.

Mia bisnonna lavorava la terra della famiglia in Alpago, dalla quale ricavava il necessario per il sostentamento. Divideva una mucca con una sorella del marito e nei campi coltivava il mais per la farina da polenta e la canapa per realizzare tessuti per vestiti e lenzuola.

Mia nonna andò a scuola e suo padre le fece ripetere l’ultimo anno (la terza elementare, se non sbaglio) perché imparasse di più, visto che non poteva permettersi di mandarla alle medie (figurasi alle superiori!). Nel pomeriggio e durante le vacanze, lavorava da una zia come sarta e aiutava sua madre nei campi e a prendersi cura della mucca e delle galline. Imparò a cucire ed era bravissima, sapeva fare tutto, anche completi da uomo.

Già da ragazza, a soli undici anni, sapeva che, se fosse rimasta in Alpago, non avrebbe avuto speranza di fare una vita diversa dai suoi antenati. Parlava di questo con suo padre già a quell’età. Così, a tredici anni, decise di andare a servizio da una famiglia benestante a Busto Arsizio. Viaggiò da sola. Raccontava sempre che non aveva mai visto un treno prima del viaggio a Milano e che era molto impressionata dalla grande locomotiva a vapore.

Dormiva in una stanza sotto il tetto della casa, freddissima d’inverno e caldissima d’estate. Doveva lavorare molto duro per i signori di casa, che non erano molto benevoli. Non le piaceva ricordare quei tempi. Mandava a casa i soldi che guadagnava, per aiutare i genitori.

Nel 1935, suo padre morì e sua madre rimase sola con il fratello più giovane, Alfredo (detto Guido). Lui voleva diventare prete e frequentò il seminario. Però, per ragioni a noi ignote, decise di lasciare prima di finire gli studi e andò in Venezuela a trovare la sua fortuna. A quei tempi, tanti italiani andavano in Venezuela, un Paese con un’economia crescente. Anche uno dei cugini di mia nonna e di Guido andò in Venezuela a lavorare per un paio d’anni. Lui scriveva alla mamma in francese. Lei parlava francese, come tanti della sua regione in Germania, vicina alla Francia.

Nel 1936, un terremoto devastò la conca dell’Alpago e anche a Tignes ci furono molti danni. La nonna raccontava che aveva dormito con sua mamma nei campi per parecchi giorni dopo la scossa principale. Era ottobre, faceva freddo, e avevano molta paura che arrivassero altre scosse.

Mia nonna andò poi a Cortina d’Ampezzo durante la Seconda guerra mondiale e lavorò come cameriera ai piani in un albergo.

Una storia che raccontava spesso di quei tempi era quella della squadra tedesca dei mondiali di sci, che alloggiava nell’albergo dove lavorava e che per colazione mangiava pappa d’avena ogni mattina, una cosa che sembrava molto strana agli italiani, ma che la nonna sapeva dar loro la forza necessaria per le competizioni.

Giovanni Bortoluzzi a Dieringhausen con i compagni di lavoro.

Una storia di famiglia

Tutto inizia con l’emigrazione in Germania della bisnonna, Maria Frigo Mosca, nata a Villapiccola d’Auronzo e sposata con un Gregori di Vodo. Nel 1870 Maria emigra in Germania con il figlio Antonio. Aprono la prima azienda vendendo gelato con i carretti.

In quegli anni le gelaterie devono ancora nascere e la prima viene aperta alla fine del secolo. In breve tempo l’impresa si sviluppa fino a contare una quindicina di carretti. In Germania nacque Antonia, mia nonna materna, dalla quale, a Vodo, nel 1915, nacque mia madre, Maddalena.

Mio nonno paterno Mariano, invece, nel 1875 emigrò nel New Jersey e si stabilì nella località di Clifton-Passaic, dove inizialmente lavorò come vetraio. Ben presto, però, scoprì il gelato. Attorno al 1915 ritornò in Cadore, spostandosi poi a Galliate di Novara. Alcuni anni più tardi emigrò anche lui in Germania, sempre vendendo gelato. Mio padre Giacomo, nato nel 1906, gli succedette per alcuni anni alla guida dell’azienda di Galliate, fino a quando, nel ’33, emigrò in Olanda con un amico di Vodo.

La prima domenica di bel tempo uscirono in piazza con i carrettini luccicanti, la giacca bianca e il berretto. Furono però fermati da un vigile che, dopo aver controllati i permessi – trovati regolari – comunicò loro che in quella città era vietata la vendita ambulante di domenica. Fu una doccia fredda, ma dovettero adeguarsi, non senza qualche sacrificio: sobbarcarsi per l’intera stagione pedalate di venticinque, trenta chilometri e raggiungere altri borghi.

Sempre in buona armonia, nella stagione seguente si separarono e si stabilirono altrove. Rimasto solo, mio padre chiamò in Olanda la fidanzata. La morale e la religione di quei tempi non vedevano di buon occhio la convivenza per cui lei dovette sistemarsi da alcuni parenti in una città vicina.

Nell’aprile del ’36 finalmente si sposarono e aprirono la loro prima gelateria all’Aja. Nel giugno del ’37 nacqui io. Nel ’44 nacque mia sorella Lina. Nella mia infanzia frequentai alternativamente le scuole in Italia e in Olanda. In casa si parlava esclusivamente ladino o italiano, ma fuori solo olandese. Così nel tempo libero ho conseguito – primo italiano – il diploma di traduttore-interprete giurato italiano-olandese.

Ho svolto la mia professione in molti ministeri e in particolare per la polizia e per i tribunali, fino al Consiglio di Stato. La maggiore delle nostre figlie, Magda, nata a Pieve di Cadore, è docente di olandese all’Università di Milano. La seconda, Claudia, gestisce la gelateria fondata da me e mia moglie, Alida Burrei, originaria di Nebbiù. Anche lei proviene da una famiglia di gelatieri: nel 1938 il padre vendeva gelato con gente di Venas a Cracovia.

Io e Alida siamo sposati da cinquantuno anni. Da quasi sedici abbiamo ceduto il passo ai giovani e, pur con i limiti dovuti all’età, cerchiamo di goderci la vita viaggiando e coccolandoci vicendevolmente con i nostri nipotini: una bimba di tredici anni e due maschietti di dodici e dieci.

Mario Talamini-Brugo

Vita nei boschi

Provengo da una famiglia di mezzadri, originaria di Combai, in provincia di Treviso. A Combai rimanemmo fin quando avevo quindici anni. Poi, avendo dei parenti nel bellunese, a Farra di Mel, ci trasferimmo a Casteldardo. Eravamo una famiglia molto numerosa. Io sono il settimo di undici fratelli, ed ero sempre quello che rimaneva a casa, mentre gli altri andavano all’estero.

A vent’anni, quindi, decisi di andare via anch’io, perché chi rimaneva doveva lavorare sempre, anche la domenica. Nell’aprile del ‘62 feci i bagagli. Avevo la valigia di un fratello già emigrato in Australia. Era tornato dopo tre anni, si era sposato e di lì a qualche giorno sarebbe dovuto ripartire. Tutto era pronto, ma ebbe un incidente. Allora presi io la sua valigia. Partii da Trichiana. Non sapevo niente. Sapevo solo di avere un fratello più vecchio a Saarbrücken, in Germania, che mi aspettava alla stazione.

Eravamo in otto, in un sottotetto dove si entrava a malapena. Ci consegnò un sacco di juta, ci indicò dove era situato il fienile e così dormimmo in questa soffitta.

Durante il viaggio, per tutta la notte non chiusi occhio. Non sapevo qual era la mia stazione, dove potevo arrivare, comunque nella carrozza cercai di farmi capire e mi avvisarono al momento che dovetti scendere. Mio fratello, con la vespa, mi portò dal padrone nella segheria dove lavorava, a Dudweiler, e mi presentò. Il padrone ci mandò in una specie di dormitorio in cui alloggiavano altri italiani. Eravamo in otto, in un sottotetto dove si entrava a malapena. Ci consegnò un sacco di juta, ci indicò dove era situato il fienile e così dormimmo in questa soffitta.

Il primo periodo lo passai in segheria. Poi ci misero su una sorta di baracca mobile, su quattro ruote, che all’interno aveva l’attrezzatura da lavoro. Il lavoro consisteva nell’addentrarsi nei boschi della Foresta Nera a sbucciare i tronchi col coltello. Eravamo pagati a cottimo. Ci portavano all’interno delle foreste, a cinque o sei chilometri dal paese, ci preparavano la legna lungo la strada e noi dovevamo asportare la corteccia e riaccatastare i tronchi. Si guadagnavano quattro marchi al metro cubo.

Le foreste sembravano senza fine, ma di acqua nemmeno l’ombra. Ce la portavano con i camion quando venivano a caricare la legna. Tre o quattro taniche, che dovevano bastare per tutto.

Appena svegli al mattino si iniziava a lavorare e si andava avanti fin che le forze ci sostenevano. I più vecchi erano più furbi e individuavano subito la catasta dove sarebbero riusciti a fare più lavoro. In questa situazione, il principale problema era rappresentato dalla mancanza d’acqua. Le foreste sembravano senza fine, ma di acqua nemmeno l’ombra. Ce la portavano con i camion quando venivano a caricare la legna. Tre o quattro taniche, che dovevano bastare per tutto. In sostanza, non si poteva quasi mai lavarsi e d’estate era davvero un grosso problema. Le dita dei piedi mi sanguinavano a causa del sudore e della polvere. Anche bere era difficile. Ci portavano la birra e la grappa, altra seccatura.

Non scorderò mai il mal di denti che fui costretto a soffrire in Germania. Per cercare di dormire alla sera l’unica soluzione era mettere dei grani di sale grosso tra un dente e l’altro e così riuscivo a riposare un po’. Talvolta i camion con l’acqua non arrivavano, e ci capitò di rimanere senza una goccia anche per tre giorni interi. Feci questa vita per due anni, tra il ‘62 e il ‘63. Dal punto di vista economico ne valeva la pena, mandavo a casa un bel gruzzolo di soldi, ma il lavoro era estremamente duro. Si lavorava fino a Natale, poi si faceva una pausa di un paio di mesi e si ricominciava da capo.

Camillo Moro

Camillo Moro al lavoro nella foresta

Terra straniera… Quanta malinconia!

Sciacca, la mia città d’origine, si affaccia sul Mediterraneo come ultimo lembo d’Italia. Proprio lì, in quella terra piena di sole, sono nato il 1° aprile 1949. La mia famiglia era composta da otto maschi e una sola femmina. Cinque fratelli sono purtroppo mancati in tenera età, a causa di malattie per la cui cura all’epoca non esistevano ancora medicine. Mia madre era casalinga. Mio papà faceva il pescatore: lavorava per la Marineria di Sciacca. Lì si poteva pescare il famoso “pesce azzurro”, ovvero sardine e acciughe.

In giovane età lavoravo presso una fornace e seguivo a volte mio padre nelle uscite di pesca. Amavo la mia terra, fatta di gente umile e laboriosa. Mio padre, dotato di una voce dalla bellezza non comune, cantava volentieri, pur nella fatica del lavoro. Mi sembrava che nel suo canto rivolgesse preghiere al Signore, ringraziandolo di averlo fatto nascere in quell’ambiente ubertoso, ricco di fascino, abitato da gente umile e modesta.

Ero affascinato dal canto già da bambino e sin da allora venivo reclutato in occasione di sposalizi e feste. Un mio amico che lavorava in Germania mi fece sapere come in quel Paese ci fossero delle serie possibilità di lavoro, così come di tenere intrattenimenti musicali, dato che lì la canzone italiana era molto apprezzata. Era l’8 agosto del 1966 quando lasciai quella mia terra, che amavo tanto, ma che avrebbe potuto offrirmi solamente il mestiere di pescatore. Distaccarsi dai luoghi che ti hanno visto nascere diventa sempre un piccolo e intimo dramma. La valigia era pronta.

«Ma dove stai andando, Giovanni?» mi chiedevo. Arrivato al confine mi accorsi che piangevo.

Le onde di un mare increspato da un vento leggero sembravano portare un dolce canto sussurrato, che mi scendeva fin nel profondo dell’anima. Il profumo di zagara pareva farsi più intenso e le lacrime dei miei genitori erano come dolorose stilettate che ferivano il mio cuore. Il viaggio in treno fu lunghissimo. Guardavo continuamente dal finestrino. Scomparivano alla mia vista paesi su paesi e nella mia mente serpeggiavano mille pensieri: «Ma dove stai andando, Giovanni?» mi chiedevo. Arrivato al confine mi accorsi che piangevo.

Giunto a destinazione provai un senso di smarrimento, ma il mio amico mi trovò subito un posto di lavoro in una fabbrica metallurgica. Ben presto cominciai a conoscere circoli frequentati da italiani, accomunati dallo stesso destino. Sempre più spesso venivo chiamato a cantare canzoni nostalgiche che ricordavano la nostra Italia lontana. In principio cantavo in piccoli ritrovi, poi la mia fama si espanse e potei esibirmi nelle grandi piazze. La mia notorietà di emigrante si allargò e mi feci conoscere nelle città di Aschaffenburg, Francoforte, Würzburg. Ricevevo qualche compenso da aggiungere al mio stipendio e mi sentivo felice, perché potevo mandare qualche marco a sostegno della mia famiglia.

Nel 1969 venni invitato a Castrocaro, dove fra un migliaio di partecipanti, tra i quali figuravano i nomi di Michele e Rita Pavone, riuscii ad entrare nei dodici finalisti. Avevo già un’esperienza alle spalle, poiché nel 1964, alla festa degli sconosciuti a Reggio Calabria, condotta da Teddy Reno, riuscii a classificarmi al quarto posto. Quella manifestazione fu vinta da Dino, che sarebbe diventato poi un cantante di fama internazionale.

Il mio sole incominciò a risplendere quando incontrai sulla mia strada Maria Teresa Mosena, anch’essa emigrata.

In Germania la mia vita si divideva fra lavoro e canto. A volte provavo quella solitudine tipica di ogni emigrante quando si trova lontano. Ma il mio sole incominciò a risplendere quando incontrai sulla mia strada Maria Teresa Mosena, anch’essa emigrata. Lei era di Zoldo e ricordava i suoi monti che facevano da cornice alla borgata di Casal. Io ricordavo il mare che pareva accarezzare Sciacca. Una nostalgia in comune, lenita dal nostro amore. Ci sposammo a Forno di Zoldo nel 1972 e io continuai nel mio lavoro in fabbrica, lei in una sartoria, fino al momento del pensionamento. Il nostro amore fu completo con la nascita di due figlie.

Ma ciò che si ha nel cuore non si può abbandonare. Così continuai a cantare sempre per accontentare il pubblico, formato in gran parte da emigranti. Qualche anno fa venni chiamato persino a Miami Beach, a intrattenere gli invitati al matrimonio di un mio compaesano emigrato tanti anni prima negli Stati Uniti. Ora vivo tra Sciacca e Zoldo. Talvolta penso a quei giorni lontani della mia emigrazione, in special modo quando mi classificai secondo a un Festival in Germania nel 1976, per poi vincerlo l’anno seguente.

Ricordo sempre le fatiche di mio padre, che lavorava giorno e notte, l’amore di mia madre per la famiglia, gli amici emigranti incontrati nella mia vita. Non ho fatto del canto una professione. Tuttavia, mi sento onorato di aver allietato le serate dei miei connazionali in terra straniera, facendo conoscere quell’Italia che, attraverso le musica, viene sempre apprezzata e stimata. “Terra straniera… Quanta malinconia!”*. Mi torna ora alla mente questa canzone e mi accorgo che una lacrima scende dai miei occhi.

Giovanni Soldano

*”Terra straniera”, canzone di Claudio Villa.