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Cesare e Rosa Cassol

Giorno di santa Barbara: 4 dicembre 1911. Cesare Cassol e la moglie Rosa, dal porto di Genova, salpano alla volta degli Stati Uniti. Rosa è incinta di sei mesi; ha lasciato ai suoceri i figlioletti Osvaldo e Agnese. Osvaldo ha quattro anni, Agnese dieci mesi appena. Lui ha trentun anni ed un passato d’emigrante alle spalle; è il suo terzo viaggio in America e già da ragazzo lavorava stagionalmente, accompagnato dal padre, in Croazia ed in Germania, per costruire strade. La meta del viaggio ora è la miniera di carbone di un centro in Pennsylvania; già lui conosce il posto. Il viaggio dura dodici giorni, passati da Rosa accanto all’oblò, sopraffatta da una nausea incessante, incrementata dal dondolio della nave. Ma ecco la baia, compare New York, ed ecco l’isola, l”isle” appunto dove sosterranno per un accertamento medico e per il controllo dei documenti. Va tutto bene e presto Rosa e Cesare prenderanno alloggio a Twin Rocks (le rocce gemelle) in Pennsylvania, in una comoda casetta di legno vicina all’ingresso delle miniere, all’imboccatura delle gallerie. Twin Rocks è un paese americano come tanti, disposto a scacchiera, con le casette in legno costruite dalle compagnie che gestiscono le due miniere. Cesare inizia subito il suo lavoro; la sua specialità è l’abile uso che sa fare della dinamite, competenza che gli consente di estrarre anche cinque carri di carbone al giorno: e la Company paga di conseguenza. Nel febbraio 1912 nasce Elvira, la prima bambina che avranno negli States: seguiranno poi Tony ed Eugenio; l’ultimo figlio nascerà ancora in Italia. Rosa è una donna attiva. Nella casetta di legno tiene a pensione i nuovi arrivati, dà loro consigli e procura loro una sistemazione organizzando gli alloggiamenti. E lei che aiuta il medico ad assistere le donne, polacche, irlandesi ed italiane che partoriscono. E lei che prepara e distribuisce il cibo per i familiari ed ospiti; è lei infine che mesce il vino ma soprattutto la grappa, distillata clandestinamente in tempo di proibizionismo.  L’attività della distillazione, iniziata in sordina utilizzando le uve selvatiche della zona, si andò sviluppando in un clima di tolleranza amministrativa. Gli abili distillatori della valle del Piave, infatti, non temevano la concorrenza dei polacchi che distillavano alcool dai tutoli e dal legno, producendo bevande altamente tossiche per il contenuto di tannini e metanolo.  Fu per questo che Rosa potè sviluppare l’attività fino al limite del tollerabile: come poteva venir giustificato in un paese l’arrivo di un vagone carico di splendida, rosata uva della California?  Della volontà degli amministratori di proteggere l’attività dei Bellunesi in relazione all’ottima qualità dei prodotti smerciati, non si poteva certo abusare!  Ma la perspicacia e lo spirito di iniziativa erano messi alla prova. II tessuto sociale era piuttosto eterogeneo, il gruppo bellunese, di Formegan, era pacifico, riservato ma attento. I meridionali italiani, detti generalmente “Siciliani” giravano in gessato e cappello Borsalino, armati. Racconta Elvira: “È un giovedì di sera, gli uomini vogliono giocare a carte, si sistemano a casa di uno di loro, “paesano”; ma la partita non giunge a termine; una discussione accesa, il boss infila la mano in tasca e, senza estrarre l’arma, preme il grilletto; ma la pallottola si infila nelle robuste doppie cinture dei pantaloni e c’è il tempo per una reazione: sette sono i morti, e sul tavolo rimangono ancora le carte del gioco interrotto”. I bellunesi sono lavoratori tenaci e rispettosi, e nella “terra boscosa di Penn” (Pennsylvania) trovano lavori e si industriano in mille modi per prendere il denaro e ritornare presto a casa. Nel 1924, col presentimento di una crisi economica molto forte e con una situazione troppo tesa nel settore “distillati” Cesare e Rosa tornano in Italia. Ed Osvaldo ed Agnese, che hanno ormai 17 e 13 anni, conoscono per la prima volta i loro fratelli nati oltreoceano e reincontrano quelli che sono i loro genitori, anche se sono solo degli estranei. Il cambio è abbastanza buono; più di trecentomila lire portano a casa Cesare e Rosa. Una fortuna. Molti soldi saranno dati in prestito ad amici e conoscenti, a tasso agevolatissimo, i più a fondo perduto. La salute di nonno Cesare è già compromessa, la silicosi mina ormai i suoi polmoni e, come per tanti, sarà la maledetta pussiera a dettare la sua fine. Rosa vive più a lungo, senza perdere la sua grinta e la sua caratteristica di donna energica. Così, come per tante altre famiglie, l’America è stata il modo coraggioso per costruire una base di vita dignitosa per un futuro nella propria terra. Un futuro per la vita degli altri, al prezzo della propria. 

Nel marzo del 1986 Elvira è ritornata a rivedere quei luoghi, dopo sessantadue anni, col fratello Tony e la cugina Veglia Ren. Hanno ritrovato il paese pressoché immutato da allora e reincontrato e riconosciuto alcune persone, compagni di giochi e conoscenti di allora. 

Fonte: BNM n. 9/1986

Non voglio perdermi nulla

Nella foto Gloria e i fratelli Elmer, Geno, Francesco e Silvio in una foto scattata in Italia prima del ritorno negli Stati Uniti
Nella foto Gloria e i fratelli Elmer, Geno, Francesco e Silvio in una foto scattata in Italia prima del ritorno negli Stati Uniti

La storia di emigrazione di Gloria Zucco ha origini lontane: parte dal nonno, Bortolo Zucco, il quale arrivò in America nel 1901 per lavorare nelle miniere di carbone della Pennsylvania; la scarsità di lavoro qua lo spinse a oltrepassare l’oceano perchè doveva mantenere sua moglie e i loro quattro figli, rimasti a Frassené di Fonzaso.

Nel 1913 Bortolo fu raggiunto da suo figlio Antonio “Tony” Zucco, che aveva allora 18 anni. Tony e suo padre lavorarono insieme come minatori nella cittadina di Lowber, PA. Nel frattempo Tony incontrò una ragazza italiana, Adelina Bracco, e si sposarono nel 1919; ebbero tre figli maschi e poi una figlia a cui diedero il nome di Gloria. Gloria aveva solo sei mesi quando nel 1928 Tony mandò la moglie Adelina e i suoi quattro figli in Italia a conoscere la suocera e le sorelle. Al suo arrivo qui Adelina scoprì di essere incinta e così il quinto figlio, Francesco, nacque a Frassenè nel 1929. Quella che doveva essere una breve visita risultò durare 6 lunghi anni, perchè Tony perse il suo lavoro di minatore a causa della Grande Depressione Americana del 1929. Finalmente nel 1934 Tony riuscì a mettere insieme i soldi sufficienti per il viaggio, così la moglie e i cinque figli poterono far ritorno negli Stati Uniti. Gloria non ha mai dimenticato la sua fanciullezza a Frassenè ed ha un vivido ricordo anche della sua partenza dall’Italia: tutto il paese li accompagnò allora a piedi alla stazione di Feltre, dove presero il treno per Genova: qui si imbarcarono sulla nave Conte di Savoia che raggiunse la costa statunitense. Nel 1945 Gloria sposa Lester Mulholland, figlio di una padovana emigrata negli Stati Uniti nel 1903. Lester ha servito la flotta statunitense nella Seconda Guerra Mondiale e poi ha lavorato per la Westinghouse Electric Corporation. Gloria e Lester hanno avuto quattro figli: Linda, Lee, Gary e Bruce. Dapprima Gloria rimase a casa ad accudire i suoi figli, poi per 18 anni lavorò come cuoca presso la locale scuola elementare. Ha cucinato anche per la sua chiesa, St. Januarius (San Gennaro), preparando specialità italiane per il clero e i membri della comunità parrocchiale. Da quel lontano 1934 non aveva più fatto ritorno in Italia; è arrivata nel settembre scorso, in compagnia dei suoi figli e dei suoi nipoti. Non vedeva l’ora di poter riscoprire i sapori dei cibi della nostra terra (in particolare la polenta) e di rivedere il paese dove ha trascorso i suoi primi anni di vita. A chi si preoccupava se camminare per il centro storico di Feltre o andare sul Campon d’Avena fosse faticoso per lei, coi suoi occhi attenti ed estasiati rispondeva: “I don’t want to miss a thing!”- non voglio perdermi niente!

Storia raccolta da Luisa Carniel,
con la collaborazione di Sara Marcon

Emigranti bellunesi si sentono a casa nella “Citè del minatore” in Belgio

Da sinistra a destra Rino, Noemi e Riccardo sotto la statua della regina Elisabetta
Da sinistra a destra Rino, Noemi e Riccardo sotto la statua della regina Elisabetta

I fratelli ‘Bob’ Riccardo (81) e Rino (76) e la sorella Noemi (79) Sponga sono nati a Eisden (Belgio) negli anni trenta, e vivono ancora nel quartiere giardino della “Cité del minatore”. “Nostro padre , Attilio, con radici a Sedico (Belluno), è nato a Selbeck in Germania. Da lì è venuto in Belgio via Francia con due fratelli, prima a Charleroi, poi a Beringen e infine, nel 1926, a Eisden. Seguirono quattro sorelle” – così Bob inizia a raccontare la storia di una famiglia di emigranti bellunesi – “ Nostro padre ha incontrato qui nella cité nostra madre Mafalda Brentel, anche lei venuta dalle Alpi, da Aune di Sovramonte, vicino a Feltre”.

“Siamo tutti nati nella stessa casa, dove ho poi portato un figlio e una figlia nel mondo – continua Noemi. “Papà aveva solo 48 anni quando, dopo 30 anni lavoro pesante nella miniera di carbone, dopo sei mesi di pensione è deceduto a causa della polvere di carbone nei polmoni. Triste destino di molti dei suoi amici minatori della sua generazione!”, dice Rino, che pure ha lavorato per diversi anni nella miniera di carbone di Eisden, dove anche Bob, cominciando a 14 anni, ha lavorato per 30 anni.

Soprattutto gli anni della guerra hanno lasciato una profonda impressione. “Nel giardino dei nostri vicini, una bomba è esplosa” ricorda Rino. “Tutte le finestre nella casa sono andate in mille pezzi e il soffitto è venuto giù,” racconta Noemi che, insieme con i fratelli, è cresciuta all’ombra del parco reale, costruito in onore della visita della regina Elisabetta.

“Abbiamo trascorso tutta la nostra vita qui a Eisden. Ora non vogliamo più andare via da qui. A volte ritorniamo a Belluno in montagna. L’atmosfera delle Dolomiti non si trova nella nostra regione in Belgio”.

Jos Miscoria (Eisden – Belgio)

L’eroina di Monongah

Caterina Davia con il marito

“L’eroina” di Monongah ha finalmente, per tutti, un volto ed una storia più precisa. Questa donna, con un gesto di grande amore, ma anche di forte denuncia, lottò contro la dimenticanza e volle tenere sempre alto il ricordo della tragedia di Momongah. Negli anni sollevò dalla miniera tanto materiale da innalzare, dinanzi a casa sua, una vera e propria “collina di carbone”. A lei è andato, lo scorso 6 dicembre a Campobasso una medaglia d’oro “alla memoria” dedicatale dalla Ugl (Unione Generale del Lavoro).
Il 6 dicembre del 1907 a Monongah (West Virginia – USA), si verificò una delle più gravi tragedie minerarie che causò la morte di centinaia e centinaia di minatori, moltissimi dei quali italiani. A questa storia si è legata nel tempo la vicenda di quella che per tutti, fino ad oggi, era solamente Caterina Davia.

Questa donna, vedova di un minatore morto a Monongah, continuò per 29 anni a recarsi da casa sua alla miniera, oltre tre miglia, dove prelevava un sacco di carbone che riportava poi dinanzi alla sua abitazione, tanto da realizzare una vera e propria “collina di carbone”. Il suo intento, nella convinzione che il marito fosse rimasto seppellito nella miniera, era quello di rendere più lieve l’opprimente peso che gravava sui resti dei minatori.
In realtà, per una doverosa e a lei dovuta precisione, questa donna si chiamava Catterina De Carlo ed era nata a Domegge di Cadore il 21.11.1864 e sposata con Vittorio Davià (o Da Vià) (nella foto), anche lui nato a Domegge di Cadore il 3.10.1886.

La coppia mise al mondo cinque figli , nessuno dei quali perì nella tragedia (erroneamente si parla di due ragazzi morti). Già all’indomani della tragedia Catterina, rimasta sola in un mondo che non conosceva e che le era ostile, reagì con la forza della disperazione per tutelare i suoi bambini, ai quali garantì una decorosissima esistenza, ma mai dimenticò il marito e la tragedia. Da qui il suo gesto che portò Padre Briggs ( un sacerdote che spese la sua esistenza per non far dimenticare Monongah) a definirla “simbolo delle eroine di Monongah”. Si calcola che la “collina di carbone” ribattezzata “collina dell’amore” fosse composta da almeno 300 tonnellate di carbone. Catterina, fino all’ultimo giorno della sua vita (9 agosto 1936), non smise mai di lottare per i suoi figli, aiutò le altre donne e soprattutto lottò perché sulla tragedia di Monongah non cadesse l’oblio. La medaglia d’oro, con la scritta: “Ad una meravigliosa e coraggiosa donna italiana”, sarà recapitata, negli Stati Uniti, al nipote James E. Davia.

Questo il commento di Geremia Mancini, segretario confederale Ugl, che ha condotto le ricerche ed organizzato del convegno: “Sono felice che da oggi il volto di una “eroina” della nostra sofferta e dolorosa emigrazione possa essere a tutti noto. Così come ritengo giusto che questa intera vicenda diventi “patrimonio condiviso” del nostro Paese e non solo. Anche a Monongah, come a Marcinelle a Courrieres o nelle tante, troppe, altre tragedie del lavoro, si consumò la colpa di uomini contro altri uomini. Contro questo comportamento era ed è giusto lottare sempre. E Catterina di questa battaglia è un simbolo”.

Un incontro in miniera

Minatori

Diversi anni fa mi trovavo a Bruxelles, ospite della Diamant Board, una compagnia costruttrice di macchine e materiali di perforazioni, dove ho tenuto una serie di conferenze sui moderni, per allora, metodi di perforazione. All’Università di Louvain ho incontrato un caro amico, l’ ing. Gorge Van Anderlect, che mi chiese il parere per un problema che aveva in una miniera di carbone in Inghilterra, problema in teoria facile da risolvere, ma in pratica molto difficile: consisteva nel praticare dei fori orizzontali lunghi 400 m. nel banco di carbone, senza uscire dal banco stesso, che servivano a determinare se ci fossero delle sacche di “grisou”, il tanto temuto gas, che è la causa principale delle sciagure nelle miniere di carbone (…).

Decisi di accompagnare l’amico in Inghilterra per rendermi conto in sito cosa si poteva fare per far sì che i fori non deviassero dallo strato di carbone.

Scesi in miniera, e, mentre percorrevamo un cunicolo piuttosto basso, picchiai con l’elmetto in una sporgenza di roccia, e mi lasciai scappare in italiano uno spontaneo “Accidenti a questi maledetti buchi!”. Vicino a me, piegati per lasciarci il passaggio, c’erano due minatori ed uno di questi, mentre cercavo di riaggiustarmi l’elmetto, mi disse: “Siete italiano?” Risposi affermativamente tentando di indirizzare la luce sul mio interlocutore. Era un uomo sui trent’anni; a prima vista poteva anche essere un sudanese tanto era nero; si vedeva solo il candore dei denti e il bianco degli occhi (…).

Mi fermai, volevo sapere come aveva fatto ad arrivare in una miniera di carbone inglese. Mi disse che era calabrese, d’essere sposato con quattro figli e di aver trovato quel lavoro tramite un amico che viveva in Inghilterra, più o meno la storia di tanti. Lavorava in quel posto da una decina di giorni, aveva anche una grande nostalgia dell’Italia e della sua famiglia.

Lo lasciai parlare; intercalava parole in italiano con altre in diletto calabrese e mentre parlava due rigagnoli di lacrime lasciavano i segni sulle guance nere coperte di polvere e non ho potuto fare a meno di pensare che quella polvere si stava accumulando anche nei polmoni. Dopo un paio di frasi di incoraggiamento, che non ho potuto fare a meno di giudicare estremamente banali, lo lasciai; al ritorno lo ritrovai e mi fermai ancora un paio di minuti ad incoraggiarlo. Ricordo che mi prese la mano e prima che potessi ritirarla la baciò facendomi sentire molto imbarazzato, e mentre m’allontanavo sentii che mi diceva “Salutatemi l’Italia”.

Alla sera, con l’auto che mi portava all’aeroporto, sono passato vicino alla miniera e, mentre guardavo i cumuli di carbone che si stagliavano nel cielo come piccole colline, non ho potuto fare a meno di pensare a quel minatore calabrese e spontaneamente credo di aver chiesto per lui la protezione di Santa Barbara, dato che certamente ne aveva bisogno.

Tranquillo Rinaldo