Romildo Gasperin. A 15 anni in fondo a una miniera

Romildo Gasperin, classe 1938, oggi presidente della Famiglia Bellunesi nel Mondo di Fleron, si ritrova con sua madre ed i suoi quattro fratelli la sera del 23 dicembre del 1953 alla stazione ferroviaria di Liegi. Di opportunità in Val de Fontane in comune di Mel dove Romildo è nato non ce n’erano. La fame invece quella sì era tanta in quegli anni! Così la mamma con il ricavato della vendita delle poche cose che avevano a casa acquista i biglietti per il treno. Si partiva per il Belgio senza un chiaro futuro! Dopo quella notte alla stazione di Liegi, racconta Romildo, abbiamo vissuto per 15 giorni nei pressi di Fleron in un dormitorio per immigrati le “cantine”’ come venivano denominate, che dava alloggio a numerosi minatori di varie nazionalità, polacchi, russi e molti altri. Non essendoci letti per tutti dormivano nella stessa branda di chi andava a fare il turno di notte. Solo successivamente ci fu assegnata dalla proprietà della miniera una modestissima abitazione, troppo lusso dire casetta! Romildo ha una data impressa nella sua memoria che ha segnato in maniera toccante la sua gioventù. Il 14 gennaio del 1954 scende per la prima volta nel profondo pozzo nero della miniera di carbone di Weristea, nella zona di Liegi, una delle numerose miniere del bacino. Romildo ha solo 15 anni!
Cosa ricordi di quel giorno?
Un minatore mi disse: ‘’ Dai, che oggi andiamo a fare un giro giù nella miniera”. Entrati nella gabbia (ascensore) mi mise una mano sulla spalla! Al ricordo mi vengono ancora i brividi. D’improvviso mi sono ritrovato in fondo al pozzo dove mi fu mostrata l’organizzazione della miniera. Il secondo giorno con un trenino abbiamo percorso un lungo tratto sottoterra per più di un’ora fino alla vena del carbone dove fui consegnato al mio caposquadra. Mi fu affidato l’incarico di costruire dei muretti di contenimento e sostegno con le pietre degli strati rocciosi nei quali è compressa la vena di carbone che venivano fatti saltare con l’esplosivo. Nella miniera lavoravano circa 1000 addetti in tre turni di lavoro. Io ho sempre lavorato nel turno dalle 2 alle 10. La profondità massima alla quale sono sceso sono stati 1035 metri.
Cosa ti ha lasciato questa esperienza?
Tanta amarezza. E’ difficile descrivere cosa si prova a 15 anni a lavorare in un buco buio sottoterra. Lì in fondo c’è un silenzio spettrale. L’unica luce è quella della tua lampada e poi la paura ed il pericolo! (Romildo porta ancora sulla sua mano sinistra della polvere di carbone nera che si è cicatrizzata a seguito di una ferita che ha riportato al lavoro.) E’ un lavoro sporchissimo. Si lavora come topi sottoterra. La polvere nera del carbone è ovunque; ti entra nel naso, negli occhi e nelle orecchie per non pensare a quella che inevitabilmente respiri e che prima o poi ti distruggerà i polmoni. Per fortuna io ho sempre portato una maschera; credo che sia quella che mi ha salvato dalla ‘’pussiera’’: la silicosi! Io ho lavorato fino al 17 luglio del 1957.
Che ricordi hai della tragedia nella miniera di Marcinelle dell’8 Agosto 1956?
Ho appreso la notizia dalla radio. Tutti nella miniera piangevano per le tragiche notizie dei morti che man mano arrivavano dal Bois de Cazier a Marcinelle. E’ stata una tragedia enorme e se ne parlò tanto anche nei mesi a seguire. Ci sono state numerosi eventi in Belgio quest’anno per ricordare l’accordo del ’46 ed altri sono in programma, per ricordare il trascorso migratorio degli italiani arrivati a lavorare in Belgio, la maggior parte dei quali nelle miniere, ma molti anche nelle industrie siderurgiche e metallurgiche, nelle cave e nei cantieri, e che oggi sono totalmente ben integrati in Belgio. La conferma di ciò si può vedere quando c’è una partita di calcio: alle finestre delle case insieme vengono esposte le bandiera belga e italiana.
Sergio Cugnach

In Belgio ci sono andato per avventura. A quel tempo – era il giugno 1947 e non avevo nemmeno vent’anni – vivevo in città a Belluno e imparavo a fare il calzolaio. Con un amico, guardando sui muri abbiamo visto che avevano affisso dei manifesti in cui chiedevano di andare a lavorare in miniera e promettevano un sacco di cose. Qui c’era miseria e perciò abbiamo deciso di andare. Tanto più che a quel tempo non eravamo nemmeno sicuri che al di là delle nostre montagne ci fosse qualcosa. Ci sembrava un’avventura. Siamo partiti tramite la camera del lavoro di Belluno. Era di domenica, ad accompagnarci c’era un cadorino un po’ più anziano di noi, ma nemmeno lui era troppo esperto. A Padova, aveva guardato gli orari degli arrivi anziché quelli delle partenze e così ci siamo trovati a correre da un binario all’altro. Il treno non aveva carrozze normali, erano carrozze per le merci. Abbiamo viaggiato di notte, con un po’ di paglia per terra. A Milano ci hanno sistemati alla stazione Centrale. Sotto i binari c’erano degli alloggiamenti con letti a castello. Dovevamo aspettare la visita medica. Non sono arrivati subito, siamo rimasti più di una settimana in attesa, con la paura che ci scartassero, invece… i medici ci hanno detto: «Oh, che atleti, e vanno a lavorare in miniera…». Mi hanno perfino chiesto se sapevo correre in bicicletta. Siamo partiti alla sera su un treno. È passata una persona, ci ha guardati e ha detto: «Questi due non li mando a… – non ricordo che nome ha detto –, lì le miniere sono vecchie e pericolose, c’è la polvere e sono malsane. Li mando dove ci sono le miniere moderne» e siamo finiti nel Limburgo, ai confini con l’Olanda, era un bel posto. Abitavamo in una cantina, così la chiamavano. C’erano la mensa, il bar e le casette dove eravamo ospitati. Il primo giorno non avevo nessuna idea di come fosse la miniera. Non se ne parlava nemmeno e nessuno sapeva cosa aspettarsi. Siamo scesi fino a 700 metri dentro a un ascensore grandissimo, nel quale caricavano anche i carrelli, tutti insieme, pigiati. Una volta arrivati, qualcuno ci ha condotti dentro il filone, ci ha messo la pala in mano e un demolitore e così è cominciata. Dentro i cunicoli bisognava strisciare carponi e portarsi appresso il motopicco con un rotolo di gomma per l’aria compressa. Le uniche parole di tedesco che conoscevo erano: “wohin gehst du”, che significa “dove vai”. Ricordo che mentre camminavo nel cunicolo ho sentito chiamare: «Italienisch, wohin gehst du?». Era un tedesco. Lì, infatti, c’erano i prigionieri tedeschi che lavoravano. Si riconoscevano perché la loro lampada aveva un cerchio rosso. Quella dei prigionieri politici, invece, aveva un cerchio blu. Abbiamo cominciato a cavare il carbone con il motopicco e con la pala lo facevamo scivolare nel nastro che lo portava fuori dalla taglia. Vicino a me c’era uno più vecchio, uno che può essere definito un “cattivo maestro”: faceva un buchetto nel carbone, si rannicchiava lì, riparato dall’aria, e diceva: «Basta, basta, che cosa fai? Basta! Abbiamo guadagnato i soldi per noi e anche per il padrone». Poi, però, arrivava il capo arrabbiato, perché nella taglia ognuno aveva un pezzo da finire, segnato col gesso su un sostegno dell’armatura. Quando passava il capo il filone doveva essere vuoto completamente. Si levava il carbone e poi si doveva armare il soffitto, altrimenti crollava. Dopodiché misuravano e ti pagavano in base ai metri cubi di carbone che avevi asportato.Ricordo anche che questo collega più anziano diceva spesso: «L’Italia ci ha venduti per un sacco di carbone», ma io non lo sapevo ancora che c’era stato questo accordo tra il nostro Paese e il Belgio. Non tutti, comunque, ci rimanevano in miniera. C’era chi aveva paura e quelli che non volevano più lavorare li mettevano addirittura in carcere, perché avevano rotto il contratto. Ricordo uno di Nogaré che è stato tre mesi in prigione, ti punivano così. Io, però, a spalare carbone sono rimato poco. Mi hanno spostato nel turno di notte, a disarmare quello che era armato in modo da far spazio alle macchine che venivano posizionate nei punti in cui era stato levato il materiale. Ma di incidenti ce n’erano, altroché. A me non è capitato niente, ma dicevano che ogni tanto qualcuno moriva anche lì, era un mestiere pericoloso. Sono rimasto cinque anni. Poi ho fatto il militare e mi sono trasferito in Inghilterra, a fare un lavoraccio nei laminatoi. Per partire dovevo avere il passaporto e un certificato penale con la dichiarazione del parroco. Era il ’55, ma questi laminatoi erano antichi, di fine ‘800. I rulli per schiacciare il ferro funzionavano ancora con le macchine a vapore. Dopo tre o quattro anni me ne sono andato via, perché quel lavoro era davvero troppo pesante, e mi sono trasferito in Svizzera, a Zugo, a lavorare in una fabbrica di elettrodomestici. Degli anni all’estero ricordo che i rapporti tra noi italiani erano buoni, eravamo tutti amici e ci aiutavamo, ma di fatto eravamo integrati solo tra noi, mentre con la gente del luogo di amicizia ne abbiamo fatta poca.