Tag con la parola “tragedia”

Galleria fatale a Robiei

Canton Ticino, 15 febbraio 1966. Lavori in corso nella galleria d’adduzione dell’impianto idroelettrico tra la valle Bedretto e la val Bavona, la galleria Robiei-Stabiascio-Gries. È notte. Questo lo scenario di una tragedia sul lavoro che colpisce gli emigranti italiani. Una delle innumerevoli e drammatiche vicende che segnano anche il territorio bellunese. 

Uccisi da gas tossici, perdono la vita quindici operai italiani e due pompieri di Locarno.

Dopo tre anni di lavoro senza incidenti che consentono lo scavo di quasi 13 chilometri del tunnel, l’anno prima, a metà 1965, era avvenuta l’apertura del diaframma. Un anno più tardi, quel maledetto 15 febbraio, è prevista l’apertura della saracinesca di scarico che chiude le sezione della galleria a circa tre chilometri dal portale di Robiei. Se ne occupano i pompieri locarnesi e il capo-officina. Tutti e tre muoiono per asfissia. Altri quattordici operai, recatisi sul posto per soccorrere i compagni di lavoro, fanno la stessa fine per la mancanza di ossigeno nel condotto.

È il più grave incidente sul lavoro nella Svizzera italiana. A trovare la morte anche due bellunesi: Angelo Casanova, di Sedico, e Valerio Chenet, di Rocca Pietore.

«Sembra un destino crudele: in ogni disgrazia c’è sempre qualcuno dei nostri», l’amaro commento del nostro mensile Bellunesi nel mondo

«Val Bedretto, Robiei, Stabiascio, altri nomi che escono improvvisamente dall’oscurità e vengono ad aumentare le nostre cognizioni geografiche, accanto a quelli di Mattmark, Sass Fee, Marcinelle, Kariba» riporta la rivista, nel suo primo numero, uscito il 28 febbraio 1966, a pochi mesi dalla nascita dell’allora Associazione Emigranti Bellunesi. 

«Nomi dai più diversi accenti, ma ugualmente carichi di tristezza e destinati a rinnovare un dolore che va facendosi sempre più acuto ed angoscioso. Nomi che ripropongono, nelle sue tragiche dimensioni, il dramma della nostra gente, costretta a cercare, lontano dalla propria terra, il pane per le famiglie, ben sapendo che, assai spesso, la ricerca di una sicurezza economica è un viaggio verso la morte». Così è stato per Casanova e Chenet. 

Per capire chi erano questi due nostri conterranei tragicamente scomparsi, leggiamo ancora da Bellunesi nel mondo del febbraio ’66. 

Il pensiero di loro potrà aiutarci perché la galleria della morte di Robiei non rimanga un freddo e triste ricordo.

«Angelo Casanova aveva quarantaquattro anni. Fu obbligato a trasferirsi a Sedico in seguito alla costruzione del bacino idroelettrico della Valle del Mis, dove abitava con la sua famiglia. “Due volte vittima del progresso – disse di lui il Sindaco di Sedico – una prima volta cacciato di casa, una seconda volta privato della vita”. A Sedico aveva un appezzamento di terra e stava sistemando decorosamente la sua casetta. Aveva ripreso il lavoro in galleria da meno di un mese e con qualche anticipo sul previsto, per guadagnare al più presto quanto gli bastasse ad affrontare i suoi impegni e realizzare il suo sogno. 

Valerio Chenet, il più anziano degli operai italiani: cinquantun anni. Era uomo di grande rettitudine, preciso, competente; un vero esperto del lavoro di galleria, come ci dissero i suoi amici. Da molti anni ormai viveva in Svizzera, a Masciano, nel Ticino. Ma l’aver conservato la cittadinanza italiana indicava in lui il desiderio di ritornare un giorno nel suo bel paese, Rocca Pietore, fra il Civetta e il Marmolada, dove ancora molti lo ricordano. È stato l’ultimo ad essere travato, nella tragica galleria».

«Il pensiero di loro – concludeva l’articolo – potrà aiutarci perché la galleria della morte di Robiei non rimanga un freddo e triste ricordo, ma costituisca un impegno: un impegno di amore e di giustizia: un impegno umano e cristiano: un impegno per tutti».

Cent’anni fa in Australia

La digitalizzazione delle fonti scritte, a livello internazionale, offre sempre nuovi squarci di storie poco conosciute o che, talvolta, possono stravolgere quanto fino a quel momento dato per certo. La riprova sta in un articolo che ci è stato segnalato attraverso Facebook da Darren Piasente, pubblicato dal quotidiano “The Argus” di Melbourne, Victoria, il 17 giugno 1929. Titolo: “Jumbunna Mine Tragedy”. Tema: la tragedia mineraria di Jumbunna, che colpì tre nostri connazionali.

Durante l’inchiesta che ricercava i colpevoli della tragedia nella quale il 3 giugno persero la vita i tre italiani, il giudice Grant, assieme a una giuria di sette persone, ascoltò le testimonianze dei vari responsabili, e di quanti – presenti – potessero fornire dettagli su quanto avvenuto.

Il titolo di un articolo pubblicato il giorno dopo la tragedia, avvenuta il 3 giugno del 1929

Assodato, da parte di tutti, che vi era presenza di aria “cattiva”, che i vari registri e valvole presenti nelle gallerie non riuscirono a purificare, si convenne che i tre italiani, Ferdinando Triziana, J. Triziana e Caeser Pisanti (nomi trascritti erroneamente), che si erano spinti fino a circa 300 yarde (300 metri scarsi) all’interno della galleria, erano morti per asfissia a causa della presenza di “black damp”, un miscuglio soffocante di diossido di carbonio e di altri gas irrespirabili, come testimoniato dal campione analizzato dal reparto chimico della miniera.

Nel corso del dibattimento vi furono rimpalli di colpe da parte delle persone preposte alla sicurezza e fu proposta un’indagine sulle condizioni di questa e di altre miniere della zona, la qual cosa, tuttavia, non riportò in vita i nostri concittadini, originari di Lamon, e dall’articolo non emerge se giustizia fu fatta.

Ma è proprio alla conclusione dell’articolo che veniamo a conoscenza che il giudice Grant, a fine dibattimento, volle evidenziare che Caeser Pisanti perse la vita, nel tentativo di salvare la vita dei suoi compagni. Ed è proprio quest’ultima affermazione che non collima con quanto inciso nella lapide posta il 7 agosto 2009, a San Donato, dove risulta, invece, che fu Ferdinando Tiziani a tentare di salvare i suoi compaesani.

Forse altre fonti potranno fornire una spiegazione e lasciare le tre vittime riposare in pace.

Irene Savaris

La lapide posta il 7 agosto 2009 a San Donato, frazione del comune di Lamon