Archivio di Gennaio, 2021

Gildo De Bortol, padre e marito

Gildo De Bortol in Svizzera

Gigliola De Bortol con la madre desiderano pubblicare la testimonianza di Gildo De Bortol (padre e marito): emigrante in Svizzera per ben 30 anni. Questo scritto è stato steso da Gildo poco prima della sua morte avvenuta il 28 agosto 2009.

“Mi chiamo Ermenegildo De Bortol. Sono nato a Trichiana in provincia di Belluno nel 1934.

Nel 1954 sono partito per andare in Svizzera a lavorare in una ditta edile; mi sono fatto mandare, per interessamento di mio fratello, il contratto di lavoro e il permesso della “Polizia stranieri” obbligatori a quel tempo.
Verso la fine del mese di aprile sono partito per Zurigo via treno con fermata a Chiasso. Passo la dogana e alcuni responsabili della polizia degli stranieri mi portano in un altro luogo, distante circa due chilometri dalla stazione, per la visita – obbligatoria – sanitaria: quelli che non reputavano sani venivano rimandati in Italia.

Arrivato a Zurigo sono andato subito al distretto di Polizia per stranieri per presentare la carte sanitarie che mi erano state rilasciate a Chiasso.
Come abitazione avevo una baracca che era stata scartata dai militari perché vecchia e rotta. In molti fori entrava anche dell’aria. C’era una stufa a legna dove veniva scaldata l’acqua per il bagno. Si lavava la biancheria in un mastello. Eravamo gruppi di quattro, sei persone e ognuno aveva il proprio compito: chi andava a fare la spesa, chi cucinava, chi lavava i piatti e così via. Il 1° maggio 1954 fu il mio primo giorno di lavoro in Svizzera. La paga era di 2,97 franchi all’ora. La stessa paga era riportata nel contratto.

Nel 1957 è nata in Italia mia figlia. Non ho potuto farle frequentare l’asilo (Kindergarten) e di seguito le elementari in Svizzera perché, per i figli nati in Italia non c’era il permesso. Il “permesso annuo” veniva rilasciato solo dopo dieci anni; questo almeno per i nati fuori dalla Svizzera. Io avevo il permesso di soggiorno per tre mesi all’anno.

Ermenegildo De Bortol

Emigranti bellunesi si sentono a casa nella “Citè del minatore” in Belgio

Da sinistra a destra Rino, Noemi e Riccardo sotto la statua della regina Elisabetta
Da sinistra a destra Rino, Noemi e Riccardo sotto la statua della regina Elisabetta

I fratelli ‘Bob’ Riccardo (81) e Rino (76) e la sorella Noemi (79) Sponga sono nati a Eisden (Belgio) negli anni trenta, e vivono ancora nel quartiere giardino della “Cité del minatore”. “Nostro padre , Attilio, con radici a Sedico (Belluno), è nato a Selbeck in Germania. Da lì è venuto in Belgio via Francia con due fratelli, prima a Charleroi, poi a Beringen e infine, nel 1926, a Eisden. Seguirono quattro sorelle” – così Bob inizia a raccontare la storia di una famiglia di emigranti bellunesi – “ Nostro padre ha incontrato qui nella cité nostra madre Mafalda Brentel, anche lei venuta dalle Alpi, da Aune di Sovramonte, vicino a Feltre”.

“Siamo tutti nati nella stessa casa, dove ho poi portato un figlio e una figlia nel mondo – continua Noemi. “Papà aveva solo 48 anni quando, dopo 30 anni lavoro pesante nella miniera di carbone, dopo sei mesi di pensione è deceduto a causa della polvere di carbone nei polmoni. Triste destino di molti dei suoi amici minatori della sua generazione!”, dice Rino, che pure ha lavorato per diversi anni nella miniera di carbone di Eisden, dove anche Bob, cominciando a 14 anni, ha lavorato per 30 anni.

Soprattutto gli anni della guerra hanno lasciato una profonda impressione. “Nel giardino dei nostri vicini, una bomba è esplosa” ricorda Rino. “Tutte le finestre nella casa sono andate in mille pezzi e il soffitto è venuto giù,” racconta Noemi che, insieme con i fratelli, è cresciuta all’ombra del parco reale, costruito in onore della visita della regina Elisabetta.

“Abbiamo trascorso tutta la nostra vita qui a Eisden. Ora non vogliamo più andare via da qui. A volte ritorniamo a Belluno in montagna. L’atmosfera delle Dolomiti non si trova nella nostra regione in Belgio”.

Jos Miscoria (Eisden – Belgio)

Don Dino, il pastore degli emigranti

Don Dino Ferrando

Don Dino era il pastore degli emigranti, umile e generoso. Dava tutto sé stesso per vedere contenti e soddisfatti gli altri. Mi diceva che io era la prima nella lista degli emigrati.

Un giorno mi trovavo in un supermercato per liquidare della merce; si ferma, guarda e prende una tela per fare la bandiera della “Cascina”, per una festa dei Bellunesi; da allora, quando passava, se avevo qualcosa che gli poteva essere utile, glielo presentavo. Era sempre nei cantieri per trovare gli operai e gli portava degli indumenti che gli davano e per aiutarli nelle pratiche scrivendo per loro. Io gli portavo dei pacchi di merce per gli operai.

Un giorno gli ho dato un quadro della Madonna di Morbio da benedire, perché volevo donarlo alla chiesa di Cirvoi; lui mi disse che aveva una persona che lo portava e così è arrivato a destinazione. Mentre mi trovavo da lui mi disse: “Anch’io ho nel cuore il mio paese” e mi fece vedere un calice che avrebbe regalato al suo paese.

Mi fece anche vedere una stanza piena di cose da regalare ai poveri. Lui pensava sempre a come aiutare i bisognosi e non si tirava mai indietro quando c’era da lavorare. Lo si vedeva con l’ascia per tagliare la legna e con la pala per smuovere la terra; dopo alcuni istanti metteva il camice e celebrava la Messa da campo (…).

Don Dino per me è stato un grande amico, la sua morte è stata una grande perdita per me e per tutti quelli che l’hanno conosciuto (…).

Miriam Dal Farra Agustoni

L’eroina di Monongah

Caterina Davia con il marito

“L’eroina” di Monongah ha finalmente, per tutti, un volto ed una storia più precisa. Questa donna, con un gesto di grande amore, ma anche di forte denuncia, lottò contro la dimenticanza e volle tenere sempre alto il ricordo della tragedia di Momongah. Negli anni sollevò dalla miniera tanto materiale da innalzare, dinanzi a casa sua, una vera e propria “collina di carbone”. A lei è andato, lo scorso 6 dicembre a Campobasso una medaglia d’oro “alla memoria” dedicatale dalla Ugl (Unione Generale del Lavoro).
Il 6 dicembre del 1907 a Monongah (West Virginia – USA), si verificò una delle più gravi tragedie minerarie che causò la morte di centinaia e centinaia di minatori, moltissimi dei quali italiani. A questa storia si è legata nel tempo la vicenda di quella che per tutti, fino ad oggi, era solamente Caterina Davia.

Questa donna, vedova di un minatore morto a Monongah, continuò per 29 anni a recarsi da casa sua alla miniera, oltre tre miglia, dove prelevava un sacco di carbone che riportava poi dinanzi alla sua abitazione, tanto da realizzare una vera e propria “collina di carbone”. Il suo intento, nella convinzione che il marito fosse rimasto seppellito nella miniera, era quello di rendere più lieve l’opprimente peso che gravava sui resti dei minatori.
In realtà, per una doverosa e a lei dovuta precisione, questa donna si chiamava Catterina De Carlo ed era nata a Domegge di Cadore il 21.11.1864 e sposata con Vittorio Davià (o Da Vià) (nella foto), anche lui nato a Domegge di Cadore il 3.10.1886.

La coppia mise al mondo cinque figli , nessuno dei quali perì nella tragedia (erroneamente si parla di due ragazzi morti). Già all’indomani della tragedia Catterina, rimasta sola in un mondo che non conosceva e che le era ostile, reagì con la forza della disperazione per tutelare i suoi bambini, ai quali garantì una decorosissima esistenza, ma mai dimenticò il marito e la tragedia. Da qui il suo gesto che portò Padre Briggs ( un sacerdote che spese la sua esistenza per non far dimenticare Monongah) a definirla “simbolo delle eroine di Monongah”. Si calcola che la “collina di carbone” ribattezzata “collina dell’amore” fosse composta da almeno 300 tonnellate di carbone. Catterina, fino all’ultimo giorno della sua vita (9 agosto 1936), non smise mai di lottare per i suoi figli, aiutò le altre donne e soprattutto lottò perché sulla tragedia di Monongah non cadesse l’oblio. La medaglia d’oro, con la scritta: “Ad una meravigliosa e coraggiosa donna italiana”, sarà recapitata, negli Stati Uniti, al nipote James E. Davia.

Questo il commento di Geremia Mancini, segretario confederale Ugl, che ha condotto le ricerche ed organizzato del convegno: “Sono felice che da oggi il volto di una “eroina” della nostra sofferta e dolorosa emigrazione possa essere a tutti noto. Così come ritengo giusto che questa intera vicenda diventi “patrimonio condiviso” del nostro Paese e non solo. Anche a Monongah, come a Marcinelle a Courrieres o nelle tante, troppe, altre tragedie del lavoro, si consumò la colpa di uomini contro altri uomini. Contro questo comportamento era ed è giusto lottare sempre. E Catterina di questa battaglia è un simbolo”.

Un incontro in miniera

Minatori

Diversi anni fa mi trovavo a Bruxelles, ospite della Diamant Board, una compagnia costruttrice di macchine e materiali di perforazioni, dove ho tenuto una serie di conferenze sui moderni, per allora, metodi di perforazione. All’Università di Louvain ho incontrato un caro amico, l’ ing. Gorge Van Anderlect, che mi chiese il parere per un problema che aveva in una miniera di carbone in Inghilterra, problema in teoria facile da risolvere, ma in pratica molto difficile: consisteva nel praticare dei fori orizzontali lunghi 400 m. nel banco di carbone, senza uscire dal banco stesso, che servivano a determinare se ci fossero delle sacche di “grisou”, il tanto temuto gas, che è la causa principale delle sciagure nelle miniere di carbone (…).

Decisi di accompagnare l’amico in Inghilterra per rendermi conto in sito cosa si poteva fare per far sì che i fori non deviassero dallo strato di carbone.

Scesi in miniera, e, mentre percorrevamo un cunicolo piuttosto basso, picchiai con l’elmetto in una sporgenza di roccia, e mi lasciai scappare in italiano uno spontaneo “Accidenti a questi maledetti buchi!”. Vicino a me, piegati per lasciarci il passaggio, c’erano due minatori ed uno di questi, mentre cercavo di riaggiustarmi l’elmetto, mi disse: “Siete italiano?” Risposi affermativamente tentando di indirizzare la luce sul mio interlocutore. Era un uomo sui trent’anni; a prima vista poteva anche essere un sudanese tanto era nero; si vedeva solo il candore dei denti e il bianco degli occhi (…).

Mi fermai, volevo sapere come aveva fatto ad arrivare in una miniera di carbone inglese. Mi disse che era calabrese, d’essere sposato con quattro figli e di aver trovato quel lavoro tramite un amico che viveva in Inghilterra, più o meno la storia di tanti. Lavorava in quel posto da una decina di giorni, aveva anche una grande nostalgia dell’Italia e della sua famiglia.

Lo lasciai parlare; intercalava parole in italiano con altre in diletto calabrese e mentre parlava due rigagnoli di lacrime lasciavano i segni sulle guance nere coperte di polvere e non ho potuto fare a meno di pensare che quella polvere si stava accumulando anche nei polmoni. Dopo un paio di frasi di incoraggiamento, che non ho potuto fare a meno di giudicare estremamente banali, lo lasciai; al ritorno lo ritrovai e mi fermai ancora un paio di minuti ad incoraggiarlo. Ricordo che mi prese la mano e prima che potessi ritirarla la baciò facendomi sentire molto imbarazzato, e mentre m’allontanavo sentii che mi diceva “Salutatemi l’Italia”.

Alla sera, con l’auto che mi portava all’aeroporto, sono passato vicino alla miniera e, mentre guardavo i cumuli di carbone che si stagliavano nel cielo come piccole colline, non ho potuto fare a meno di pensare a quel minatore calabrese e spontaneamente credo di aver chiesto per lui la protezione di Santa Barbara, dato che certamente ne aveva bisogno.

Tranquillo Rinaldo