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Sempre con la valigia

La mia vita da emigrante cominciò nel 1955. Partii da Sedico con destinazione Mauvoisin, nel Canton Vallese, a lavorare per la costruzione di una diga. Il mio permesso di soggiorno era “alterato”: a proposito dell’età, c’erano segnati due anni in più. Ne avevo ancora sedici anni, e avevo dovuto scriverci diciotto, altrimenti non sarei potuto espatriare in Svizzera.

Dopo quindici giorni che ero lì, arrivò la polizia. Confrontarono i dati del passaporto con quelli del permesso di soggiorno e capirono che qualcosa non quadrava. Mi comunicarono che il giorno seguente sarei dovuto andare a Briga, perché il mio passaporto era affidato alla polizia confinaria. Lavoravano con me altri compaesani e mio zio. Proprio mio zio mi portò dal direttore del cantiere, l’ingegner Bernald, una bravissima persona. Telefonò al capo della polizia del Vallese e sistemò la questione.

Nel cantiere di Mauvoisin lavorai tre stagioni, finché terminò la costruzione della diga. Poi mi spostai a Berna, dove stavano costruendo una nuova stazione. Lavorai lì per due anni, poi nel 1960-61 andai in Lussemburgo: era in fase di edificazione una grande centrale pagata dai tedeschi come risarcimento danni di guerra. Lavoravamo proprio al confine con la Germania. Finito il lavoro in Lussemburgo, mi trasferii in provincia di Sondrio e in seguito, nel ’63, rientrai per lavorare alla diga di Saviner, ma non mi trovai bene.

Il mio permesso di soggiorno era “alterato”: a proposito dell’età, c’erano segnati due anni in più.

Il lavoro mi portò poi in provincia di Pescara, in uno stabilimento chimico dove mi intossicai a causa del piombo. Successivamente raggiunsi Cagliari, per la costruzione di un nuovo stabilimento. Dopo essere tornato per qualche anno a Belluno, nel ’69 ripartii per il capoluogo sardo. Dopodiché, andai a Genova e a Varese. All’epoca, lavoravo con la Grandis di Savona. Poi, fino al 1981 mi fermai in provincia di Belluno, con la Sanremo.

In quello stesso anno partii per l’Iraq e ci rimasi fino al 1983. Rientrato, lavorai alla Chimica di Sospirolo, in realtà mai partita con l’attività e chiusa prima ancora di cominciare la produzione. Eccomi quindi emigrare nuovamente, questa volta per l’Eritrea, a lavorare al Progetto Acqua della Caritas, una bellissima esperienza, anche se il Paese in quel periodo era in guerra. Ricordo il coprifuoco, le cannonate, i permessi per circolare. 

In seguito fui impiegato qualche anno nelle cartiere tra Bologna e la Carnia, per poi passare alla Costan e infine concludere la mia vita professionale alla Polimex di Longarone, dove feci gli ultimi otto anni prima della pensione. Lavoravo nelle caldaie a carbone. Ricordo il fumo e il freddo sofferto.

Gianni Da Rold

Bellunesi al lavoro nel cantiere della diga di Mauvoisin, anni ’50.
(Per gentile concessione di Ernesto Dal Pan)

In giro per il mondo sulle due ruote

La mia storia da giramondo iniziò negli anni Settanta tramite le biciclette, con il Veloce Club Enal Belluno. Io abitavo a Carfagnoi di Trichiana e un amico – Ivo Battiston – mi chiese se volevo iniziare a correre in bici. In quegli anni non si andava molto in giro e lui mi disse: «Dai, che andiamo in giro tutte le domeniche». Quella fu la molla e così, attraverso lo sport, iniziai ad andare un po’ fuori dal Bellunese. 

Dopo essere riuscito a ottenere dei buoni risultati da dilettante, passai tra i professionisti, dove gareggiai tra il ’79 e l’82 disputando due Tour de France, un Giro d’Italia, una Vuelta di Spagna e le varie gare di stagione. Alla fine del 1982 decisi di smettere di correre e per me iniziò una nuova carriera come fisioterapista. 

Ebbi modo, grazie al mio lavoro, di vedere il mondo e, nel farlo, di divertirmi.

Dopo l’ovvio periodo di studio e formazione alla Scuola Massaggi di Forlì, nel ’90 cominciai a rigirare il mondo in questa nuova veste, prima con i dilettanti e poi con le squadre professionistiche, a cominciare dalla Italbonifiche, nel 1993. Poi la Carrera, la MG e, tra il 1997 e il 1998, alla Mercatone Uno, dove gareggiava Marco Pantani. Poi feci parte della Mapei, della Fassa Bortolo, della CSC, della Liquigas, fino alla Nazionale con Davide Cassani. 

Ebbi modo, grazie al mio lavoro, di vedere il mondo e, nel farlo, di divertirmi. Oltre ai massaggi e alla fisioterapia per le diverse problematiche fisiche, il nostro ruolo prevede che ci occupiamo anche dei rifornimenti agli atleti. Una volta dovevamo fare pure i menù e spesso controllare perfino le cucine degli hotel, mentre adesso – finalmente – sono arrivati i nutrizionisti, i cuochi e altre figure di supporto, così possiamo dedicare più tempo alle nostre mansioni. 

… il periodo in cui lavorai con Marco Pantani fu molto intenso e nel ’98, quando lui vinse Giro e Tour, ebbi la più grande soddisfazione.

Gli episodi che ricordo con grande piacere sono molti: la collaborazione con Michele Bartoli dal 1999 al 2004, i diversi Mondiali, ai quali dal ’99 fino ad oggi ho sempre partecipato, le Olimpiadi del 2000 e del 2004 come massaggiatore degli Azzurri (ad Atene Bettini vinse l’Oro). Ma in particolare, il periodo in cui lavorai con Marco Pantani fu molto intenso e nel ’98, quando lui vinse Giro e Tour, ebbi la più grande soddisfazione. Era da tempo che non si ottenevano risultati di così alto livello. 

Pantani era un ragazzo molto semplice, che purtroppo si lasciò condizionare troppo da certe amicizie che arrivano con il successo. Le vicissitudini avute con lui sono cose che ti segnano, anche perché ti rendi conto che non puoi farci niente, non puoi cambiare le cose. 

Il ciclista che in questi anni mi ha impressionato più di tutti, però, è Peter Sagan, uno di quei campioni che nascono solo una volta ogni tanto. Poi Bugno fu un grande, così come Johan Museeuw. Corridori che hanno segnato un bel po’ di storia.

Luigino Moro

Luigino al Tour de France del 1981
Luigino al Tour de France del 1981

Cent’anni fa in Australia

La digitalizzazione delle fonti scritte, a livello internazionale, offre sempre nuovi squarci di storie poco conosciute o che, talvolta, possono stravolgere quanto fino a quel momento dato per certo. La riprova sta in un articolo che ci è stato segnalato attraverso Facebook da Darren Piasente, pubblicato dal quotidiano “The Argus” di Melbourne, Victoria, il 17 giugno 1929. Titolo: “Jumbunna Mine Tragedy”. Tema: la tragedia mineraria di Jumbunna, che colpì tre nostri connazionali.

Durante l’inchiesta che ricercava i colpevoli della tragedia nella quale il 3 giugno persero la vita i tre italiani, il giudice Grant, assieme a una giuria di sette persone, ascoltò le testimonianze dei vari responsabili, e di quanti – presenti – potessero fornire dettagli su quanto avvenuto.

Il titolo di un articolo pubblicato il giorno dopo la tragedia, avvenuta il 3 giugno del 1929

Assodato, da parte di tutti, che vi era presenza di aria “cattiva”, che i vari registri e valvole presenti nelle gallerie non riuscirono a purificare, si convenne che i tre italiani, Ferdinando Triziana, J. Triziana e Caeser Pisanti (nomi trascritti erroneamente), che si erano spinti fino a circa 300 yarde (300 metri scarsi) all’interno della galleria, erano morti per asfissia a causa della presenza di “black damp”, un miscuglio soffocante di diossido di carbonio e di altri gas irrespirabili, come testimoniato dal campione analizzato dal reparto chimico della miniera.

Nel corso del dibattimento vi furono rimpalli di colpe da parte delle persone preposte alla sicurezza e fu proposta un’indagine sulle condizioni di questa e di altre miniere della zona, la qual cosa, tuttavia, non riportò in vita i nostri concittadini, originari di Lamon, e dall’articolo non emerge se giustizia fu fatta.

Ma è proprio alla conclusione dell’articolo che veniamo a conoscenza che il giudice Grant, a fine dibattimento, volle evidenziare che Caeser Pisanti perse la vita, nel tentativo di salvare la vita dei suoi compagni. Ed è proprio quest’ultima affermazione che non collima con quanto inciso nella lapide posta il 7 agosto 2009, a San Donato, dove risulta, invece, che fu Ferdinando Tiziani a tentare di salvare i suoi compaesani.

Forse altre fonti potranno fornire una spiegazione e lasciare le tre vittime riposare in pace.

Irene Savaris

La lapide posta il 7 agosto 2009 a San Donato, frazione del comune di Lamon

Una famiglia di Cancia dispersa in America

Mia nonna arrivò a New York da Cancia nel 1924. Io appartengo alla schiera dei tanti americani venuti in Cadore alla ricerca delle proprie radici. Ricerca proficua, che in diversi viaggi mi ha permesso di trovare nomi e storie di famiglia. Molto più difficile, invece (e sembra paradossale), è stato trovare parenti in America. Almeno fino a poco tempo fa.

Lo scorso settembre, infatti, la mia fortuna è girata, quando un cugino molto simpatico, Bobby Belfry, mi ha contattato e abbiamo scoperto che abbiamo in comune il cognome De Ghetto Garguol. Un test del DNA e l’accertamento dei documenti confermano che siamo cugini discendenti di Rocco De Ghetto Garguol (1802-1879) e Anna Maria Andreotta Moro (1815-1888), di Cancia. Cosa ancora più sorprendente, ho scoperto che siamo imparentati attraverso due famiglie di Cancia: i De Ghetto Garguol e gli Zanetti Daneto.

Bobby è un cantante talentuoso a New York, vincitore di numerosi premi. Sono così felice che mi abbia trovato, perché le mie ricerche fino a quel momento erano state frustranti e complicate dal fatto che suo nonno Giovanni (John) avesse cambiato il cognome da De Ghetto a Belfry, soprattutto a causa del sentimento anti-immigrati incontrato lavorando come commerciante negli Stati del Sud.

Non siamo sicuri di come Matteo e Maria si siano conosciuti. Sappiamo, però, che hanno iniziato la loro nuova vita insieme nel giorno più romantico possibile, scegliendo il 14 febbraio, il giorno di San Valentino, per sposarsi nel Bronx.

La storia di questa famiglia in America è una storia d’amore. Il bisnonno di Bobby, Matteo Olimpio De Ghetto, nato a Cancia nel 1885, emigrò a New York attorno al 1906. La bisnonna, Maria Caterina Belfi Goi, nata a Vodo nel 1888, arrivò nel 1890 con i genitori e i fratelli, e vissero nel Bronx, a New York. Non siamo sicuri di come Matteo e Maria si siano conosciuti. Sappiamo, però, che hanno iniziato la loro nuova vita insieme nel giorno più romantico possibile, scegliendo il 14 febbraio, il giorno di San Valentino, per sposarsi nel Bronx. Era il 1909. Due famiglie del Cadore si fusero per formarne una nuova, americana.

Olly e Mary nel giorno del loro matrimonio

Una piccola famiglia, la De Ghetto-Belfry, che però mi ha colpito per quanto è rimasta unita in America attraverso le generazioni,

Matteo Olimpio, che si faceva chiamare “Olly”, aveva portato con sé le sue doti di esperto falegname e grazie a quelle svolse molti lavori nella “Grande mela”, tra cui il primo maestro d’ascia (head shipwright) nei cantieri navali. Olly e Maria (Mary) crebbero due figli, William e John. John e sua moglie Ida ebbero un figlio, Robert, il padre del mio nuovo cugino Bobby e di sua sorella. Una piccola famiglia, la De Ghetto-Belfry, che però mi ha colpito per quanto è rimasta unita in America attraverso le generazioni, trascorrendo le feste assieme a zii, nonni, nipoti e cugini. Anche oggi i Belfry continuano a vivere vicini, cosa molto più rara in America rispetto all’Italia.

Olly, pur originario delle Dolomiti, sembrò essersi innamorato dell’acqua che circonda l’isola di Manhattan e delle spiagge del New Jersey e di Long Island. Comprò persino un terreno vicino alla riva dove costruì una bella casa e tenne una piccola barca. John, invece, era un uomo d’affari che viaggiava molto, mentre l’altro figlio di Olly e Maria, William, fece parte di un battaglione di carri armati nella Seconda guerra mondiale e in seguito prestò servizio nella Guardia Nazionale per lo Stato di New York.

John Belfry, con la moglie Ida (sulla sinistra); Robert Belfry, con la moglie Jean (sulla destra)

Anche se Bobby e io abbiamo vissuto vicino per molti anni – lui a New York e io nel limitrofo Connecticut – non ci siamo mai incontrati. Sfortunatamente, la pandemia ha per ora impedito qualsiasi riunione. Ma Bobby ha generosamente condiviso con me molte fotografie e storie della famiglia De Ghetto-Belfry, e di questo gli sono molto grata.

Dato che la sua famiglia non è mai tornata in Italia, nemmeno per una visita, io, da parte mia, condivido con lui ciò che ho imparato sulla nostra ricca eredità dolomitica. Speriamo di pianificare presto una reunion, negli USA o in Cadore, o magari in entrambi i posti!

Susan Petronio

Il “caregheta” in Canada

Un giorno un amico mi disse: «Guarda che Antonio è Bellunese». Fu così che incontrai Antonio Renon a una festa dell’Associazione Trevisani nel Mondo. A Ottawa siamo pochissimi originari di Belluno e trovarci in una città di 800mila abitanti è difficile.

Antonio era pensionato, vedovo da molti anni, e i suoi tre figli erano grandi. Tra le festicciole comunitarie, i bingo e la chiesa ci si teneva in contatto con gli amici ed era facile che ci incontrassimo. «Sì, sì, me ciene ancora in contatto co la me fameia a Gosaldo, e le tanti anni che son qua a Ottawa*».

Antonio iniziò a raccontarmi la sua storia da caregheta. Prima della Seconda guerra mondiale, compiuti dieci anni, partì in autunno con una squadra di seggiolai. Cominciò la sua passione che durò per tutta la vita: creare sedie iconiche da un tronco di legno verde e un po’ di paglia. Con l’occhio e la mano fatti grazie all’esperienza da giovane, Antonio cercò di ricreare le stesse sedie in Canada.

Si comprò un piccolo bosco a North Gower per facilitare l’approvvigionamento di legno verde e, usando attrezzi portati con sé dall’Italia, si mise a sperimentare con il legno Nordamericano. «Lo sai – mi spiegò – il legno qui a Ottawa non si spezza bene. La venatura è troppo selvatica ed è difficile da spianare. Ma ho fatto quello che ho potuto».

Quel giorno a casa sua vidi i frutti del suo lavoro: almeno una mezza dozzina di sedie di varie dimensioni, tutte fatte a mano e con amore. Fred, mio marito, fece delle foto di Antonio. Era facile raffigurarselo: un giovane alto quasi due metri, con i suoi attrezzi a tracolla, che viaggiava per mesi lungo la pianura del Po.

Antonio non mi disse mai se i suoi viaggi in Canada, lavorando nei boschi al nord dell’Ontario o nei campi di tabacco sulla riva nord del lago Erie, furono un’avventura pari a quella di seggiolaio. Qui a Ottawa usò il suo talento come passatempo.

Oggi che le careghe fatte a mano sono di moda, chissà se essere un conza con un laboratorio potrebbe essere un mestiere abbastanza redditizio per mantenere una famiglia.

Il 9 Settembre 2013, a Ottawa, Antonio morì improvvisamente. Aveva ottantotto anni. Era sbarcato con un gruppo di amici al porto di Halifax nel 1951.

Ariella Dal Farra Hostetter, Ottawa (Canada)

* Sì, sì, mi tengo ancora in contatto con la mia famiglia a Gosaldo, ed è da tanti anni che sono qui a Ottawa.

Antonio Renon
Antonio Renon con un attrezzo del mestiere