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Izourt

Da due giorni nevicava. Una tormenta da far paura, che anche da quelle parti – a 1650 metri sui Midi-Pyrenéèes, tra Francia e Andorra – si fa fatica a vedere.

Il cantiere per la costruzione del bacino di Izourt, necessario – assieme a quello di Gnioure – per alimentare le centrali idroelettriche della più grande fabbrica di alluminio in Europa, ad Auzat in Ariège, è fermo. È il 24 marzo del 1939 e quel giorno la bufera non lascia scampo a trentuno persone. Due sono francesi, ventinove sono italiane, quasi tutte arrivate dal Veneto e dal Friuli per lavorare. 

Un ciclone eccezionale si abbatte su due costruzioni che ospitano gli operai, cogliendoli nel sonno. I tetti vengono scardinati, gli edifici collassano.

Le condizioni meteorologiche rendono difficili, quasi impossibili, le operazioni di soccorso, che possono iniziare solo nel pomeriggio. Un ritardo forzato che risulta fatale. Tra le vittime anche quattro emigranti bellunesi: Remigio Ferigo, di Sedico, Giuseppe Martini, di Vigo di Cadore, Primo Mondin, di Quero, e Lucindo Paniz, di Santa Giustina.

Nel vicino cantiere di Gnioure non ci sono vittime, ma per salvarsi e scendere a valle, gli operai sono costretti ad affrontare delle vette innevate, in forte pendio, aiutandosi solo con barre di ferro e cazzuole. 

Titolo del Corriere della Sera del 25 marzo 1939

L’emigrazione interna

Le parole da tenere a mente nel contesto dell’emigrazione interna sono due: bonifica e colonizzazione. 
Nel 1924 il regime fascista diede avvio a un ampio progetto di “bonifica integrale” in alcune aree d’Italia. L’obiettivo era svuotare l’acqua dalle terre paludose e malsane (ci si poteva contrarre la malaria) così da renderle coltivabili. In pratica, risanare i terreni improduttivi trasformandoli in spazi sfruttabili a fini agricoli. Un piano strettamente collegato a quella passata alla storia come la “battaglia del grano”: aumentare la produzione nazionale di cereali in modo che l’Italia non dovesse più importarli dall’estero.

In questo processo sono ricordate soprattutto le azioni portate avanti nell’Agro Pontino (Lazio), nei territori all’epoca noti come Paludi Pontine. 

In cosa consisteva la bonifica? La procedura era più o meno questa: prosciugare l’acqua, disboscare, dissodare e livellare i terreni liberati, crearci dei canali per lo scolo, dividerli in diversi appezzamenti e costruirci all’interno delle nuove case per chi si sarebbe occupato della futura coltivazione. Nascevano così dei nuovi centri urbani da popolare con dei contadini che fossero in grado di lavorare la terra bonificata.

Cominciò allora un processo di migrazione programmata e organizzata dal fascismo: le partenze non erano più un fenomeno spontaneo, poiché seguivano delle direttive imposte dallo Stato. 
Entra qui in gioco la seconda parola da tenere a mente: colonizzazione.

Nel 1931 venne istituito il Commissariato per le migrazioni e la colonizzazione interna (CMCI), che portò migliaia di famiglie a insediarsi nelle nuove aree strappate alle paludi. Non furono tuttavia lavoratori locali a stabilirsi nei territori risanati, ma persone provenienti dal Nord-est, la stragrande maggioranza dal Veneto (quasi il 50%).

Perché? Per una precisa scelta politica: i veneti, per caratteristiche sociali e culturali, rispondevano meglio di tutti alle esigenze che il governo si era prefissato: erano necessarie famiglie numerose e che sapessero condurre autonomamente i poderi; il Veneto, inoltre, era una regione sovraffollata, dove il numero di agricoltori era in eccesso rispetto alle effettive terre disponibili, ideale dunque per un trasferimento in massa di popolazione altrimenti disoccupata e che avrebbe potuto, proprio per l’assenza di lavoro, dare vita a proteste e agitazioni.
Così ancora oggi, in tante parti del Centro Italia, si possono trovare famiglie e persone con cognomi e origini venete.

Un po’ di numeri

  • – La colonizzazione delle terre in Agro Pontino comportò, tra il 1932 e il 1943, il trasferimento di 3.400 famiglie, per un totale di 34.000 persone. 
  • – Attività analoghe furono condotte anche in Sardegna, dove nel 1928 sorse la città di Mussolinia, in seguito ribattezzata Arborea, realtà con una forte presenza di famiglie di origine veneta.
  • – Nell’Agro Pontino nacquero cinque nuove città: Littoria (nel 1932, oggi Latina), Sabaudia (nel 1933), Pontinia (nel 1934), Aprilia (nel 1936) e Pomezia (nel 1938).
  • – Come detto, il Veneto fu la regione che diede il contributo maggiore. A livello di singole provincie, però, fu Ferrara (in Emilia-Romagna) a registrare i numeri più elevati.
  • – L’apporto delle province venete sul totale delle partenze fu il seguente:
    • * Treviso 11%
    • * Udine (all’epoca faceva parte del compartimento Veneto) 10%
    • * Padova 9%
    • * Rovigo 8%
    • * Vicenza 8%
    • * Verona 7%
    • * Venezia 4%
    • * Belluno 1%
  • – I coloni bellunesi nell’Agro Pontino furono circa 260, provenienti da: Mel, Longarone, Feltre, Sedico, Ponte nelle Alpi, Lamon, Santa Giustina, Seren del Grappa, Quero Vas.

Per saperne di più

Per saperne di su quanti lottarono per risanare le paludi dell’Agro Pontino si possono consultare questi libri: 

  • I ferraresi nella colonizzazione dell’Agro Pontino, di Cristina Rossetti; Bulzoni, 1994 
  • I ricordi di un pioniere. Il riscatto di un popolo e del suo podere, di Antonio Caselli; Universal Book Rende, 2015
  • La terra che non c’era. Bonifica, colonizzazione e popolamento dell’Agro Pontino. Nuovi documenti e una ricostruzione inedita, di Giulio Alfieri; Betti , 2014
  • Questo piatto di grano. La colonizzazione dell’Agro Pontino. Nomi, volti, origini delle famiglie che si insediarono, di Giulio Alfieri; Atlantide, 2018
  • Terra nuova. Prima cronaca dell’agro pontino, di Corrado Alvaro; Otto/Novecento, 2008

Emigranti bellunesi nelle Paludi Pontine, anni ’30

Centoquarantatré anni fa in Brasile

Erano ventuno famiglie. In tutto, centoquarantuno persone. Provenivano dalle province di Belluno, Vicenza, Treviso e Udine. Esattamente centoquarantatré anni fa, il 6 gennaio 1880 (questa la data ufficiale), fondarono Criciúma, nello Stato di Santa Catarina, una delle prime colonie italiane in Brasile.

«Contrariamente a numerose altre colonie (in particolare quelle del Rio Grande del Sul) – scrive Enzo Caffarelli nel Dizionario enciclopedico delle migrazioni italiane nel mondo – non fu imposto al nuovo centro un toponimo italiano replicato; il nome è quello di una specie di bambù presente nella zona». 

Anche qui, come accadde un po’ in tutte le aree di insediamento degli immigrati italiani, i nuovi arrivati, trovatisi in mezzo al nulla, edificarono case, fecero sorgere strade, costruirono scuole e lavorarono come agricoltori. Dal 1890 contribuì alla crescita della comunità l’arrivo di tedeschi, polacchi e portoghesi.

São Simão, Criciuma, 1928. La famiglia di Antonio Zilli (di Ponte nelle Alpi) e Maddalena Bortoluzzi (di Soverzene). (Archivio Camillo e Patrizia Burigo)

Oggi Criciúma (oltre 190mila abitanti) è una delle più importanti città di Santa Catarina, sede di un’università e di numerose industrie. Rappresenta – rileva ancora Caffarelli nel Dizionario – «il principale centro della cosiddetta Região Metropolitana Carbonifera ed è grande produttrice di ceramiche per l’edilizia, plastiche, prodotti chimici e tessuti». 

Della sua area metropolitana fanno parte alcuni piccoli centri come Urussanga (gemellata con Longarone), Nova Veneza, Siderópolis (fino al 1943 Nova Belluno), Orleans e Araranguá. 

«I centri della cultura criciumense – citiamo ancora dal Dizionario – portano nomi italiani: il Teatro Municipal “Elias Angeloni”, che ospita tra gli altri il Festival Internacional de Corais e il Festival de Ballet Infantil; il Centro Cultural “Jorge Zanatta” con pinacoteca, galleria d’arte, laboratori culturali aperti al pubblico; il Museu de Colonização “Augusto Casagrande”, inaugurato nel 1980 in occasione del centenario della città, un antico edificio tipicamente italiano che accoglie documenti fotografie, arredi e strumenti di lavoro della fine del XIX e degli inizi del XX secolo».

Vie a Criciuma intitolate a discendenti degli emigranti longaronesi. (Archivio Camillo e Patrizia Burigo)

Informazioni tratte dal Dizionario enciclopedico delle migrazioni italiane nel mondo; Roma: SER, ItaliAteneo, Fondazione Migrantes, 2014.

Clough Creek – Benny Boye

Noi che eravamo effettivi alla base di Brass Terminal dovevamo spesso intervenire per riparazioni nelle varie flow station della società. Si trattava quasi sempre di emergenze e anche quella mattina, con un preavviso di un’ora, ci dissero che dovevamo attivarci con la massima urgenza. Un elicottero ci avrebbe prelevati e portati a Clough Creek. Poi, il giorno dopo, visto che era domenica e non c’erano elicotteri, ci saremmo mossi via fiume con il motoscafo fino a Benny Boye. Come di consueto, eravamo io e l’amico Fittaroli.

Lungo la rotta del nostro volo, il delta del Niger sembrava una palude immensa e abbondante, dove qua e là comparivano dei villaggi e, in mezzo alle foreste di mangrovie, spuntava qualche capanna.
Arrivati a Clough Creek, ci sbarcarono in tutta fretta, ci consegnarono la nostra borsa e ci indicarono la piattaforma in cui ci aspettava il problema da risolvere.

Passò circa una mezzora prima che riuscissimo ad arrivare ai generatori. Riparammo il guasto e a mezzogiorno, per quanto ci riguardava, il nostro lavoro era concluso. Convinti di ripartire nell’immediato pomeriggio per Benny Boye, constatammo invece che il Sea truck che doveva essere a nostra disposizione non era ancora arrivato. Anzi, non era neppure partito, e probabilmente sarebbe arrivato il giorno dopo. Ci mettemmo il cuore in pace, tanto ormai eravamo abituati a questi contrattempi.

Finalmente, nella tarda mattinata del giorno seguente, il nostro motoscafo arrivò. Chiedemmo al capitano se saremmo riusciti ad arrivare a Benny Boye prima del buio. Sapevamo, infatti, che viaggiare sul fiume di notte poteva essere molto pericoloso. Il capitano ci rispose affermativamente e ci fidammo. Partimmo prima del previsto e dopo un paio d’ore giungemmo all’entrata dello Swake River.

Privi di visuale, navigavamo completamente al buio, in una situazione molto pericolosa. In quel tratto non c’erano villaggi e se fossimo naufragati nessuno se ne sarebbe accorto.

Tutto sembrava procedere al meglio, senonché dopo qualche minuto di navigazione trovammo la via sbarrata da un’interminabile scia di tronchi. Tentammo in tutti i modi di superarli, ma quando rischiammo di restare bloccati decidemmo di svincolarci e giungemmo in un canale più largo. Dovevamo decidere se continuare o fare ritorno al punto di partenza. Il capitano disse che era meglio proseguire e, di nuovo, ci fidammo.

Il tempo passava e i canali si facevano via via sempre più stretti. Stava calando l’oscurità. Di lì a poco si sarebbe fatta notte e noi non eravamo provvisti di alcun lume. Privi di visuale, navigavamo completamente al buio, in una situazione molto pericolosa. In quel tratto non c’erano villaggi e se fossimo naufragati nessuno se ne sarebbe accorto.

Con questi pensieri in testa, e con qualche preghiera, avanzammo cercando di intuire la nostra posizione. Il capitano disse che secondo lui eravamo vicini all’entrata del grande canale che porta alla città di Warri, dunque in prossimità della meta. In una mezz’ora che sembrò eterna il motoscafo fece il suo ingresso nel canale più grande, dove nonostante l’oscurità potevamo comunque intravvedere qualcosa.

Dopo un’ora cominciarono finalmente a spuntare le luci della piccola insenatura in cui sorgeva il campo di Benny Boye. Ormai erano le dieci, ma per fortuna era andato tutto bene. E un’altra odissea era finita.

Giacomo Alpagotti

Giacomo Alpagotti

Da Valmorel alla Svizzera

Giacomo De Barba nacque a Valmorel il 9 novembre 1934 e fu battezzato con il nome di Giacomino. Era il quarto di cinque fratelli. La sua era una famiglia contadina e tutti i figli, fin da piccoli, hanno dovuto dare il loro contributo al bilancio familiare. Di tanto in tanto affrontavano a piedi diversi chilometri per arrivare fino a Belluno, dove vendevano polenta e formaggio.

All’età di quattordici anni, Giacomo si trasferì con la famiglia a valle, a Limana, dove presero in gestione una fattoria. A vent’anni ebbe un’ulcera gastrica che lo costrinse a rimanere in ospedale per sei settimane. Quell’esperienza lo portò a rimanere affascinato dalla medicina, tanto che si iscrisse a un corso di formazione come infermiere a Belluno.

L’idea iniziale era quella di un’emigrazione temporanea, ma le cose andarono diversamente.

Il lungo cammino tra la fattoria paterna e la sede del corso lo percorreva sempre a piedi. Nacque così il desiderio di possedere una Lambretta per potersi spostare più agevolmente. Si presentò l’occasione di poter guadagnare in breve tempo i soldi necessari a realizzare questo desiderio. Dopo alcuni mesi di frequentazione del corso, arrivò infatti a Belluno la signora Ines Mayer, la delegata dell’allora Viscosuisse, la fabbrica di filati di Emmen, in Svizzera. La signora Mayer aveva il compito di reclutare nuovi operai e Giacomo approfittò di questa opportunità lavorativa e si candidò per un posto. Tra duecento persone, ne furono selezionate venti, e lui fu tra queste.
A ventun anni, quindi, lasciò l’Italia. L’idea iniziale era quella di un’emigrazione temporanea, ma le cose andarono diversamente.

In quel periodo a Emmen andava spesso a pranzare al ristorante Sonne. Fu lì che si innamorò di Margrith Stadelmann. Presto i due si sposarono e nel 1957 nacque la loro prima figlia, Carmen. Un anno dopo arrivò Ingrid. Nel 1965 nacque infine la terza figlia, Antonietta. Per la giovane famiglia non furono anni facili. Oltre che nel lavoro a turni, Giacomo era impegnato anche presso la libreria Stocker e nel frattempo svolgeva un percorso di formazione come capo reparto.

Nel 1983 riuscì a fare una grandiosa scoperta nel campo della ricerca sul filo, che fu successivamente brevettata. Da allora in poi lavorò nel reparto interno di ricerca e aiutò a sviluppare il monofilo, che tuttora è l’unico prodotto che l’azienda porta avanti.

Il suo vecchio sogno di ritornare in Italia dopo il pensionamento e vivere nella casa che aveva costruito negli anni ‘60 non si realizzò mai.

Il movimento era tutto per lui. Infatti, oltre al lavoro, Giacomo aveva numerose attività e hobby: andare in bicicletta, andare a sciare, andare in montagna e nuotare. Se si fossero contati tutti i chilometri percorsi, avrebbe certamente fatto più volte il giro della terra. Amava la natura, il mondo dei volatili e curava con grande amore il suo splendido orticello. Trascorreva con piacere parte del suo tempo libero presso la Missione Cattolica Italiana, dove aveva modo di incontrare i suoi amici connazionali. Cucinava con passione e deliziava centinaia di persone con la sua ottima cucina.

È stato socio, per decenni, di diverse realtà: i Donatori di sangue, gli Alpini e la Bellunesi nel Mondo. È stato per anni attivo anche nel corpo dei vigili del fuoco aziendale, dove ha conseguito il ruolo di “comandante”. Il suo vecchio sogno di ritornare in Italia dopo il pensionamento e vivere nella casa che aveva costruito negli anni ‘60 non si realizzò mai. Margrith e Giacomo rimasero in Svizzera accanto ai loro figli e nipoti.

In Italia, come in Svizzera, Giacomo non si sentiva più pienamente a casa, pertanto, più volte l’anno, lui e Margrith facevano i pendolari tra un Paese e l’altro. L’ultima volta che venne a Belluno volle assolutamente visitare, assieme ai nipoti, il MiM Belluno, il museo dell’Associazione Bellunesi nel Mondo.

Dal ricordo delle figlie

Giacomo De Barba
Giacomo De Barba