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Galleria fatale a Robiei

Canton Ticino, 15 febbraio 1966. Lavori in corso nella galleria d’adduzione dell’impianto idroelettrico tra la valle Bedretto e la val Bavona, la galleria Robiei-Stabiascio-Gries. È notte. Questo lo scenario di una tragedia sul lavoro che colpisce gli emigranti italiani. Una delle innumerevoli e drammatiche vicende che segnano anche il territorio bellunese. 

Uccisi da gas tossici, perdono la vita quindici operai italiani e due pompieri di Locarno.

Dopo tre anni di lavoro senza incidenti che consentono lo scavo di quasi 13 chilometri del tunnel, l’anno prima, a metà 1965, era avvenuta l’apertura del diaframma. Un anno più tardi, quel maledetto 15 febbraio, è prevista l’apertura della saracinesca di scarico che chiude le sezione della galleria a circa tre chilometri dal portale di Robiei. Se ne occupano i pompieri locarnesi e il capo-officina. Tutti e tre muoiono per asfissia. Altri quattordici operai, recatisi sul posto per soccorrere i compagni di lavoro, fanno la stessa fine per la mancanza di ossigeno nel condotto.

È il più grave incidente sul lavoro nella Svizzera italiana. A trovare la morte anche due bellunesi: Angelo Casanova, di Sedico, e Valerio Chenet, di Rocca Pietore.

«Sembra un destino crudele: in ogni disgrazia c’è sempre qualcuno dei nostri», l’amaro commento del nostro mensile Bellunesi nel mondo

«Val Bedretto, Robiei, Stabiascio, altri nomi che escono improvvisamente dall’oscurità e vengono ad aumentare le nostre cognizioni geografiche, accanto a quelli di Mattmark, Sass Fee, Marcinelle, Kariba» riporta la rivista, nel suo primo numero, uscito il 28 febbraio 1966, a pochi mesi dalla nascita dell’allora Associazione Emigranti Bellunesi. 

«Nomi dai più diversi accenti, ma ugualmente carichi di tristezza e destinati a rinnovare un dolore che va facendosi sempre più acuto ed angoscioso. Nomi che ripropongono, nelle sue tragiche dimensioni, il dramma della nostra gente, costretta a cercare, lontano dalla propria terra, il pane per le famiglie, ben sapendo che, assai spesso, la ricerca di una sicurezza economica è un viaggio verso la morte». Così è stato per Casanova e Chenet. 

Per capire chi erano questi due nostri conterranei tragicamente scomparsi, leggiamo ancora da Bellunesi nel mondo del febbraio ’66. 

Il pensiero di loro potrà aiutarci perché la galleria della morte di Robiei non rimanga un freddo e triste ricordo.

«Angelo Casanova aveva quarantaquattro anni. Fu obbligato a trasferirsi a Sedico in seguito alla costruzione del bacino idroelettrico della Valle del Mis, dove abitava con la sua famiglia. “Due volte vittima del progresso – disse di lui il Sindaco di Sedico – una prima volta cacciato di casa, una seconda volta privato della vita”. A Sedico aveva un appezzamento di terra e stava sistemando decorosamente la sua casetta. Aveva ripreso il lavoro in galleria da meno di un mese e con qualche anticipo sul previsto, per guadagnare al più presto quanto gli bastasse ad affrontare i suoi impegni e realizzare il suo sogno. 

Valerio Chenet, il più anziano degli operai italiani: cinquantun anni. Era uomo di grande rettitudine, preciso, competente; un vero esperto del lavoro di galleria, come ci dissero i suoi amici. Da molti anni ormai viveva in Svizzera, a Masciano, nel Ticino. Ma l’aver conservato la cittadinanza italiana indicava in lui il desiderio di ritornare un giorno nel suo bel paese, Rocca Pietore, fra il Civetta e il Marmolada, dove ancora molti lo ricordano. È stato l’ultimo ad essere travato, nella tragica galleria».

«Il pensiero di loro – concludeva l’articolo – potrà aiutarci perché la galleria della morte di Robiei non rimanga un freddo e triste ricordo, ma costituisca un impegno: un impegno di amore e di giustizia: un impegno umano e cristiano: un impegno per tutti».

Giuliani e dalmati in Australia

dal Dizionario enciclopedico delle migrazioni italiane nel mondo; Roma: SER, ItaliAteneo, Fondazione Migrantes, 2014.

Le emigrazioni dal Friuli Venezia Giulia verso l’Australia dopo la Seconda guerra mondiale videro tre gruppi distinti in viaggio: i friulani, i triestini e gli istriani, fiumani e dalmati. Le prime ondate migratorie del dopoguerra furono proprio quelle forzate dei giuliano dalmati nativi dei territori allora amministrati dalla Jugoslavia.

Questi zaratini, friulani, polesi vennero inseriti nell’Australian Displaced Persons Scheme insieme ad altri profughi, provenienti in particolare dall’area balcanica e da quella sovietica. Il movimento migratorio delle displaced persons era gestito da un organismo internazionale, l’IRO (International Refugee Organization), che operava da Ginevra su mandato dell’ONU dal 1947 al 1951. Chi intendeva recarsi in Australia doveva abbandonare il campo profughi in cui viveva per raggiungerne uno gestito dall’IRO, perlopiù Bagnoli (Napoli) o Cinecittà (Roma) per le selezioni e gli arruolamenti. Partivano da Napoli, da Genova o da Bremerhaven in Germania e viaggiavano in condizioni in genere disastrose. 

Ai primi del 1952 i compiti dell’IRO passarono al Comitato provvisorio intergovernativo per il movimento dei migranti dall’Europa, poi Comitato intergovernativo per le migrazioni europee (CIME). Il CIME di Trieste svolse un ruolo di primo piano per l’emigrazione assistita dei candidati residenti nel Triveneto. Un accordo bilaterale di emigrazione assistita tra Italia e Australia, siglato il 29 marzo 1951, favorì la partenza di triestini per l’Oceania; fu sospeso l’anno dopo per i disordini nei campi di raccolta di Boneigilla e di Sydney, causati dagli italiani frustrati dal divario tra le aspettative e la realtà incontrata, ma venne riattivato nel 1954. 

L’emigrazione assistita fu un fenomeno intenso ma limitato nel tempo. Una descrizione delle partenze si deve alle penna dello scrittore triestino Giani Stuparich: «Tutto il cuore della città era là, in quei saluti, in quelle raccomandazioni, in quegli addii: tutto il temperamento del popolo triestino si esprimeva in quelle manifestazioni di popolo che sa essere spiritoso anche tra le lacrime, vivace pur nella disgrazia. “I và, i và e noi restemo… sempre alegri e mai passion”, diceva un giovane operaio con l’occhio lucido e la bocca amara. “Andé fioi, feghe onor a Trieste!”, raccomandava un altro operaio anziano. E una vecchia nonna! Era là, sorretta dai parenti, e continuamente chiedeva se Rico fosse a bordo, e dove fosse, se avesse la sua sciarpa rossa intorno al collo, se salutava, se sorrideva, e se la traversata fin laggiù sarebbe stata buona; non volle muoversi di là neanche quando la nave si staccò e girò al largo; la gente cominciò a sfollare tra commenti e rimpianti: “nonina, la se movi!”, ma la vecchia non si decideva e, col volto rigato di lacrime, andava ripetendo: “Cossa che me toca veder!”».

Una bambina, seduta su una valigia, con una bambola di Cappuccetto Rosso: siamo durante una delle innumerevoli partenze di emigranti dal porto di Trieste nel secondo dopoguerra (per gentile concessione dell’Associazione Giuliani nel Mondo)

La partenza della “Castelverde”, la prima nave diretta in Australia con emigrazione assistita, è così descritta da un comunista muggesano: «Quelli della Castelverde con gesti, fischi, urli, fazzoletti, lampadine tascabili, lanciano segnali, saluti, messaggi. Niente canti, niente allegria. Pare una partenza per la guerra, per un viaggio verso l’ignoto e senza ritorno. Finalmente la nave si muove, Trieste va in Australia, chi poteva immaginarlo?». 

La gran parte dei friulani che partirono per l’Oceania appartenevano alla provincia di Pordenone, forse per la vicinanza con quella di Treviso, una delle aree più rappresentate verso quella destinazione. L’incontro con il continente “nuovissimo” non fu certo soddisfacente; il primo impatto fu con i poliziotti, i doganieri con il cappello a larghe tese, che «controllano i passaporti con facce bisbetiche, dure, accigliate. […] Non capiscono gli agenti, e non lo capiranno mai, che si può essere vestiti bene ed essere poveri. Per quelle teste coperte da un cappello a larghe tese, chi è povero deve essere vestito da povero». 

Il successivo impatto fu con i campi di raccolta, ex campi dell’esercito o di internamento per prigionieri di guerra. Ecco una testimonianza a proposito di quello di Boneigilla: «Appena usciti dal vagone, siamo stati accolti da migliaia e migliaia di mosche, una vera invasione, sembrava che ti volevano mangiare vivo. […] Il cibo che ricevevamo dalla cucina, a non stare molto attenti, prima di arrivare alla nostra stanza era pieno di vermi; la maggior parte del vitto andava a finire nel bidone dell’immondizia. Non molto dopo è arrivata l’epidemia di morbillo, la poliomielite era in giro. Nessuno te lo diceva, l’ambulanza veniva a prenderti i bambini e tante volte non sapevi il perché». L’unica proposta culinaria era il castrato di pecora o di montone, cucinato e condito con il suo stesso sebo: «Questa pecora ci veniva data ogni giorno: fritta, lessa, arrosta ed impanata: Papà andava in mensa e diceva: Di nuovo castrone! e, preso un pezzo di pane, se ne tornava in baracca». I rimedi erano peggio del male: «Ve lo potete immaginare che faccia aveva la gente nel vedersi servire maccheroni rossi al sugo con miele e zucchero. I cuochi, non c’è bisogno di dirlo, erano tedeschi». 

Un altro problema era rappresentato dalla lingua. Ecco la testimonianza di un equivoco: «Dopo alcune settimane mi chiamarono dall’ufficio di collocamento; dopo aver spiegato tramite interprete che avevo lavorato in Italia presso i cantieri navali di Monfalcone, sapendo che conoscevo le navi (in inglese ship) che suona molto vicino a sheep (pecora), mi assegnarono un posto di pastore, ai limiti del deserto, e m’indicarono sulla carta geografica dei bei laghi […] quei laghi erano laghi di sale, non d’acqua, e le navi erano con quattro gambe». 

Perlopiù si trattò di essere avviati a lavori essenziali all’economia australiana, a prescindere dalle competenze degli immigrati; e in genere massacranti. Del resto gli italiani adulti avevano firmato un contratto per due anni con il governo australiano accettando di fare qualunque lavoro fosse richiesto, come raccogliere frutta, posare le rotaie della ferrovia, pulire gabinetti, lavorare l’acciaio o il cemento, ma anche tagliare la canna da zucchero. Scarse le previdenze e protezioni sociali: «L’Australia di allora era un paese, per certi aspetti, quasi primitivo. Lavoro sì, ma basta. Non previdenza sociale, non casse ammalati; una settimana di ferie; alloggio: arrangiati. Si viveva in affitto in case occupate a volte anche da sei famiglie, con un solo bagno, una sola cucina ed un solo gabinetto esterno, che poi era praticamente una cisterna senz’acqua che veniva rimossa dagli addetti comunali una volta alla settimana». 

I pregiudizi, nei comportamenti e nelle parole, erano costanti, uniti a un certo risentimento. Un’altra testimonianza: «Gli australiani, essendo di razza inglese o irlandese, si sentivano superiori a noi, anche se erano molto inferiori per molti aspetti a noi emigranti giuliano-dalmati. Basti pensare che gli uomini allora non portavano le mutande sotto i pantaloni, erano vestiti come all’epoca del 1935, mentre noi eravamo sempre eleganti, con abiti più moderni, anche se al principio avevamo poco da indossare. Gli australiani non usavano il fazzoletto per pulirsi il naso». 

Ma non per tutti gli emigrati dal Friuli Venezia Giulia il rapporto con il Paese di destinazione fu alle origini così conflittuale. E alcuni trovarono una nuova terra nella quale progettare il futuro e mettere radici per progettare una vita nuova.

La Carta Mondiale dei Migranti

Il 4 febbraio 2023 compie dodici anni la Carta Mondiale dei Migranti, approvata nel 2011 a Gorée, in Senegal, al termine di un incontro internazionale organizzato a margine del Forum Sociale Mondiale di Dakar.

Il progetto prende però avvio già nel 2006, a Marsiglia, in occasione della lotta che centoventi famiglie senza permesso di soggiorno intraprendono con l’obiettivo di ottenere i documenti necessari. 

«Fu un migrante in situazione irregolare di nome Crimo – spiega Maria Grazia Sanzi, nel Dizionario enciclopedico delle migrazioni italiane nel mondo – a proporre la redazione di un testo da parte dei migranti basato sul loro vissuto e sulle loro esperienze». 

Un primo testo dal quale presero il via diversi incontri internazionali, con la suddivisione dei migranti coinvolti in Coordinamenti Continentali: gruppi costituiti allo scopo di organizzare assemblee locali per agevolare un processo di scrittura collettiva.

Dalle proposte giunte dalle diverse parti del mondo, un Coordinamento Internationale ha tratto una sintesi, diffusa tra le assemblee locali tra settembre 2010 e gennaio 2011, fino ad arrivare all’approvazione definitiva del 4 febbraio 2011.

«La Carta Mondiale dei Migranti – sottolinea ancora Sanzi – non è una semplice dichiarazione o convenzione. La sua reale innovazione consiste nel permettere a tutti coloro che hanno conosciuto forme di migrazione di scrivere attraverso il proprio vissuto e le proprie esperienze una Carta di princìpi legati ai diritti fondamentali: la libertà di restare dove si vive; la libertà di spostarsi sul nostro pianeta e di stabilirsi liberamente dove si desidera allo stesso titolo e con gli stessi diritti che sono accordati alla libera circolazione delle merci e dei capitali; la parità di diritti in tutti i campi della vita fra i migranti e i cittadini dei paesi di residenza o di transito; l’esercizio per tutti di una piena cittadinanza fondata sulla residenza e non sulla nazionalità». 

L’approvazione del 2011 non ha rappresentato un punto di arrivo per la Carta, bensì un nuovo punto di partenza, dato che – dopo la stesura finale – le assemblee locali hanno avviato un’opera di diffusione e promozione della Carta «in modo – evidenzia sempre Sanzi nel Dizionario – che un numero crescente di migranti se ne potesse appropriare», utilizzandola «per la difesa e la promozione dei propri diritti e della propria libertà». 

Concluso l’appuntamento di Gorée, la rete che ha dato vita alla Carta si è estesa e strutturata, facendo sorgere un comitato internazionale che agevolasse il raccordo fra le iniziative locali e ne migliorasse la visibilità a livello globale.

Informazioni tratte dal Dizionario enciclopedico delle migrazioni italiane nel mondo; Roma: SER, ItaliAteneo, Fondazione Migrantes, 2014.

La traversata

Un oceano a separare due continenti, distanti non solo fisicamente, ma anche a livello simbolico. Oggi anche le nazioni più lontane vengono mostrate alla Tv, nei documentari o in qualche telegiornale, e se dobbiamo viaggiare da qualche parte possiamo farci un’idea dei luoghi che andremo a visitare grazie a Internet.

Ma in passato era tutto diverso e partire verso un nuovo Paese significava andare incontro all’ignoto. Con le dovute proporzioni, era un po’ l’equivalente dei nostri viaggi nello spazio. Ci si inoltrava infatti in un nuovo mondo. Per farlo bisognava solcare l’oceano con le navi, i famosi piroscafi, lasciandosi alle spalle la terra di origine per giungere nella terra di destinazione. In mezzo c’erano venti o trenta giorni di navigazione, un periodo che assumeva un valore molto particolare per gli emigranti: era una fase di distacco dal passato per proiettarsi nel futuro, una situazione intermedia tra un prima e un dopo nella propria esistenza.

Normale che la traversata avesse tanta importanza per chi doveva compierla. Generava nostalgia, spaesamento, preoccupazioni, insicurezze, dubbi e timori, ma anche senso di libertà, determinazione a ricominciare, volontà di riscatto, curiosità e desiderio di scoprire.

Talvolta le traversate potevano essere particolarmente difficili e lasciare un ricordo del tutto negativo in chi le compiva. Dipendeva dal tipo di nave utilizzato (non sempre adeguato), dalla quantità di persone a bordo (a volte molto più alta del consentito, con conseguenze negative sulle condizioni igieniche e sulla salute dei passeggeri) e dalla situazione meteo (vento e pioggia potevano rendere ardua la navigazione). E se un po’ di mal di mare era pressoché garantito, non era così raro che qualcuno durante il viaggio ci rimettesse la vita.

Per farsi un’idea di come potesse essere una traversata, tornano utili i racconti di alcuni testimoni, giunti fino a noi grazie alle lettere che loro stessi avevano mandato in Italia. 


Lettera di Francesco Sartori
Marsiglia, 18 novembre 1877

Cari figli, e moglie

Il giorno 8 corrente mese vi ho spedito una lettera nella quale vi ho dichiarato che nel giorno 12 prenderemo partenza da Marsiglia per l’America (Brasile). Ma invece il giorno 11 e arrivato un’altra spedizione da Genova a Marsiglia per partire sul medesimo bastimento di 300 persone notando bene che erimo troppi senza di questi perché in tutti siamo un numero di 300 persone e sul bastimento non bisognerebbe oltrepassare a 350 perché è un bastimento fatto da tempo passato per le merci e non per passeggeri. In questi giorni i falegnami hanno lavorato a fare i posti per buttarsi a dormire uno sopra l’altro che bisogna stare inginocchiati e ancora si petta colla testa sopra peggio delle bestie senza respiro. A dichiararvi il tutto ci vuole troppo tempo ma vi dichiaro qualche cosa benché sono proibito dai miei compagni a dichiararvi questo fatto.

Attendete bene quanto segue.

Nel bastimento siamo spessi come in un bucco d’ave. È morto un giovane di 5 anni ed era un bellissimo giovane ben nutrito ce ne sono altri otto ammalati gravemente. Un strepito chi piange chi si lamenta spose coi figli in braccio che vogliono gettarsi nell’acqua a negarsi e dicono se si parte si muore tutti prima di arrivare nell’America”. 

Francesco Sartori e i suoi compagni di viaggio erano stati truffati. Avevano pagato per una nave a vapore e si ritrovavano su una nave a vela, molto più lente e insicura. 
Lo dice lui stesso in un’altra parte della lettera: 

“Noi siamo fatti un N. di 103 capi di famiglia e siamo andati dal R. Comisario dell’emigrazione e dal Console Italiano ed in altre parti, portiamo la ragione che abbiamo in contratto il bastimento a vapore e non a vela e vogliamo partire a vapore e non a vela, o il danaro che abbiamo versato”.

La sua conclusione è estremamente significativa:

“Ecco cara moglie e figli le mie dolorose notizie e i miei patimenti. Maledetta quella volta che mi decisi alla partenza che mi son messo nelle mani di questi mercatanti di carne umana”.

I trafficanti di esseri umani, pronti a guadagnare sulla pelle dei migranti, c’erano anche in passato.

Lettera di Bortolo Rosolen
S. Teresa di Cordeiros (San Paolo, Brasile), 9 marzo 1889

Egr. Sig. Padrone Dott. Ferdinando Chisini

Pieve di Soligo

Doppo un lungo silenzio, ora mi presto a dare a lei mie notizie.

Con grande dolore devo manifestargli una spaventevole mia sorte, comincerò a dirgli qualche cosa del viaggio, questo e statto molto pesante tanto ché per mio consiglio non incontrerebbe tali tribulazioni nepur il mio cane che ò lasciato in Italia, il sudetto viaggio e stato molto pesante prima per aver incontrato 4 giorni di grande burasca, poi per essere troppo affolati nel bastimento, di più nei ultimi giorni abbiamo sofferto un oribile caldo. 

Finalmente doppo 26 giorni siamo disbarcati a Santos ove si aspettava di dare una sazietà al nostro respiro, per sentire buone notizie, ma appena si poteva dirigere alcune parole verso qualche italiano e anche da costoro si sentiva risposta poco buona, a tale risposta cominciava a crescere la nostra disperazione, ma subito cimbarcò in un treno speciale e in circa 4 ore siamo rivatti in S. Paolo nella casa della Migrazione, e anche a tale arivo creseva più forte la nostra disperazione, prima per vedere una grande moltitudine di poppolo, e per sentire che esisteva grande morturità sui piccoli fanciulli non solo ma quando cominciò inoltrarsi la notte e osservando tutti i piccoli fanciulli e l’intiera famiglia che stanchi del viaggio dormivano coricati sopra le tavole circondati da 10.000 persone ma io non poteva darmi riposo per sentire che da un lato della stanza piangeva una donna, dall’altra un uomo e osservando i fanciulli, e pensarmi d’essere colpevole di averli fati suplire tante tribulazioni, gli dico la verità sig. Padrone che io non poteva tratenermi di piangere lungo la notte, e così passò il mio primo riposo nell’America”.

Lettera di Francesco Costantin 
Colonia Angelica (San Paolo, Brasile), 8 giugno 1889

Egregio Signore,

Non le dirò nulla del viaggio ferroviario, solo le dimostrerò in compendio il tragitto marittimo.

Riuscita bene la visita medica in Genova si figuri di vedere un agglomeramento di gente di ogni età, sesso e condizione un due o tre mila persone tutte riunite giulive e chiassose che se la contano del più e del meno. Ma ecco che il fischio del Piroscafo annunzia che si deve salutare la Patria e si parte verso la terra da tanto tempo desiderata.

Se il tempo è favorevole tutto va bene, ma è difficile compiere il viaggio così lungo sempre col buon tempo.

Non trovo parole adeguate per descriverle per l’intiero lo sconvolgimento del Piroscafo, i pianti, i rosari e le bestemmie di coloro che hanno intrapreso il viaggio involontariamente, in tempo di burrasca. Le onde spaventose s’innalzano verso il cielo, e poi formano valli profonde, il vapore è combattuto da poppa a prua, è battuto dai fianchi. Non le descriverò gli spasimi, i vomiti e le contorsioni dei poveri passeggeri non assuefatti a cositali complimenti. Il giorno che il mare è in burrasca, pochi sono quelli che vanno a prendere il rancio, il maestro di casa potrebbe tralasciare di far suonare il campanello. 

Tralascio dirle dei casi di morte, che in media ne muoiono 5 o 6 per 100, e pregare il Supremo Iddio che non si sviluppino malattie contagiose, che allora non si può dire come l’andrà. 

Riguardo al vitto io non posso dirne bene, ché essendo tutti emigranti gratuiti ci trattavano peggior dei maiali, rancio, pane, baccalà, carne, ed altro che ci davano era preparato peggio che potevano, e ci volevano stomachi di ferro per mangiare.

Finalmente permettendo Iddio dopo 20 e più giorni si arriva al porto desiderato di Santos, oppure a Rio de Janeiro”. 

(Tutte le lettere sono tratte da: Merica! Merica! Emigrazione e colonizzazione nelle lettere dei contadini veneti in America latina, 1876-1902, di Emilio Franzina; Feltrinelli economica, 1979)

Il piroscafo Duca di Genova.
(Immagine tratta da Jack Costa. L’epopea di Giovanni Dalla Costa, il trevisano che cercò l’oro in Alaska, e lo trovò, Dario De Bortoli; Milano: F. Angeli, 2006 – per gentile concessione di Dario De Bortoli)

L’uomo che ha bucato il mondo

È stato definito “L’uomo che ha bucato il mondo”. Così si intitola la biografia che racconta la sua storia di successo professionale. Ancor più significativo, però, il sottotitolo dell’opera (di Eugenia Scarino, Il Calamaio, 2016): “storia di orgoglio italiano”. E, aggiungiamo noi, di orgoglio bellunese. Perché stiamo parlando di Riccardo Lovat, nato a Sedico nel 1928, inventore ed esportatore in tutto il mondo della talpa meccanica, la fresa che permette la meccanizzazione completa dello scavo dei tunnel.

Dopo aver lavorato sia come minatore che come elettricista, poco più che ventenne Riccardo emigra in Canada, dove con diversi incarichi è alle dipendenze di un impresario di Toronto specializzato in opere sotterranee. Proprio qui diviene presto responsabile dei lavori e nel frattempo inizia i suoi studi per lo sviluppo di metodi innovativi per lo scavo, progettando e fabbricando attrezzatura con cui affrontare le difficili condizioni delle gallerie.

Ecco che nel 1963 crea l’impresa “Richard Machinery and Repair Ltd”: riparazioni di macchinari pesanti e costruzione su misura di attrezzatura da galleria. È la fase ideale per mettere alla prova le sue intuizioni sulle macchine da scavo, e per affinare la sua tecnologia per la costruzione di “tunnel boring machines”, frese scudate per lo scavo di gallerie.

Nasce così (anno 1972) la “Lovat Tunnel Equipment Inc.” per rispondere alla crescente richiesta di macchine sempre più efficienti per la costruzione di gallerie. Lovat sviluppa e brevetta procedure e metodi per aumentare la produttività e al tempo stesso accrescere la sicurezza dei minatori in galleria, e la sua azienda concorre alla realizzazione di progetti rilevanti.

Alcuni esempi? Le metropolitane di Washington e Caracas, miniere di carbone e gallerie di drenaggio in Canada, sistemi idraulici nel Regno Unito, condotte forzate in Svizzera, i tunnel di servizio sotto l’aeroporto Barrajas di Madrid, acceleratori di particelle in Russia e i sistemi di drenaggio che scorrono sotto la Città del Vaticano.

È proprio il caso di dirlo: una storia di orgoglio italiano, e bellunese, nel mondo.

Canada, luglio 1993. La talpa meccanica e il suo inventore, Riccardo Lovat, in basso (a sinistra).