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Una giovane nella grande città

Angela, classe 1923, si sta avvicinando al traguardo dei cent’anni. La memoria, a quell’età, a volte vacilla un po’, come è normale. Non potrà mai dimenticare, però, quando nel 1939, appena sedicenne, fece le valigie e partì per Roma, assunta a servizio da una ricca famiglia. Per lei, giovane contadina che fino a quel momento non aveva mai visto altro che il piccolo paesino di Caleipo in cui era nata, il richiamo della capitale, la grande città, era sembrato un’occasione da non perdere, un sogno. D’altra parte, anche le ristrettezze economiche in una famiglia con cinque fratelli, orfani di padre, pesarono sulla scelta.

L’impatto con la realtà, tuttavia, si rivelò più simile a un incubo. «Il padrone – è la prima cosa che racconta, malvolentieri, se le si chiede di parlare di quell’esperienza – tentò di violentarmi. Io scoppiai a piangere e gli dissi che l’avrei riferito alla signora, sua moglie». A portarla nella “città eterna” era stato l’invito di una compaesana, presentatasi un giorno con la notizia che cercavano una “serva” a Roma.

Appena arrivata Angela si era già pentita della sua scelta: «Volevo tornare indietro, ma ormai era troppo tardi».

«Mia mamma non voleva che partissi, perché ero troppo giovane, ma a me sembrava una gran cosa e dissi subito di sì». Così, accompagnata dalla futura padrona, salita a Belluno, fece il tragitto in treno fino a quella che per un anno sarebbe stata la sua nuova casa. Un anno interno. Un’eternità, se si pensa che appena arrivata Angela si era già pentita della sua scelta: «Volevo tornare indietro, ma ormai era troppo tardi».

Con il passare dei giorni le cose non migliorarono. Oltre al comportamento inqualificabile del padrone, il cibo che le fornivano era scarso e la paga era bassa. «Mi davano sessanta lire al mese, mandando tutto direttamente a mia mamma, quindi a me non restava nulla, nemmeno il necessario per comprare un francobollo e spedire una lettera. Per fortuna, due volte ho trovato dieci lire in strada. La prima volta erano sotto un’auto. La seconda, le ho viste mentre andavo a fare la spesa. Il vento le trascinava via e io le rincorrevo», ricorda ridendo. «Con quei soldi sono andata a comprarmi un po’ di pane».

Dopo la disavventura romana, tutta un’altra storia furono i tre anni trascorsi tra Milano e Como. «A Milano, ero da una contessa in via Monte Napoleone, facevo la cameriera. La cuoca era una mia amica e poco distante, da un famoso avvocato, lavorava mia sorella. Lì mi sono trovata davvero bene. Guadagnavo centocinquanta lire al mese ed ero trattata con affetto. Ricordo che un giorno la cuoca era assente. Ho cucinato io e la signora mi ha fatto i complimenti: “Questa minestra è più buona di quella che fa la cuoca”, mi ha detto».

«I padroni erano amareggiati, perché si erano affezionati. Ma mia mamma era malata e dovevo tornare per assisterla. Mi è dispiaciuto andarmene, ma non potevo fare altrimenti».

Nel 1940 l’Italia entrò in guerra e il capoluogo lombardo iniziò a subire i bombardamenti alleati. Chi poteva, fuggiva. «La contessa aveva una villa a Como. Ci siamo trasferiti lì, in un posto bellissimo». Un po’ a malincuore, nel 1943 Angela dovette fare le valigie e rientrare a Belluno. «I padroni erano amareggiati, perché si erano affezionati. Ma mia mamma era malata e dovevo tornare per assisterla. Mi è dispiaciuto andarmene, ma non potevo fare altrimenti». Da Roma, intanto, i vecchi datori di lavoro avrebbero voluto riavere Angela con loro. «Hanno scritto chiedendomi di tornare. Gli ho risposto che non ci sarei andata per nulla al mondo».

L’esperienza di emigrazione si concluse così. Una volta a Belluno, dopo l’armistizio e l’occupazione tedesca, nel 1944 Angela si unì alla Resistenza come staffetta, nome di battaglia: Novella. «Mio fratello Gino era a capo di un gruppo di partigiani di stanza a Cirvoi. Per loro andavo fino a un deposito poco fuori Belluno a prendere prosciutti. Li mettevo in una borsa e li portavo a casa, riposti nel foro di una stufa a mattoni. Lui veniva a prenderli e mi consegnava le missive da recapitare a Quantin. Quelle le portavo nascoste negli scarponi». Non solo messaggi e rifornimenti. «Una volta Gino mi aveva portato un sacco pieno di bombe a mano da nascondere in soffitta. Mi aveva anche spiegato, nel caso ce ne fosse stato bisogno, come usarle», le torna in mente con un pizzico di allegria.

Un giorno, durante una rappresaglia nazista nella vicina Castion, sentì gli spari e il sibilo dei proiettili. «Sono corsa a recuperare le bombe per nasconderle. Se le avessero trovate, ci avrebbero incendiato la casa». Tutto finì con la Liberazione. «Un giorno felice. Con mia sorella abbiamo raggiunto una collina dalla quale potevamo osservare Belluno. Si vedevano i tedeschi sfilare in ritirata, con cavali e camionette. Uno spettacolo». A ostilità terminate si sposò, fece famiglia e rimase sempre nella “sua” Belluno.

Nel dopoguerra fu il fratello Giovanni a fare le valigie e a salpare verso l’Argentina, «dove ha vissuto sempre con una forte nostalgia, tanto che l’unica volta che è venuto in Italia per una vacanza, arrivato si è inginocchiato a baciare la terra», spiega Angela. Giovanni non tornò mai più al suo paese. Morì dall’altra parte dell’oceano. Ma questa è un’altra storia.

Prendersi cura del futuro

Sono nata nel 1936 a Colderù. A tredici anni sono partita per Milano per lavorare al servizio della stessa famiglia in cui mia mamma – alla nascita di mio fratello – era stata balia nel 1933. Al suo ritorno a casa, dopo qualche tempo, era partita con mio padre, prima per la Germania, e poi per la Svizzera, dove lavoravano in una fattoria. Mi trovarono un lavoro nella fattoria di un cugino dei loro padroni e, a diciotto anni, partii per la Svizzera. Lì parlavano in tedesco e gli inizi non furono facili, ma imparai a sbrigarmela, a capire e farmi capire.

Per raggiungere i campi dalla fattoria bisognava percorrere un lungo tratto di strada attraverso la città. Il padrone mi precedeva in bicicletta con la falce. Lo seguivo con un’alta carretta tirata da due cavalloni. Avevo sempre tanta paura perché c’era parecchio traffico e spesso un tram mi sbarrava la strada. Mentre il padrone falciava l’erba, salivo in piedi sulla “grappa” e guidavo i cavalli avanti e indietro per sarchiare le patate, poi insieme caricavamo l’erba e ritornavamo alla fattoria. Ogni mattina partivo con i cavalli verso uno dei campi del padrone per fare il lavoro che mi veniva assegnato.

Avevo lasciato a Colderù il mio fidanzato, Giovanni Tremea. Mi mancava. Parlai di lui al padrone, raccontandogli della sua forza e della sua destrezza, e il padrone lo assunse. Lavorammo insieme durante un breve periodo di ambientamento, poi alloggiai in un convitto della stessa città. Malgrado fossi minorenne, fui assunta in una fabbrica di abbigliamento intimo grazie all’intervento del mio padrino, Felice Castellan, presso un dipendente di quella fabbrica con il quale era in buona relazione. Giovanni aveva lavorato da muratore a Lentiai con Gino Luzzatto e si adattò a fare il contadino in Svizzera. A fine stagione tornammo a casa in ferie.

Al nostro ritorno in Svizzera, Giovanni, tramite mio fratello, fu assunto in una fabbrica di lavorazione del marmo. Ritornai al mio posto precedente finché, sempre tramite mio fratello, fui assunta in un’altra fabbrica. Con mio fratello, un amico di Canai e Giovanni, affittammo un appartamentino dove vivemmo insieme fino al nostro rimpatrio. Nel 1956 ritornai a Colderù con Giovanni e ci sposammo. Ma non riuscivo ad adattarmi alla misera vita senza speranza a cui mi sentivo costretta. Dal nostro matrimonio nacque una bambina. Come si usava frequentemente a quei tempi, si viveva tutti insieme nella casa dei suoceri e le nuore erano sottomesse alla volontà di questi ultimi, prive di denaro e senza alcuna libertà d’iniziativa. Nutrivo l’ardente desiderio di tentare qualcosa per incidere sul mio destino.

Lentiai, 1956. Matrimonio di Solisca Tremea e Giovanni Tremea

Decisi di seguire l’esempio della mamma. Dovevo per questo avere un’altra maternità. Rimasta incinta della seconda figlia, annunciai a mia madre che volevo anch’io andare balia come aveva fatto lei. Mia mamma aveva accettato di occuparsi della futura nipotina, ma morì tre mesi prima della sua nascita. Malgrado il mio grande dispiacere, mantenni la mia intenzione di partire. Non volevo rimanere con due bambine a lavorare in una grande famiglia senza mai vedere l’ombra d’un quattrino.

All’ospedale di Venezia mi assegnarono una camera con due culle per i bambini. Allattavo uno di loro, mentre una balia esterna veniva puntualmente nella camera ad allattare l’altro.

Appena nacque Giulietta, mi rivolsi al servizio di baliatico di Santa Giustina e mi fu trovato un posto di balia all’ospedale Umberto I di Venezia per due gemelli la cui mamma era appena morta. Lasciai mia figlia a Stella Moret. Lei la nutrì al biberon con il latte di mucca e si prese cura di lei.

All’ospedale di Venezia mi assegnarono una camera con due culle per i bambini. Allattavo uno di loro, mentre una balia esterna veniva puntualmente nella camera ad allattare l’altro. Assistevo i due bambini negli intervalli e durante la notte. Un’infermiera veniva a pesarli, prima e dopo la poppata. Guadagnavo 60.000 lire al mese. La seconda balia rimase incinta. Il suo latte non era più buono e dovette ritirarsi. Rimasta sola, allattai da sola i due bambini e mi aumentarono il salario di ulteriori 40.000 lire al mese.

Terminato il periodo d’osservazione medica ci trasferimmo ad Adria, nella casa della nonna paterna dei bambini. Avevo già incontrato questa signora prima di partire. Era venuta a trovarmi per conoscermi, accertarsi della mia buona salute, accordarsi con me e firmare il contratto. I gemelli non avevano ancora compiuto il primo anno quando Giovanni mi informò di aver trovato un alloggio.

Solisca Tremea nel 1967

Potevamo finalmente separarci dalla famiglia di mio marito e vivere la nostra vita. Accolsi con entusiasmo la grande e tanto attesa notizia. Mi permetteva di ritrovare la mia famiglia, di riabbracciare le nostre figlie. Informai il padre dei gemelli della mia intenzione di partire. Lui mi offrì un aumento di 10.000 lire perché restassi con loro, ma non mi lasciai convincere. Gli proposi di sostituirmi con la balia asciutta di mia figlia. L’uno e l’altra accettarono e, quando Stella Moret arrivò, rimasi ancora qualche giorno affinché i gemelli famigliarizzassero con lei, poi ritornai a casa.

Solisca Tremea

Storia tratta da Va Pensiero… Immagini e memorie d’una comunità bellunese, terza parte, a cura di Luisa e Vittorio Zornitta.

Una storia di famiglia

Tutto inizia con l’emigrazione in Germania della bisnonna, Maria Frigo Mosca, nata a Villapiccola d’Auronzo e sposata con un Gregori di Vodo. Nel 1870 Maria emigra in Germania con il figlio Antonio. Aprono la prima azienda vendendo gelato con i carretti.

In quegli anni le gelaterie devono ancora nascere e la prima viene aperta alla fine del secolo. In breve tempo l’impresa si sviluppa fino a contare una quindicina di carretti. In Germania nacque Antonia, mia nonna materna, dalla quale, a Vodo, nel 1915, nacque mia madre, Maddalena.

Mio nonno paterno Mariano, invece, nel 1875 emigrò nel New Jersey e si stabilì nella località di Clifton-Passaic, dove inizialmente lavorò come vetraio. Ben presto, però, scoprì il gelato. Attorno al 1915 ritornò in Cadore, spostandosi poi a Galliate di Novara. Alcuni anni più tardi emigrò anche lui in Germania, sempre vendendo gelato. Mio padre Giacomo, nato nel 1906, gli succedette per alcuni anni alla guida dell’azienda di Galliate, fino a quando, nel ’33, emigrò in Olanda con un amico di Vodo.

La prima domenica di bel tempo uscirono in piazza con i carrettini luccicanti, la giacca bianca e il berretto. Furono però fermati da un vigile che, dopo aver controllati i permessi – trovati regolari – comunicò loro che in quella città era vietata la vendita ambulante di domenica. Fu una doccia fredda, ma dovettero adeguarsi, non senza qualche sacrificio: sobbarcarsi per l’intera stagione pedalate di venticinque, trenta chilometri e raggiungere altri borghi.

Sempre in buona armonia, nella stagione seguente si separarono e si stabilirono altrove. Rimasto solo, mio padre chiamò in Olanda la fidanzata. La morale e la religione di quei tempi non vedevano di buon occhio la convivenza per cui lei dovette sistemarsi da alcuni parenti in una città vicina.

Nell’aprile del ’36 finalmente si sposarono e aprirono la loro prima gelateria all’Aja. Nel giugno del ’37 nacqui io. Nel ’44 nacque mia sorella Lina. Nella mia infanzia frequentai alternativamente le scuole in Italia e in Olanda. In casa si parlava esclusivamente ladino o italiano, ma fuori solo olandese. Così nel tempo libero ho conseguito – primo italiano – il diploma di traduttore-interprete giurato italiano-olandese.

Ho svolto la mia professione in molti ministeri e in particolare per la polizia e per i tribunali, fino al Consiglio di Stato. La maggiore delle nostre figlie, Magda, nata a Pieve di Cadore, è docente di olandese all’Università di Milano. La seconda, Claudia, gestisce la gelateria fondata da me e mia moglie, Alida Burrei, originaria di Nebbiù. Anche lei proviene da una famiglia di gelatieri: nel 1938 il padre vendeva gelato con gente di Venas a Cracovia.

Io e Alida siamo sposati da cinquantuno anni. Da quasi sedici abbiamo ceduto il passo ai giovani e, pur con i limiti dovuti all’età, cerchiamo di goderci la vita viaggiando e coccolandoci vicendevolmente con i nostri nipotini: una bimba di tredici anni e due maschietti di dodici e dieci.

Mario Talamini-Brugo

Un ritorno complicato

Prima di partire mi ero detto che se mi fosse andata bene mi sarei comprato la Lancia Fulvia Coupé e mi sarei sposato. Se si lavorava il venerdì, che era festa, ci pagavano il doppio. Per quanto riguarda le ferie, potevamo fare un mese all’anno in Italia, cinque giorni ogni due mesi fuori dall’Arabia Saudita, in Etiopia o in Libano, oppure rimanere lì, e in questo caso ci avrebbero pagato doppie le cinque giornate.

Io ho sempre adottato quest’ultima soluzione, perché avevo bisogno di soldi. Il lavoro non era male, a me bastava ci fossero le macchine, anche se dovevamo solo guardarle. Si lavorava circa dieci ore al giorno e se ne segnavano dodici, ma nessuno reclamava.

Per passare il tempo dopo il lavoro non c’era granché. Quelli nuovi, quando arrivavano, ci prendevano per matti perché stavamo nove mesi nel deserto senza mai andare da nessuna parte. L’ultimo mese prima di tornare a casa non passava mai, anche perché il lavoro era diminuito e le macchine erano sempre meno. Fino a quando finalmente è arrivato il giorno della partenza.

Eravamo solo io e Gelindo. A Riad l’aereo è decollato regolarmente, ma dopo un’ora ha cominciato a ballare. Le pareti scricchiolavano e le luci si erano spente: sembrava di correre su una strada piena di buche. Le hostess erano sparite. Dopo, non so come, tutto si è calmato e l’aereo è atterrato. Mentre scendevamo la scaletta ho dato un’occhiata attorno e ho detto a Gelindo: «Guarda che siamo tornati a Riad». «Impossibile», ha risposto lui ridendo. Poi ci siamo accorti che era vero.

Tutti i passeggeri chiedevano spiegazioni. Il personale, con calma, spiegava che si era rotto un motore e avevamo incontrato una tempesta di sabbia. Ci hanno restituito le valigie e il biglietto, poi ci hanno invitato a tornare l’indomani. Usciti dall’aeroporto, abbiamo preso un taxi e ci siamo diretti alla guest house. A un tavolo c’erano due uomini arrivati dall’Italia. Ci hanno detto che se volevamo partire l’unica soluzione era raggiungere Dhahran in taxi durante la notte, a trecentocinquanta chilometri di strada. Da Dhahran si doveva partire il giorno dopo alle dieci e mezza.

Con il responsabile della ditta siamo andati in strada e abbiamo fermato un taxi contrattando il prezzo. Partiti, l’autista ha girato un po’ per la città e si è fermato in periferia, dove c’era un grande distributore con diversi mezzi in sosta. Ci ha fatto capire di attenderlo lì e si è allontanato. Si è rifatto vivo dopo mezz’ora con un altro taxi più vecchio e sporco e a gesti ci ha spiegato che non poteva accompagnarci perché non aveva le carte in regola.

Una volta fuori città c’era solo deserto, la strada correva su e giù sull’asfalto largo circa sei metri.

Era appena scoppiata la “Guerra dei sei giorni” tra Israele ed Egitto e in molti stavano raggiungendo proprio l’Egitto per dar manforte all’esercito. Il governo cercava di impedirlo e aveva piazzato posti di blocco un po’ dappertutto. A quel punto gli abbiamo detto che ci andava bene andare con un altro taxi allo stesso prezzo e così siamo ripartiti. Una volta fuori città c’era solo deserto, la strada correva su e giù sull’asfalto largo circa sei metri. Il taxi era un Chevrolet con la lana sul volante e sul cruscotto, pieno di pelli di pecora e altri ornamenti colorati. Ogni tanto incontravamo qualche camion, ma tutti andavano in direzione opposta alla nostra.

Dopo un centinaio di chilometri abbiamo visto delle luci e una sbarra sulla strada, con dei militari che ci hanno fermato. Hanno parlato con il tassista e l’hanno fatto entrare nella piccola caserma di fianco alla strada. Dopo mezz’ora di attesa senza avere comunicazioni, abbiamo provato a sollecitare i soldati. Ci hanno fatto scendere e ci hanno condotto nella casermetta. Un capitano ci ha fatto intendere che il taxi non poteva portarci. Gli abbiamo mostrato il biglietto aereo e a segni gli abbiamo spiegato che alle dieci del giorno seguente dovevamo prendere un altro volo a Dhahran. Dopo diverse discussioni, hanno ritirato tutti i documenti al tassista e gli hanno rilasciato un lasciapassare di ventiquattro ore. Ci hanno offerto un tè e siamo ripartiti.

Dopo una decina di chilometri l’autista si è fermato, ha accostato la macchina fuori dalla strada, si è appoggiato alla portiera e si è messo a dormire. Noi, però, avevamo poco tempo e non ci potevamo fermare. Gelindo rideva, come al solito. Ad avere fretta di tornare a casa – diceva – ero io. Ho spostato il tassista e ho preso il volante. Da lì a Dhahran abbiamo incontrato ancora due posti di blocco: quando vedevo la luce mi fermavo e mettevo il tassista al suo posto. Passata la barriera mi rimettevo io alla guida. Siamo arrivati a Dhahran giusto un’ora prima di prendere l’aereo.

Angelo Mioranza

La storia è un estratto di un capitolo più ampio presente nel libro Trent’anni nel mondo e poi la carrozzella, di Angelo Mioranza; Bellunesi nel mondo Edizioni.

Angelo (a sinistra) e il cuoco del cantiere.

Un’avventura americana

I fratelli Celeste e Pietro Lorenzini costruirono la loro casa a Selva di Cadore nel 1904. Dopodiché, per guadagnare il denaro necessario a pagare le spese, decisero di partire per l’America. Il piroscafo sul quale viaggiarono li condusse a New York, dove una volta sbarcati ebbero modo di trovare solamente qualche lavoro precario, che non permetteva tuttavia di risparmiare denaro a sufficienza per il loro scopo. Per questo motivo, un giorno, scorto un manifesto in lingua italiana sul quale era scritto: «Si cercano operai italiani per la Florida», deciso di lasciare New York e partire per la loro nuova meta, attratti dalle possibilità che il manifesto sembrava offrire.

Dopo tre giorni in nave e uno in treno, giunsero sulla punta della Florida, nei pressi del Mar dei Caraibi, dove li accolse un’amara sorpresa: il lavoro in cui vennero impiegati era pressoché in condizioni di schiavitù, per questo decisero di fuggire. Attraversarono la punta della Florida a piedi e arrivarono fino a Miami, nelle vicinanze di un villaggio di pescatori. Qui scoprirono che lo Stato forniva gratuitamente degli appezzamenti di terra, i quali, una volta recintati e lavorati per tre anni, diventavano di proprietà dei coltivatori.

Con un asino e dei lavoratori neri, iniziarono a coltivare fragole. Non passò molto prima che la zona venisse “scoperta” dalla gente degli stati del Nord, e infatti di lì a poco un industriale si accinse a costruire in quell’area un albergo. Celeste e Pietro vennero così assunti come falegnami.

Con il trascorrere degli anni iniziarono a raggiungerli in America gli altri familiari, eccetto la prima moglie di Pietro, che all’epoca era incinta. La donna morì di parto e così Pietro, seguito dagli altri parenti, fu costretto a tornare in Italia, e a rinunciare quindi alla proprietà del grande terreno al centro dell’attuale Miami.

Serena Bassot

Miami, 1904. Da sinistra, Celeste e Pietro Lorenzini (i due fratelli) e il loro cognato Ermenegildo Lorenzini.