Un esempio di intraprendenza e religiosità

Ad Ana Rech era conosciuto come Pedro Boff, ma quasi tutti lo chiamavano col suo soprannome: Piero “Taliàn”. Nato in Valle di Seren del Grappa il 2 aprile 1900, figlio di Antonio e Domenica Turra, Pietro Bof arrivò nel Rio Grande do Sul nel 1926, in un’epoca in cui il grande esodo dei contadini veneti era già terminato da tempo.

È presumibile che abbia voluto raggiungere i parenti dello zio, Vittore Bof, emigrato invece nel 1881. Diversi anni fa, Pietro raccontava che la guerra del ‘15-’18 aveva fatto fuggire molte famiglie e che lui si era rifugiato in una località vicino Trento; aveva poi deciso di emigrare a Caxias su invito di alcuni parenti, perché non aveva un impiego e i suoi familiari gli avevano pagato il viaggio.

…questo fu un duro colpo per il giovane Pietro.

Fu così che lasciò definitivamente l’Italia con la moglie Clementina Maria Da Costa, allora incinta. Dopo sedici giorni di traversata, all’arrivo in Brasile la donna diede alla luce un bambino. Purtroppo, però, a pochi giorni l’uno dall’altra morirono sia il piccolo che la madre e questo fu un duro colpo per il giovane Pietro. Passarono quattro anni prima che decidesse di risposarsi con Carmelina Dal Piaz, di origini trentine. La nuova coppia ebbe cinque figli: Remigio, Marcellino, Antonio, Josè e Maria.

Commercializzava inoltre piccoli oggetti di legno che sapeva costruire con le proprie mani.

Grazie alla sua grande intraprendenza, Pietro riuscì presto a possedere un mulino nella zona di Santo Homo Bom, a sud di Ana Rech: se lo costruì da solo e vi fece funzionare due macine, una per il frumento e l’altra per il mais. Divenne anche proprietario di un grande orto e di un buon frutteto: coltivava pesche, mele, prugne, fichi in grande quantità, cachi e mele cotogne, poi venduti al mercato di Caxias e alle famiglie del luogo. Commercializzava inoltre piccoli oggetti di legno che sapeva costruire con le proprie mani.

Come tanti altri nostri emigranti che seppero mantenere la loro devozione religiosa anche laddove si trasferirono, Pietro fu sia generoso contribuente per la realizzazione della Via Crucis nella Chiesa di Nossa Senhora de Caravaggio di Ana Rech, sia devoto costruttore di una grotta dedicata alla madonna di Lourdes.

Anche in questa occasione, Pietro volle scavare personalmente la grotta, in un luogo particolarmente umido delle sue terre e dove le rocce erano piene di licheni, muschi, felci e begonie. Costruì, inoltre, un altare di legno che fu benedetto nel 1934 assieme alle statue di Santa Maria di Lourdes e Santa Bernadette Soubirous, pagate dal suocero Oreste. Pietro Bof morì a Caxias il 19 maggio 1984.

Luisa Carniel

Famiglie bellunesi ad Ana Rech (Caxias do Sul) – Arquivo Histórico Municipal João Spadari Adami

L’amante

Quello del seggiolaio, si sa, è un lavoro da girovago. Un mestiere in continuo movimento, a inseguire gli affari ovunque ce ne sia l’occasione, dalla campagna più remota ai piccoli e grandi centri città. Inspiegabilmente, però, da parecchio tempo un seggiolaio sostava nella piazza di un paesino, costringendo i suoi due apprendisti, i gaburi, a estenuanti pedalate per raggiungere i villaggi limitrofi dai quali far ritorno carichi di sedie.

La permanenza, ormai, si protraeva da giorni. Non solo, spesso accadeva che il rompa, il padrone, si allontanasse dal posto di lavoro per diverse ore, lasciando i due gaburi a proseguire da soli. Prima di andarsene, impartiva ordini e si raccomandava che tutto venisse eseguito a regola d’arte. In caso contrario, al suo ritorno sarebbero state autentiche tirate d’orecchi. Ai gaburi diceva di assentarsi per valutare nuovi lavori, commissioni che puntualmente non arrivavano. Ecco perché i ragazzi si erano insospettiti.

Dettate le istruzioni, il seggiolaio provvedeva all’igiene personale: prima una veloce sciacquatina alla fontana, poi estraeva uno specchietto e lo appoggiava in un luogo di fortuna; dalla casela dele arte (la cassetta degli attrezzi) prendeva una boccetta di brillantina Linetti e con un piccolo pettine, che era solito tenere nella tasca posteriore dei pantaloni, si cospargeva i capelli. Dopodiché, pettinava e rifiniva con dovizia. La pettinatura era perfetta se la testa risultava liscia e omogenea come fosse stata leccata dalla lingua ruvida di un gatto. Era la moda di quegli anni. Lindo e pinto, sistemava la camicia. Poi, inforcata la bicicletta, spariva fischiettando.

Sistemare bene la camicia sotto i calzoni non era facile, ed era un’operazione che solitamente veniva eseguita in luogo appartato. Bisognava infatti slacciare la cintura e lasciar scendere le braghe fino quasi alle ginocchia, tenendo le gambe aperte affinché non calassero oltre. In quella posizione, la mano sinistra cominciava a sollevare i pantaloni, mentre la destra accomodava la camicia fino a riallacciare la cintura. A quei tempi le camicie erano molto lunghe, perché a volte, fermate con uno spillo nella parte bassa, venivano usate per sostituire le mutande.

I due apprendisti guardavano divertiti i suoi goffi movimenti, scambiandosi occhiate di scherno. Avevano intuito che il padrone non andava affatto a cercare lavoro.

Incurante dei gaburi tanto quanto dei passanti, il seggiolaio espletava la manovra in bella vista, come se nulla fosse, tale era la smania di allontanarsi. I due apprendisti guardavano divertiti i suoi goffi movimenti, scambiandosi occhiate di scherno. Avevano intuito che il padrone non andava affatto a cercare lavoro. Tutti quei preparativi non erano giustificati. E poi, perché tornava sempre a mani vuote? Ma non riuscivano a capire dove se la svignasse. Così un giorno, per soddisfare la curiosità, decisero di seguirlo, di nascosto ovviamente.

A debita distanza, senza farsi notare, gli si accodarono fin fuori il paese, attenti a non perderlo di vista. Il pedinamento terminò davanti a un casolare, dove l’uomo posò in fretta la bici e si apprestò a entrare furtivamente. Trovato un nascondiglio in posizione strategica, i ragazzi iniziarono ad alternarsi nell’opera di spionaggio, decisi a portare a termine la missione. L’attesa fu snervante e durò molte ore. Era ormai buio quando all’improvviso l’uscio si aprì e la sagoma del seggiolaio si stagliò in controluce mentre salutava teneramente la signora che lo aveva accompagnato. Il mistero era svelato: il padrone aveva un’amante.

Dalla loro posizione i gaburi avevano osservato tutto, avevano sentito il rumore sordo della gragnola di colpi abbattutasi sul seggiolaio.

Con agili passi raggiunse la bicicletta, ma non fece in tempo a salirvi che dall’oscurità spuntarono altre tre figure. Senza pronunciare una parola e con fare deciso, cominciarono a malmenare l’uomo a calci e pugni, scrupolose nel non risparmiare nessuna parte del corpo. Infierirono anche quando, sbilanciato, il poveretto finì a terra. Poi, come erano comparse, svanirono nel nulla. Dalla loro posizione i gaburi avevano osservato tutto, avevano sentito il rumore sordo della gragnola di colpi abbattutasi sul seggiolaio. Erano stati testimoni di un episodio al quale mai avrebbero voluto assistere. Spaventati, fuggirono, ritirandosi nel fienile dove erano soliti passare la notte.

Dopo qualche ora udirono il padrone arrivare. Fingendo di dormire, sbirciarono da sotto le coperte, con il cuore che batteva a mille. Videro i suoi gesti impacciati, accompagnati da profondi sospiri. Alla fine, nonostante tutto, si coricò per addormentarsi. Ingenui e ignari – avevano dieci e undici anni -, ai due apprendisti non era chiaro il motivo del pestaggio.

Il mattino successivo furono svegliati all’alba dal seggiolaio, che ammaccato e tumefatto, con un occhio nero come un drolca (paiolo), disse loro di far fagotto: era ora di allontanarsi dal paese. Solo molto tempo dopo i ragazzi compresero la ragione di ciò che avevano visto. E ancora ricordano con allegria le parole pronunciate quella mattina dal padrone: «Stopre, sgorlonghela, iqua la gira gori». «Svelti, andiamo via, qui non tira aria buona».

Il racconto è tratto dal libro Imbaginà. Storie di seggiolai agordini, di Enrico Stalliviere, Bellunesi nel mondo Edizioni 2021.
Il libro è disponibile per l’acquisto presso la sede Abm (in via Cavour, 3 a Belluno).

Seggiolai di Gosaldo in Francia, 1928. Per gentile concessione di Amabile Selle

I quattro di Zermatt

La storia dell’emigrazione italiana è purtroppo anche storia di tragedie sul lavoro. Famosa quella di Marcinelle, o quella di Mattmark, con quest’ultima che ha coinvolto pesantemente la provincia di Belluno. Anche il nostro territorio, infatti, segnato nei decenni da un massiccio flusso di partenze, ha visto tanti suoi figli perdere la vita all’estero. Un episodio poco noto e quasi dimenticato è quello avvenuto a Zermatt, nel Canton Vallese, il 14 maggio del 1963. Quel giorno, sorpresi dai fumi di monossido di carbonio, persero la vita quattro bellunesi, tutti molto giovani. Il più vecchio, infatti, aveva ventisei anni.

A riportare alla luce quell’indicente sono i fratelli Alberto e Mario Uliana, originari di Visome e anch’essi emigrati in terra elvetica, dove Mario – socio della Famiglia Bellunese di Lugano – ancora risiede. Nel cantiere teatro del sinistro, fino a un mese prima c’era anche lui, appena diciassettenne. Lì Mario e Alberto persero il fratello Alcide, morto da eroe nel tentativo di salvare i suoi compagni di lavoro. Fu proprio Alcide a consigliare a Mario di lasciare quel posto e a trovargliene uno a Zurigo. Alberto, invece, era occupato a St. Moritz, nei Grigioni. Nei Grigioni (a Ilanz) c’era anche il quarto fratello, Gino, mancato a Visome nel 1996.

«Io ero ancora minorenne – testimonia Mario tornando con la mente a quell’epoca – e mio fratello era il mio tutore. Era stato lui a firmare i documenti per farmi entrare in Svizzera e sempre lui mi aveva suggerito di cercare impiego da un’altra parte». 

Alcide Uliana

Non si sa se Alcide avesse intuito i pericoli che un ragazzo poteva correre lavorando in quel posto. Fatto sta che il 14 maggio avvenne la tragedia. È ancora Mario a raccontare: «Stavano costruendo una galleria di rimonta per una condotta che portava l’acqua dalla diga della Grande Dixance alle turbine di una centrale elettrica sotterranea. La squadra di mio fratello, composta da sette persone, faceva il turno di notte». Giunto sul posto, il gruppo si accorse che le cose non andavano come al solito, ma non ci dette particolare peso.

«C’era una colonna che bloccava il materiale delle esplosioni e un sistema di ventilazione che faceva fuoriuscire il fumo – spiegano Alberto e Mario -. Salendo, non videro il fumo, ma pensarono che la sciolta precedente avesse caricato di più e completato la foratura. D’altra parte, mancavano pochi metri, tanto che nella mensa era già pronta la festa per il raggiungimento dell’obiettivo.

Così entrarono e appena i primi varcarono la porticina iniziarono a cadere a terra. Il materiale degli spari aveva bloccato il tubo di areazione e il gas era intrappolato dietro la barriera di protezione». Fu allora che Alcide, rimasto un po’ più indietro, tentò il tutto per tutto per salvare i suoi compagni e amici.

«Riuscì a tirarne fuori tre. Poi cadde anche lui. Quando i superstiti ripresero conoscenza e allertarono i soccorsi era ormai troppo tardi. Alcide lo trovarono metà dentro e metà fuori». Gli altri a perdere la vita furono Sergio Bianchet, Giancarlo Cesa e Luigi Da Rold. I sopravvissuti, grazie ad Alcide, furono Angelo De Pellegrin, Giuseppe Borghetti e Bruno Gherardi, come riportato dai quotidiani svizzeri dell’epoca.

«Non dimenticherò mai il funerale – spiega ancora Mario – era il 18 maggio, il giorno del mio compleanno». Di lì a qualche mese la provincia di Belluno sarebbe stata funestata da un’altra sciagura, quella del Vajont. E poi ancora dal disastro di Mattmark. Ancora vittime. Ancora uomini caduti mentre svolgevano, lontano da casa, il proprio mestiere.

Visome, 18 maggio 1963. Due momenti del funerale di Alcide Uliana.
Immagini gentilmente concesse da Alberto Uliana

La notte di Natale del 1913

Era la notte di Natale del 1913. A Calumet, un villaggio nello Stato del Michigan, la comunità italiana si era trovata per una festa in allegria. C’erano uomini – quasi tutti minatori nelle locali miniere di rame -, donne e soprattutto bambini. Per i bambini, si sa, il Natale è sempre un momento magico, atteso con ansia.

Insomma, le famiglie di emigrati si erano date appuntamento all’Italian Hall, la sede della locale Società di Mutua Beneficenza Italiana. Un’occasione perfetta per stare in compagnia, santificare le feste e sciogliere un po’ le fatiche del duro lavoro e le tensioni di quei giorni. I minatori, infatti, che da diversi mesi non percepivano il salario, avevano scioperato per far sentire la propria voce. Quella festa era proprio ciò che ci voleva.

Il palazzo della Società di Mutua Beneficenza Italiana di Calumet.

Una festa povera, per gente umile: dolci, cesti di frutta secca, qualche musicista. Ma per loro, ultimi fra gli ultimi in quell’America in cui era così difficile integrarsi, era un modo per sentirsi a casa. Si ballava, si chiacchierava, i ragazzini giocavano spensierati mentre gli adulti dimenticavano per qualche ora la nostalgia del paese lontano e i sacrifici che la quotidianità da stranieri imponeva come una sentenza.

Tutto procedeva per il meglio, fino a quando si udì gridare: «Al fuoco, al fuoco!». In un attimo si scatenò il panico. Tutti i presenti tentarono di darsi alla fuga. Tentarono, ma senza riuscirsi: qualcuno all’esterno aveva sprangato le porte. Le fiamme non c’erano per davvero, era solo uno scherzo di pessimo gusto congegnato dall’industriale del rame Charles Moyer, il presidente della Western Federation of Miners.

Moyer aveva il dente avvelenato con gli italiani per via del danno economico che il loro sciopero stava arrecando ai suoi affari. E così, per fargliela pagare, aveva assoldato dei buontemponi, che privi di qualsiasi scrupolo avevano messo in atto quel perfido piano. Provate a immaginare una stanza stipata di gente festante che all’improvviso si sente in pericolo di morte. Tutti scappano, ma le uscite sono bloccate. Il disastro è inevitabile.

E infatti, nel parapiglia persero la vita settantatré innocenti, in gran parte bambini. Ecco come la notte di Natale del 1913 a Calumet, una notte di festa e allegria, finì in tragedia. Un triste pagina della storia dell’emigrazione italiana ricordata anche dal noto cantautore Woody Guthrie, che per denunciare l’accaduto fece ciò che meglio sapeva fare, scrisse una canzone intitolata “1913 Massacre“.

Quella notte «Il pianoforte suonò un lento motivo funebre, e la città era illuminata da una fredda luna di Natale. I genitori piangevano e i minatori gemevano: “Guarda cosa ha fatto l’avidità di denaro”».

Dalla falegnameria alla gelateria

Le storie di emigranti si snodano sempre tra appagamenti e nostalgia, valigie colme di speranza ed emblema di sacrificio. Giunti a una certa età si è portati a tracciare dei bilanci del passato, intrecciando emozioni e stati d’animo che rendono vivo il ricordo dei lunghi anni di emigrazione. La mia è una storia come tante, comune a quella di molti altri emigranti.

Sono nato a Fornesighe di Zoldo il 22 dicembre del 1930. Ho frequentato a Forno solo le elementari, perché a quei tempi, per le famiglie modeste, era impossibile mandare i figli a scuole di grado superiore. Mio padre Pietro faceva il falegname e così nell’età adolescenziale l’ho seguito nella sua attività. A Sondrio avevo uno zio e per due anni sono rimasto con lui a imparare il mestiere. Dopo questa parentesi mi sono trasferito a Firenze, impiegato nella costruzione di un ponte sull’Arno, in località Fucecchio. Ero forse il più giovane, ma essendo pratico nell’uso dei macchinari, il padrone mi consegnò le chiavi della falegnameria. Ritornato a Zoldo ho proseguito nell’attività di falegname.

Nel 1957 ho portato all’altare mia moglie Franca e, in seguito, la nostra unione è stata allietata dalla nascita di Mara, Pierina, Giovanni e Patrizia. Continuando a svolgere l’attività di falegname a Zoldo, mi sono reso conto che il lavoro era tanto, ma il profitto purtroppo non soddisfaceva le esigenze della famiglia. Così, dopo un paio d’anni, io e mia moglie abbiamo deciso di seguire la via di molti nostri compaesani che avevano avviato l’attività di gelatieri. Ho trovato un ambiente accogliente nella cittadina di Gifhorn, nella Bassa Sassonia, dove sono rimasto fino a pochi anni fa, quando ho lasciato l’attività a mio figlio.

… mi sono sentito appagato, pur provando nostalgia verso gli amici e i parenti lasciati nella natìa e suggestiva Fornesighe.

Non ho trovato difficoltà nell’inserirmi nella società locale, poiché i tedeschi apprezzavano il nostro gelato. Sono così cominciate a fiorire amicizie, si sono stretti i rapporti coi clienti. In poche parole, mi sono sentito appagato, pur provando nostalgia verso gli amici e i parenti lasciati nella natìa e suggestiva Fornesighe. Ho cercato di svolgere il mio lavoro con onestà, disciplina e professionalità, ho conosciuto una cultura diversa, senza mai dimenticare le mie origini, le tradizioni locali, gli insegnamenti delle vecchie generazioni. Qualche anno fa sono stato richiamato a Gifhorn per ricevere un riconoscimento da parte delle autorità locali, come segno di apprezzamento per quanto fatto in quella città. È stata una giornata meravigliosa, ricca di soddisfazione e di pathos, nella quale le corde delle emozioni hanno vibrato a lungo. La vita è fatta di innumerevoli parentesi, di traguardi raggiunti e di imprevisti, ma sempre bisogna superare i momenti delicati con la fede nel cuore.

Nel 2007 abbiamo festeggiato le nozze d’oro, un giorno memorabile in cui abbiamo ringraziato il Signore per tutto ciò che ci ha donato. Ora, da nonni, accudiamo i nostri nipoti quando i loro genitori sono all’estero per la stagione estiva. Ci sentiamo appagati e felici di poter aiutare ancora, di sentirci utili e uniti. Non ho abbandonato il mestiere del falegname e faccio lavoretti e oggetti, che magari poi regalo.

Ricordo le soddisfazioni avute, i momenti di felicità e anche quelli di dolore

Ma il profumo del legno mi attrae ancora, mi inebria e mi ricorda quel tempo ormai lontano. Dicevo che, a una certa età, si tirano le somme e, nel farlo, nulla del mio passato è offuscato dall’oblio. Ricordo le soddisfazioni avute, i momenti di felicità e anche quelli di dolore, come la ferita al cuore che ho provato con la prematura scomparsa di mia figlia Mara.

Ora vivo sereno con la mia coscienza, la mia vita è sempre stata dedicata al lavoro e alla famiglia. Questa è la mia storia, la storia semplice di un uomo, la storia di un emigrante.

Romano Giacomel

Fucecchio, 1957. Romano Giacomel al lavoro durante la costruzione del ponte sull’Arno.