L’amante

Quello del seggiolaio, si sa, è un lavoro da girovago. Un mestiere in continuo movimento, a inseguire gli affari ovunque ce ne sia l’occasione, dalla campagna più remota ai piccoli e grandi centri città. Inspiegabilmente, però, da parecchio tempo un seggiolaio sostava nella piazza di un paesino, costringendo i suoi due apprendisti, i gaburi, a estenuanti pedalate per raggiungere i villaggi limitrofi dai quali far ritorno carichi di sedie.

La permanenza, ormai, si protraeva da giorni. Non solo, spesso accadeva che il rompa, il padrone, si allontanasse dal posto di lavoro per diverse ore, lasciando i due gaburi a proseguire da soli. Prima di andarsene, impartiva ordini e si raccomandava che tutto venisse eseguito a regola d’arte. In caso contrario, al suo ritorno sarebbero state autentiche tirate d’orecchi. Ai gaburi diceva di assentarsi per valutare nuovi lavori, commissioni che puntualmente non arrivavano. Ecco perché i ragazzi si erano insospettiti.

Dettate le istruzioni, il seggiolaio provvedeva all’igiene personale: prima una veloce sciacquatina alla fontana, poi estraeva uno specchietto e lo appoggiava in un luogo di fortuna; dalla casela dele arte (la cassetta degli attrezzi) prendeva una boccetta di brillantina Linetti e con un piccolo pettine, che era solito tenere nella tasca posteriore dei pantaloni, si cospargeva i capelli. Dopodiché, pettinava e rifiniva con dovizia. La pettinatura era perfetta se la testa risultava liscia e omogenea come fosse stata leccata dalla lingua ruvida di un gatto. Era la moda di quegli anni. Lindo e pinto, sistemava la camicia. Poi, inforcata la bicicletta, spariva fischiettando.

Sistemare bene la camicia sotto i calzoni non era facile, ed era un’operazione che solitamente veniva eseguita in luogo appartato. Bisognava infatti slacciare la cintura e lasciar scendere le braghe fino quasi alle ginocchia, tenendo le gambe aperte affinché non calassero oltre. In quella posizione, la mano sinistra cominciava a sollevare i pantaloni, mentre la destra accomodava la camicia fino a riallacciare la cintura. A quei tempi le camicie erano molto lunghe, perché a volte, fermate con uno spillo nella parte bassa, venivano usate per sostituire le mutande.

I due apprendisti guardavano divertiti i suoi goffi movimenti, scambiandosi occhiate di scherno. Avevano intuito che il padrone non andava affatto a cercare lavoro.

Incurante dei gaburi tanto quanto dei passanti, il seggiolaio espletava la manovra in bella vista, come se nulla fosse, tale era la smania di allontanarsi. I due apprendisti guardavano divertiti i suoi goffi movimenti, scambiandosi occhiate di scherno. Avevano intuito che il padrone non andava affatto a cercare lavoro. Tutti quei preparativi non erano giustificati. E poi, perché tornava sempre a mani vuote? Ma non riuscivano a capire dove se la svignasse. Così un giorno, per soddisfare la curiosità, decisero di seguirlo, di nascosto ovviamente.

A debita distanza, senza farsi notare, gli si accodarono fin fuori il paese, attenti a non perderlo di vista. Il pedinamento terminò davanti a un casolare, dove l’uomo posò in fretta la bici e si apprestò a entrare furtivamente. Trovato un nascondiglio in posizione strategica, i ragazzi iniziarono ad alternarsi nell’opera di spionaggio, decisi a portare a termine la missione. L’attesa fu snervante e durò molte ore. Era ormai buio quando all’improvviso l’uscio si aprì e la sagoma del seggiolaio si stagliò in controluce mentre salutava teneramente la signora che lo aveva accompagnato. Il mistero era svelato: il padrone aveva un’amante.

Dalla loro posizione i gaburi avevano osservato tutto, avevano sentito il rumore sordo della gragnola di colpi abbattutasi sul seggiolaio.

Con agili passi raggiunse la bicicletta, ma non fece in tempo a salirvi che dall’oscurità spuntarono altre tre figure. Senza pronunciare una parola e con fare deciso, cominciarono a malmenare l’uomo a calci e pugni, scrupolose nel non risparmiare nessuna parte del corpo. Infierirono anche quando, sbilanciato, il poveretto finì a terra. Poi, come erano comparse, svanirono nel nulla. Dalla loro posizione i gaburi avevano osservato tutto, avevano sentito il rumore sordo della gragnola di colpi abbattutasi sul seggiolaio. Erano stati testimoni di un episodio al quale mai avrebbero voluto assistere. Spaventati, fuggirono, ritirandosi nel fienile dove erano soliti passare la notte.

Dopo qualche ora udirono il padrone arrivare. Fingendo di dormire, sbirciarono da sotto le coperte, con il cuore che batteva a mille. Videro i suoi gesti impacciati, accompagnati da profondi sospiri. Alla fine, nonostante tutto, si coricò per addormentarsi. Ingenui e ignari – avevano dieci e undici anni -, ai due apprendisti non era chiaro il motivo del pestaggio.

Il mattino successivo furono svegliati all’alba dal seggiolaio, che ammaccato e tumefatto, con un occhio nero come un drolca (paiolo), disse loro di far fagotto: era ora di allontanarsi dal paese. Solo molto tempo dopo i ragazzi compresero la ragione di ciò che avevano visto. E ancora ricordano con allegria le parole pronunciate quella mattina dal padrone: «Stopre, sgorlonghela, iqua la gira gori». «Svelti, andiamo via, qui non tira aria buona».

Il racconto è tratto dal libro Imbaginà. Storie di seggiolai agordini, di Enrico Stalliviere, Bellunesi nel mondo Edizioni 2021.
Il libro è disponibile per l’acquisto presso la sede Abm (in via Cavour, 3 a Belluno).

Seggiolai di Gosaldo in Francia, 1928. Per gentile concessione di Amabile Selle

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