Terra straniera… Quanta malinconia!

Sciacca, la mia città d’origine, si affaccia sul Mediterraneo come ultimo lembo d’Italia. Proprio lì, in quella terra piena di sole, sono nato il 1° aprile 1949. La mia famiglia era composta da otto maschi e una sola femmina. Cinque fratelli sono purtroppo mancati in tenera età, a causa di malattie per la cui cura all’epoca non esistevano ancora medicine. Mia madre era casalinga. Mio papà faceva il pescatore: lavorava per la Marineria di Sciacca. Lì si poteva pescare il famoso “pesce azzurro”, ovvero sardine e acciughe.

In giovane età lavoravo presso una fornace e seguivo a volte mio padre nelle uscite di pesca. Amavo la mia terra, fatta di gente umile e laboriosa. Mio padre, dotato di una voce dalla bellezza non comune, cantava volentieri, pur nella fatica del lavoro. Mi sembrava che nel suo canto rivolgesse preghiere al Signore, ringraziandolo di averlo fatto nascere in quell’ambiente ubertoso, ricco di fascino, abitato da gente umile e modesta.

Ero affascinato dal canto già da bambino e sin da allora venivo reclutato in occasione di sposalizi e feste. Un mio amico che lavorava in Germania mi fece sapere come in quel Paese ci fossero delle serie possibilità di lavoro, così come di tenere intrattenimenti musicali, dato che lì la canzone italiana era molto apprezzata. Era l’8 agosto del 1966 quando lasciai quella mia terra, che amavo tanto, ma che avrebbe potuto offrirmi solamente il mestiere di pescatore. Distaccarsi dai luoghi che ti hanno visto nascere diventa sempre un piccolo e intimo dramma. La valigia era pronta.

«Ma dove stai andando, Giovanni?» mi chiedevo. Arrivato al confine mi accorsi che piangevo.

Le onde di un mare increspato da un vento leggero sembravano portare un dolce canto sussurrato, che mi scendeva fin nel profondo dell’anima. Il profumo di zagara pareva farsi più intenso e le lacrime dei miei genitori erano come dolorose stilettate che ferivano il mio cuore. Il viaggio in treno fu lunghissimo. Guardavo continuamente dal finestrino. Scomparivano alla mia vista paesi su paesi e nella mia mente serpeggiavano mille pensieri: «Ma dove stai andando, Giovanni?» mi chiedevo. Arrivato al confine mi accorsi che piangevo.

Giunto a destinazione provai un senso di smarrimento, ma il mio amico mi trovò subito un posto di lavoro in una fabbrica metallurgica. Ben presto cominciai a conoscere circoli frequentati da italiani, accomunati dallo stesso destino. Sempre più spesso venivo chiamato a cantare canzoni nostalgiche che ricordavano la nostra Italia lontana. In principio cantavo in piccoli ritrovi, poi la mia fama si espanse e potei esibirmi nelle grandi piazze. La mia notorietà di emigrante si allargò e mi feci conoscere nelle città di Aschaffenburg, Francoforte, Würzburg. Ricevevo qualche compenso da aggiungere al mio stipendio e mi sentivo felice, perché potevo mandare qualche marco a sostegno della mia famiglia.

Nel 1969 venni invitato a Castrocaro, dove fra un migliaio di partecipanti, tra i quali figuravano i nomi di Michele e Rita Pavone, riuscii ad entrare nei dodici finalisti. Avevo già un’esperienza alle spalle, poiché nel 1964, alla festa degli sconosciuti a Reggio Calabria, condotta da Teddy Reno, riuscii a classificarmi al quarto posto. Quella manifestazione fu vinta da Dino, che sarebbe diventato poi un cantante di fama internazionale.

Il mio sole incominciò a risplendere quando incontrai sulla mia strada Maria Teresa Mosena, anch’essa emigrata.

In Germania la mia vita si divideva fra lavoro e canto. A volte provavo quella solitudine tipica di ogni emigrante quando si trova lontano. Ma il mio sole incominciò a risplendere quando incontrai sulla mia strada Maria Teresa Mosena, anch’essa emigrata. Lei era di Zoldo e ricordava i suoi monti che facevano da cornice alla borgata di Casal. Io ricordavo il mare che pareva accarezzare Sciacca. Una nostalgia in comune, lenita dal nostro amore. Ci sposammo a Forno di Zoldo nel 1972 e io continuai nel mio lavoro in fabbrica, lei in una sartoria, fino al momento del pensionamento. Il nostro amore fu completo con la nascita di due figlie.

Ma ciò che si ha nel cuore non si può abbandonare. Così continuai a cantare sempre per accontentare il pubblico, formato in gran parte da emigranti. Qualche anno fa venni chiamato persino a Miami Beach, a intrattenere gli invitati al matrimonio di un mio compaesano emigrato tanti anni prima negli Stati Uniti. Ora vivo tra Sciacca e Zoldo. Talvolta penso a quei giorni lontani della mia emigrazione, in special modo quando mi classificai secondo a un Festival in Germania nel 1976, per poi vincerlo l’anno seguente.

Ricordo sempre le fatiche di mio padre, che lavorava giorno e notte, l’amore di mia madre per la famiglia, gli amici emigranti incontrati nella mia vita. Non ho fatto del canto una professione. Tuttavia, mi sento onorato di aver allietato le serate dei miei connazionali in terra straniera, facendo conoscere quell’Italia che, attraverso le musica, viene sempre apprezzata e stimata. “Terra straniera… Quanta malinconia!”*. Mi torna ora alla mente questa canzone e mi accorgo che una lacrima scende dai miei occhi.

Giovanni Soldano

*”Terra straniera”, canzone di Claudio Villa.

Il girovagare del perito minerario

Frequentai le scuole elementari a Voltago e dall’autunno del 1949 fino all’aprile del 1952 feci il caregheta, due anni a Busto Arsizio e uno a Brescia. A Busto Arsizio ebbi modo di assistere al primo concerto di quello che sarebbe diventato uno dei più grandi violinisti italiani: Uto Ughi. All’epoca aveva otto anni.

Nel giugno 1952, da privatista, feci l’esame di terza avviamento, a settembre sostenni l’esame di riparazione e fui promosso. Subito dopo sostenni anche l’esame integrativo e potei esser ammesso a frequentare la prima classe dell’Istituto Minerario*.

Quando il responsabile vide che provenivo dall’Istituto “Follador” di Agordo mi disse che potevo considerarmi assunto.

Il 10 luglio 1957 mi diplomai e cinque giorni più tardi incominciai a lavorare come capo fabbrica in una fornace per materiali refrattari a Schio, dove rimasi fino alla fine del 1960. Dopo il servizio militare nel 7° Alpini, avendo sempre avuto la passione di conoscere il mondo fuori dall’Italia, decisi di tentare con l’Agip. Mi recai alla sede di San Donato Milanese e mi presentai all’ufficio personale dicendo che ero stato da loro convocato – non era vero – per un’eventuale assunzione. Mostrai copia del diploma e quando il responsabile vide che provenivo dall’Istituto “Follador” di Agordo mi disse che i periti agordini erano richiesti dall’azienda e per quanto lo riguardava potevo considerarmi assunto.

Nel pomeriggio avevo già fatto la visita medica e il 1° febbraio 1961 ero a Gela, con la qualifica di geologo di cantiere. Fui aggregato a un impianto di perforazione che operava in provincia di Enna. Passò un anno e partii per la Libia, con un contratto biennale che prevedeva tre mesi di lavoro nel deserto alternati a venti giorni di riposo in Italia. Alla conclusione, altro contratto biennale in Nigeria: dieci mesi di lavoro e venti giorni in Italia. Nel giugno 1965 dovetti interrompere per motivi di salute: avevo la malaria.

Trascorsi qualche mese in Italia, poi tornai in Libia, ricoprendo vari incarichi, fino al’11 settembre 1971. Quel giorno mi fu comunicato che il governo libico aveva decretato nei miei confronti un ordine di espulsione. Mi concedevano quarantotto ore di tempo per andarmene.

Giovanni Rivis (a destra) assieme a due colleghi (il primo a sinistra di Taibon, quello al centro un milanese) nel deserto libico, 1962
Giovanni Rivis (a destra) assieme a due colleghi (il primo a sinistra di Taibon, quello al centro un milanese) nel deserto libico, 1962

Ripartii il giorno successivo. Rimasi in Italia per circa due anni, operando in diverse piattaforme nel Mediterraneo. Dopodiché ricominciai a fare la valigia: Indonesia, Congo, Gabon, Ghana, Somalia, Spagna, Costa D’Avorio, sempre come responsabile di perforazione. Mentre ero in Costa d’Avorio, l’Agip mi disse che ero stato richiesto dalla Texaco-Shell per andare a perforare un pozzo al largo dell’isola di Terranova, in 1600 metri di acqua. Era il 1979 e all’epoca nessuno aveva mai perforato pozzi in simili profondità, era un record mondiale. Accettai l’offerta, contento che un agordino fosse stato richiesto dagli americani per aiutarli in una cosa nella quale loro si erano sempre ritenuti dei maestri.

Il pozzo iniziò a fine aprile e terminò a fine settembre. Gli ultimi dodici anni di permanenza all’Agip li passai ancora in giro per il mondo: Grecia, Yemen, Tanzania, Egitto, Cina, Algeria, Libia, fino a quando mi ritirai nel 1994. Da lì in poi continuai come consulente, sempre in paesi stranieri, fino al 2012.

Giovanni Rivis

*La Scuola Mineraria di Agordo, fondata nel 1867 e divenuta poi Istituto Tecnico Minerario “Umberto Follador”.

Provincia di Enna, 1961. L’impianto di perforazione dell’Agip in cui lavorava Giovanni Rivis.

Il caregheta vagabondo

A lavorare iniziai a tredici anni, facevo il contadino, ma siccome mio padre si teneva tutti i soldi, dopo due anni dissi basta. Venne a casa mia una persona di Gosaldo e mi chiese se volessi andare con lui a fare il caregheta. Gli risposi subito di sì. Mio padre firmò il contratto e andai via per cinque mesi.

Il caregheta mi pagò il doppio rispetto a quanto pattuito, perché ero stato bravo. Rimasi un po’ a casa e poi ottenni il contratto per andare in Francia, a fare ancora il caregheta, questa volta con mio fratello, vent’anni più vecchio di me. Dopo due anni di lavoro gli chiesi un aumento della paga, ma lui replicò che mi dava il salario degli stranieri: «Non se ne parla di aumenti», fu la sua risposta.  

Mio fratello venne a sapere che ero lì e mi mandò i gendarmi, così dovetti far ritorno a casa.  

Allora rientrai in Italia, raccolsi i miei attrezzi e tornai in Francia a fare il caregheta per conto mio. Lavorai tre anni nel Département de l’Aveyron. Dopo un po’, però, mio fratello venne a sapere che ero lì e mi mandò i gendarmi, così dovetti far ritorno a casa.  

Rimasi un’estate, poi in autunno mio cugino mi chiese di accompagnarlo in Toscana, a Castellina in Chianti.  
Il vino era buonissimo e mandavo le lettere a mia moglie timbrandole con il bicchiere.  
Restammo per quatto o cinque mesi. In una famiglia costruimmo dodici sedie. Quando videro quelle che avevo fatto io rimasero colpiti. C’erano due fratelli, presero una sedia ciascuno e girarono tutto il paese per farle vedere, da quanto erano belle. E così tutti iniziarono a volerle. 

Poi mi venne offerto un lavoro in galleria a Belluno e così per due anni andai a fare il minatore. 
Successivamente mi trasferii in Svizzera, nel Canton Vallese, sempre in galleria. Ma questa era piena d’acqua e gli stivali che mi diedero erano tutti bucati. Cambiai lavoro. 

Qualche sedia l’ho fatta ancora, soprattutto da mandare in Svizzera.

Andai a Neuchâtel a cercare impiego come muratore, visto che di sera avevo frequentato la scuola per muratori.  
Trovai occupazione e rimasi due o tre anni. Stavo bene. Al termine del contratto, rientrai in Italia per un po’ di tempo, per poi tornare nel Vallese, sempre a fare il muratore, per altri tre anni.

Lavorai anche a Milano e a Lodi, per cinque anni, e al Brennero a costruire l’autostrada. Lassù mi trovai benissimo, anche se sgobbavo dodici ore di notte.  

Poi la salute mi impose di tornare a casa e fare domanda di pensione. Ma qualche sedia l’ho fatta ancora, soprattutto da mandare in Svizzera. E quelle che ho fatto per me, dopo sessant’anni sono ancora perfette.

Giovanni Stramare

Giovanni Stramare
Giovanni in posa con una sedia da lui realizzata

Il riposo forzato di un giramondo

Si può dire che la mia vita da emigrante sia cominciata quando ancora facevo la terza elementare. All’epoca, infatti, per ragioni belliche la mia famiglia dovette lasciare Ferrara, dove sono nato, e spostarsi in una frazione di Mel, da dove era originaria mia mamma.

Mia mamma, per sua buona sorte, aveva ereditato dai genitori una piccola e modestissima casetta, e così ci trovammo a vivere nel Bellunese. Completate le elementari e le medie, per un paio di anni feci l’aiutante garzone nella fucina da fabbro che mio padre aveva immediatamente allestito appena arrivato da Ferrara. Nel 1953, senza aver ancora compiuto diciott’anni, ebbi l’occasione di andare a lavorare in Belgio, tra Namur e Charleroi, in una grande miniera di carbone.

Mi trasferii in Francia, nell’Isère, in una miniera di ferro, dove lavorai fino alla fine del 1957.

A settecentocinquanta metri di profondità, ricordo che si lavorava indossando un leggero giubbotto nero, per via dell’alta temperatura. Rimasi per circa due anni e poi, assieme a un mio amico e compagno di lavoro, un ragazzone polacco, mi trasferii in Francia, nell’Isère, in una miniera di ferro, dove lavorai fino alla fine del 1957.

Attratto da maggiori guadagni, lasciai la Francia per la Svizzera, e fino alla fine del 1959 feci il minatore nel Canton Grigioni, per poi essere promosso assistente. Nel 1959 mi sposai, mi portai appresso mia moglie e nacque Thusis, la nostra prima figlia. Terminati i lavori del complesso idroelettrico dei Grigioni, nel 1960 fui trasferito con tutta la mia squadra nel Canton Vallese, precisamente nella Valle del Saas, dove restai fino alla tragedia di Mattmark*.

Canton Vallese, inizi degli anni ’60. Claudio Pocaterra è il primo da destra, in piedi

All’epoca della tragedia, il nostro cantiere era terminato. Lasciai quindi l’Europa e fui assunto da una compagnia americana, la “Kaiser Corp”, con sede a San Francisco, in California. Con la Kaiser andai nella Guyana Venezuelana, per un enorme progetto idroelettrico, quello del Guri, ancora oggi il terzo impianto al mondo per capacità di produzione elettrica. Il mio contratto terminò nel giugno del 1968.

Dopo un paio di settimane che ero a casa, inaspettatamente mi convocò l’Impresit, con la proposta di recarmi in Colombia. Anche in questo caso si trattava di un progetto idroelettrico, tutto nel sottosuolo. In Colombia mi confermarono la promozione a capocantiere. Completata l’opera, nel gennaio del 1970 partii per l’Iran con un nuovo incarico, sempre alle dipendenze dell’Impresit-Condotte acqua.

Nel 1973 mi mandarono per un breve periodo a Gedda, sul Mar Rosso, in Arabia Saudita, dove era in costruzione un grosso centro di telecomunicazioni. Nel novembre dello stesso anno, eccomi anche in Indonesia, sull’isola Sulawesi, per conto della So.im.i., incaricata dalla Dravo Corp. Americana di reclutare personale. Vicino all’arcipelago delle Molucche erano in costruzione tre altiforni per la fusione primaria di minerali, una centrale termoelettrica e un complesso idroelettrico per la produzione di energia.

Isola Sulawesi. Al centro Claudio Pocaterra. A sinistra un lavoratore italiano e a destra un indigeno malese.

Il progetto fu completato dopo quattro anni e mezzo, e al mio rientro in Italia trovai già una nuova opportunità di partenza, ancora per l’Iran, dove la Condotte d’Acqua di Roma stava costruendo il colossale porto di Bandar Abbas. Ero nel cantiere da pochi mesi quando scoppiò la rivoluzione che portò alla fuga dello scià e all’instaurazione del nuovo regime di Khomeini. Per ragioni di sicurezza, il cantiere fu fermato e tutti noi italiani rimpatriati.

Appena rientrato a casa, mi ingaggiò di nuovo la So.im.i., e tornai quindi nella Guayana Venezuelana, a Puerto Ordaz, per la costruzione di due impianti sidero-metallurgici; quindi in Libia, a Tobruk, per la costruzione di una rete fognaria all’interno della città stessa, e infine in Iraq, sempre come capo cantiere, per la costruzione di una grande area industriale.

Me ne stetti a casa in convalescenza giusto un paio di mesi, perché a sorpresa vennero a trovarmi due ingegneri di vecchia conoscenza.

Proprio al termine di questo cantiere, un tumore laringeo mi costrinse a rientrare a Belluno, per sottopormi a un’operazione alla gola. Me ne stetti a casa in convalescenza giusto un paio di mesi, perché a sorpresa vennero a trovarmi due ingegneri di vecchia conoscenza. Volevano propormi, se me la sentivo, di andare nell’Oman a dare avvio a un cantiere per una lunga diga di contenimento. Mi stavo rimettendo in forma e volentieri accettai l’incarico. Anche qui portai a termine il lavoro, sempre come capo cantiere, con una miriade di maestranze: pakistane, indiane e cingalesi. Lo staff dirigenziale, però, era tutto italiano, per la maggior parte bellunese.

Agli inizi del 1987 mi fu proposto un nuovo lavoro in Kenya, sul lago Turkana, un bel progetto per la FASO. Purtroppo, però, le mie condizioni fisiche cominciavano a deteriorarsi e all’età di cinquantadue anni mi vidi costretto, mio malgrado, ad entrare nel novero dei pensionati invalidi. Confesso con sincerità che, abituato com’ero ad attività impegnative nei cantieri, anche se da emigrante, per i primi tempi fu molto difficile affrontare la triste realtà di vedermi inattivo e pensionato.

Claudio Pocaterra

* Tragedia avvenuta il 30 agosto del 1965, quando una parte del ghiacciaio dell’Allalin si staccò e andò a travolgere le sottostanti baracche dei lavoratori. Le vittime furono ottantotto, di cui cinquantasei di nazionalità italiana.

Una bambina, una piccola sedia, una storia

Era la prima metà del’900 e nel piccolo paese di Vénérieu, vicino a Saint-Marcel-Bel-Accueil (oggi gemellato con Gosaldo), nel dipartimento dell’Isère, in Francia, in una fattoria viveva Ginette Jas con la sua famiglia. Ginette allora era una bambina e un giorno alla fattoria arrivarono tre persone che venivano da lontano. Venivano dall’Italia e stavano cercando lavoro.

Con loro avevano degli attrezzi strani, che Ginette non aveva mai visto, perché queste tre persone facevano un lavoro particolare: costruivano sedie. I tre seggiolai partiti da Gosaldo, nella fattoria della famiglia Jas di lavoro ne trovarono parecchio. Per lavorare usavano il legno di quercia, pero, ciliegio e castagno che la famiglia possedeva.

Furono molte le sedie costruite nella fattoria dai tre giovani careghete. Ne fecero per la camera dei suoi genitori, per la cucina, e alcune più eleganti, con una bella spalliera, per la sala da pranzo. Quando il tempo era bello lavoravano nel cortile e lì la piccola Ginette poteva ascoltare un’altra lingua, che mai aveva sentito, ma che l’affascinava e che quindi ascoltava volentieri. La lingua che Ginette sentiva di sicuro non sarà stato l’italiano vero, ma l’idioma di Gosaldo e lo skapelamént del Kónža*.

Quando il lavoro nella fattoria della famiglia Jas fu terminato, i tre seggiolai per riconoscenza costruirono tre piccole sedie, che poi furono regalate alle bimbe di casa. Benché siano passati molti anni da allora, quelle seggioline non solo non sono andate distrutte, ma vengono tuttora utilizzate. Una viene usata dal nipotino della signora Ginette e un’altra è tornata a “casa.” Sì, perché in una delle visite fatte a Saint-Marcel, l’allora sindaco Giocondo Dalle Feste ha ricevuto in dono una di quelle piccole sedie, con questa motivazione: «Per riconoscimento di questo lavoro le offro una sedia per il Museo Etnografico di Gosaldo».

Un gesto nobile che dimostra una grande sensibilità nei confronti di coloro che con ingegno avevano saputo inventarsi un mestiere, un’arte che tuttora viene tramandata anche tra i discendenti ormai divenuti francesi. La signora Ginette ha cercato tra le pagine dei suoi ricordi i nomi dei tre careghete di Gosaldo, ma con il passar del tempo qualcosa si è perso. Ora la sedia costruita con il legno della Francia e il savoir-faire italiano fa bella mostra di sé nel piccolo, ma interessante, Museo Etnografico di Gosaldo.

Lina Marcon

Careghte agordini in Valle Padana

* È il gergo dei seggiolai, da loro stessi inventato per potersi esprimere “in segreto”, senza essere compresi dai profani. Lo skapelamént del Kónža nasce dal dialetto, accanto al quale è introdotta una ricca serie di deformazioni lessicali, di metafore e altre figure retoriche. Per fare un esempio, la frase: «Konže era i ronki, Konže era i limbe: coìsi par danùgi perni, fin òdopo l’ultima baru danùge del torónt.» significa: «Seggiolai erano i padri, seggiolai erano i figli: così per molti e molti anni, fin dopo l’ultima guerra mondiale».
(Informazioni tratte dal libro: Skapelamént del Kónža. Gergo dei seggiolai, Gosaldo-Tiser: dizionarietto, a cura di Giocondo Dalle Feste; Gosaldo: Union ladin da Gosàlt, 2003).