Vado via per sette mesi

Mi chiamo Luigi Antole, sono nato il 25 aprile 1925 a Farra d’Alpago. La mia avventura iniziò una sera del lontano 1949, quando arrivò a casa mia una signora da Puos chiedendomi se volessi andare in Svizzera a fare il contadino al posto di suo genero. Dopo averci riflettuto un po’, accettai. I primi di aprile mi arrivò il contratto di lavoro, mia madre mi preparò quel poco da vestire che avevo. Ero d’accordo con i miei genitori di andare via, qui non c’era lavoro.

Il 18 aprile del ’49 mio padre mi accompagnò alla stazione dell’Alpago con la mia valigia di cartone sopra la bicicletta. Giunsi a Venezia, poi a Milano, passai la Svizzera fino ad arrivare a Domodossola. Dopo la visita salii su un treno diretto a Lucerna. Una volta lì presi un altro treno e andai a Rotkreuz per poi salire su un altro treno ancora. Circa a metà strada c’era la piccola stazione di Meierskappel, là scesi, ma era già tarda sera. Dalla stazione arrivai al paese che era quasi buio. Per la strada non passava nessuno, non sapevo cosa fare.

Avevo la pancia vuota, avevo mangiato solo tre panini in due giorni.

Mentre camminavo potevo percepire una musica distante, così decisi di dirigermi verso il luogo da cui proveniva. Giunsi davanti a un ristorante, entrai, c’erano quattro persone che giocavano a carte (lo ricordo bene) e, per mia fortuna, uno di loro parlava italiano. Mi invitarono a sedermi e tirai fuori il mio contratto di lavoro sul quale era riportato il numero di telefono della famiglia di contadini dalla quale sarei dovuto andare a lavorare. Quegli uomini chiamarono il contadino avvisandolo che ero proprio lì in quel ristorante. Mi offrirono anche un bicchiere di birra, avevo la pancia vuota, avevo mangiato solo tre panini in due giorni. Dopo circa tre quarti d’ora arrivò il padrone con una donna, anche lei originaria di Puos. Salutai tutti e andai.

La mattina dopo, finita la colazione, andai nei campi a lavorare. Il mio compito era prolungare dei tubi per concimare il prato. Avevo previsto di rimanere lì per circa sette mesi. Sapevo che la vita da contadino era dura, ma avevo pensato: «Non mi ammazzeranno mica in sette mesi!». Invece continuai a lavorare in quel luogo per cinque anni. Alla fine del 1954, decisi di andare a passare il Natale da mia sorella, che aveva trovato lavoro in una filatura di cotone nel Canton Zurigo, a Wetzikon. Poi tornai in Italia. Nel frattempo, mia sorella aveva chiesto alla sua ditta se potessero essere utili un paio di braccia in più, così il 12 di marzo partii per la filatura.

Il giorno dopo mi presentai al capo e iniziai subito a lavorare. La mia mansione era quella di sfilacciare in una prima fase il cotone nel reparto delle carde. Continuai a lavorare in quella ditta per undici anni. In quel periodo abitavo in una vecchia casa, il mio vicino era un contadino che aveva una grande campagna e vari animali da stalla. Lo vedevo solitamente nel cambio turno, sempre ad arare, smussare, piantare… era solo, ma ben attrezzato. Una sera, tornando a casa, cominciò a piovere a dirotto e suo padre, che era molto anziano, stava cercando invano di coprire con un telo il carro di fieno, così andai ad aiutarlo. La mattina seguente il figlio mi ringraziò per quanto avevo fatto. Iniziammo così a stringere un rapporto sempre più stretto.

Quest’uomo aveva una sorella che lavorava in una tipografia in qualità di segretaria del direttore. In quel periodo stavo cercando un lavoro che mi potesse far guadagnare qualche soldo in più, dato che nel 1964 mia moglie Evelina (ci eravamo sposati nel ’57 e nel ’58 era nato il nostro primo figlio, Claudio) aveva avuto il secondo figlio, Stefano. La ragazza riuscì a farmi avere un incontro con il direttore per vedere se avevo le carte in regola per essere assunto. Alcuni giorni dopo il colloquio, la segretaria si presentò a casa mia per mostrarmi la paga mensile che mi sarebbe stata corrisposta se avessi accettato: la differenza con il lavoro precedente era di novanta franchi al mese, così accettai. Salutai tutti i miei ex-colleghi e, passati tre mesi, iniziai a lavorare alla tipografia, era il 9 agosto del ’65.

Mi mancavano pochi mesi per raggiungere i venticinque anni di lavoro in quella ditta. Una volta arrivato al traguardo, avrei avuto diritto a un ventino d’oro.

Mi diedi sempre da fare, occupandomi un po’ di tutto. I nuovi colleghi mi volevano bene, c’era grande rispetto reciproco. Inizialmente aggiustavo macchinari, poi, man mano, cominciai a imparare le diverse tecniche e guadagnai posizioni fino a ottenere l’incarico di sviluppare dalla pellicola delle fotografie sull’alluminio. Ricordo che il secondo anno sostituii per tre settimane il portinaio, un incarico di grande fiducia nei miei confronti da parte del direttore. Mi svegliavo alle tre del mattino per accendere i macchinari, alle cinque azionavo altri motori, poi distribuivo la posta ai vari uffici, alle sei e trenta andavo a casa a fare colazione e alle sette ero al lavoro per iniziare la mia giornata. Alla sera tornavo per chiudere le porte. Mi mancavano pochi mesi per raggiungere i venticinque anni di lavoro in quella ditta. Una volta arrivato al traguardo, avrei avuto diritto a un ventino d’oro (venti franchi svizzeri d’oro) e a una doppia paga mensile. Ormai, però, io e mia moglie avevamo già deciso di tornare in Italia.

L’ultimo giorno in tipografia, il 30 aprile, salutai calorosamente tutti i colleghi. Avevo portato da mangiare e da bere. Ero un po’ dispiaciuto di abbandonare quel lavoro. Parlai un’ultima volta con il direttore, che mi fece tanti auguri, mi strinse la mano e mi porse una lettera, dicendomi: «Questa mettila in tasca e non farla vedere a nessuno». Una volta arrivato a casa, la aprii e… cosa c’era dentro? Il ventino d’oro e il mensile. Mi erano stati dati per la mia grande generosità in tutti quegli anni. Quando c’era qualcosa da fare, io ero sempre disponibile.

Il 30 aprile feci venire un camion da Vittorio Veneto, caricai tutto il mobilio per portarlo in Italia. Ora sono trent’anni che sono qui, in pensione. Ero partito da ragazzo per fare sette mesi in Svizzera, invece ci sono rimasto quarantun anni. Ah, racconto un’ultima cosa che fa sorridere: quando nel ’90 lasciai la tipografia per venire in Italia, su proposta del direttore mi abbonai a un quotidiano e da trent’anni a questa parte, tutti i giorni, continua ad arrivarmi senza che io debba pagare un solo centesimo!

Si ringraziano Bruno De March e Angelo Caneve per aver raccolto la storia.

Luigi Antole

Oltre il mare e sotto le stelle – seconda parte

La prima parte della storia è disponibile QUI.

Angelo Manfroi (1811), già vedovo della moglie Maria Maddalena Soppelsa (1814), aveva una famiglia numerosa e probabilmente i figli già discutevano sulla possibilità di emigrare per cercare nuove terre fuori dall’Italia. Si trattava di abbandonare le montagne della Valle del Biois, dove i loro avi avevano vissuto per secoli. Nel 1882 Angelo, ormai settantenne, il figlio Giuseppe (1853), la nuora Domenica Tremea (1854), i nipoti Maddalena, di quattro anni (la mia bisnonna), Francesco, di tre, e Faustino, di uno, lasciarono la casa e il paese. Del gruppo facevano parte anche i figli Faustino, di trentadue anni, e Giulio, di ventiquattro. Gli altri cinque figli decisero di restare in Italia.

Dall’arrivo di questo ramo della mia famiglia in queste terre lontane la storia inizia ad assumere tratti drammatici

La famiglia partì dal porto di Genova il 22 dicembre 1881 a bordo del vapore “Colombo” e, dopo ventitré giorni di viaggio, con una breve sosta sull’isola di São Vicente a Capo Verde, il 12 gennaio 1882 giunse a Rio de Janeiro. Dopo un veloce soggiorno all’Hospedaria dos Imigrantes per controllarne lo stato di salute, il gruppo ripartì con le poche cose che aveva su navi costiere, diretto nel Rio Grande do Sul. Da qui avrebbe raggiunto la nuova casa in “Colônia Dona Isabel”, oggi Bento Gonçalves. Dall’arrivo di questo ramo della mia famiglia in queste terre lontane la storia inizia ad assumere tratti drammatici, rimasti nel tempo un segno indelebile nelle nostre anime.

Poco dopo essersi stabilito presso la “Colonia”, morì inaspettatamente Giuseppe. Nonostante il supporto del suocero e dei cognati, che l’aiutarono a crescere i tre figli, per Domenica, rimasta vedova, non fu facile affrontare la sfida. Nel 1884 sposò il fratello del suo defunto marito, Faustino, che oltre ad essere lo zio divenne il patrigno dei suoi nipoti. Il destino volle che questa storia acquistasse ulteriore drammaticità con la morte improvvisa di Domenica, avvenuta nei primi mesi del 1891 a seguito di complicazioni nel parto di Angelo, anche lui morto alla nascita. Era il secondo figlio concepito con il nuovo marito.

A queste disgrazie se ne aggiunse un’atra: nel luglio dello stesso anno morì anche la figlia di Faustino, Domenica Josephina, di tre anni. Faustino, rimasto vedovo, sposò nel 1895 Fiorenza Baiocco, anche lei immigrata, giunta in quella zona nel 1880. Da lei ebbe otto figli. Maddalena Manfroi e i suoi due fratelli rimasero soli. A diciannove anni Maddalena sposò il trevigiano (originario di Cordignano) Bartolomeo Caus, emigrato nel 1887. Loro due sono i miei bisnonni paterni.

A volte i racconti sull’emigrazione si riducono a storie di eroismo di un popolo che ha osato esplorare terre lontane con l’esaltazione della forza e del coraggio. Tuttavia, quando cerchiamo di conoscere queste persone individualmente, dobbiamo dare a ciascuna l’aura umana che si merita. Così noi italo-brasiliani immaginiamo i nostri immigrati con gli occhi pieni di lacrime per ciò che hanno lasciato, ma colmi di sogni e di voglia di costruirsi una nuova vita. Per noi è importante salvare le storie che ci sono state raccontate, è la nostra riconoscenza per dire a tutti gli immigrati che ce l’hanno fatta a realizzare i loro sogni, nonostante i dubbi, le incertezze e le paure. Perché noi siamo qui, oltre il mare e sotto le stelle.

Claucir Savaris Caus

Maddalena Manfroi

Oltre il mare e sotto le stelle

Questa è la storia dei miei trisavoli, che tra il 1875 e il 1892 osarono cambiare il loro destino e scelsero lo stato del Rio Grande do Sul per rifarsi una vita. Erano otto coppie italiane che, seguendo un sogno, vendettero i pochi beni che avevano per racimolare un po’ di denaro e pagarsi il viaggio di andata. Con sé portarono anche qualcosa di molto prezioso: i loro figli, e la grande speranza di poter ricostruire la dignità perduta.
Queste coppie venivano da diversi comuni. Qui racconto le vicende delle due coppie bellunesi. 

Maria Comel (1842) e Giacomo Savaris (1837) erano di Mel. Avevano tre figli: Teresa, di otto anni, Graziosa, di due, e il piccolo Giovanni Battista, di due mesi, che sarebbe diventato il mio bisnonno materno.
Per raggiungere l’America la famiglia Savaris si imbarcò in Francia. Arrivata alla stazione ferroviaria di Milano, prese il treno per Le Havre. Da lì, il 17 ottobre 1876, a bordo del “Vapor San-Martin”, pertì verso la nuova destinazione. 

I loro corpicini furono gettati in mare, trovando nelle profondità dell’Atlantico la loro ultima dimora e lasciando nei sopravvissuti segni profondi.

A bordo del battello non c’erano spazi sufficienti per tutti. Nelle cuccette improvvisate e nei vani di carico dormivano anche cinque persone rannicchiate assieme, con gli uomini separati dalle donne e dai bambini.
Durante il viaggio, che durò poco più di trenta giorni, una tragedia colpì la famiglia. Il proliferare di malattie a bordo fece ammalare le due giovani Teresa e Graziosa, che morirono. I loro corpicini furono gettati in mare, trovando nelle profondità dell’Atlantico la loro ultima dimora e lasciando nei sopravvissuti segni profondi.

Dopo la difficile traversata dell’Atlantico, la famiglia arrivò in Brasile, al porto di Rio de Janeiro. Era il 9 novembre 1876. Dopodiché, si imbarcò su una nave costiera, arrivando al porto di Rio Grande, nello stato di Rio Grande do Sul. Da qui continuò con chiatte a basso pescaggio fino a Porto Alegre e infine, con i carri, verso la colonia di Dona Isabel, attuale comune di Bento Gonçalves.

Il ricordo di questo viaggio, faticoso e tragico, rimase impresso nella mente di Maria fino alla fine dei suoi giorni. Apparecchiò sempre la tavola con due posti vuoti e tutti sapevano che erano riservati a “Le due”, invocazione – questa – che Maria ripeté fino alla fine, come in una preghiera quotidiana. Il suo cuore di madre non aveva mai accettato la perdita delle sue figlie, anche se in Brasile erano nati altri due bambini, Adamo e Benjamin.
(Continua…)

Claucir Savaris Caus

Maria Comel

Sono anch’io un emigrante?

A primavera del 1952, con la fine della quinta classe elementare, si era conclusa quella che amo definire la mia “carriera accademica”. I primi due inverni a seguire, 1952-53 e 1953-54, frequentai un corso teoricopratico per muratori. Solo la parte teorica, tenuta da un geometra nostro paesano. In ogni caso, a dodici anni e mezzo avevo in mano un diploma di muratore.

Proprio nel giorno dell’esame finale incontrai il nostro parroco di allora, don Ernesto Ampezzan, che mi chiese se fossi disposto ad andare a Roma a lavorare nel Seminario Romano Maggiore. Sapevo di cosa si trattava perché alcuni compaesani e amici miei ci erano già stati e mi avevano informato sul tipo di lavoro, nonché sulle condizioni economiche: trecento lire al mese. Così, con la benedizione dei miei, visto che c’era bisogno e sarei stato una bocca in meno da sfamare, feci le valigie per la capitale. Mia madre venne con me fino a Belluno, acquistò il biglietto per il viaggio e aspettammo la partenza. Caso volle che quell’anno il raduno degli Alpini in congedo si tenesse proprio a Roma e così chiedemmo se era possibile viaggiare con la tradotta degli Alpini, il che mi avrebbe evitato di cambiare treno nel bel mezzo della notte. Il permesso mi venne accordato ed ecco che il 18 marzo 1954, alle ore 20:00, ci fu la partenza.

Ebbi anche l’onore di servire il cardinale Angelo Giuseppe Roncalli, più tardi Sua Santità Papa Giovanni XXIII.

Arrivammo a Roma dopo circa dodici, tredici ore, allo scalo merci di San Lorenzo perché la Stazione Termini era nuovissima e un treno carico di ex Alpini avrebbe forse creato qualche… difficoltà.
Dopo varie peripezie, con l’aiuto di due dei miei “compagni di viaggio”, arrivai a destinazione e ci rimasi per più di due anni, fino al luglio del 1956. Il mio lavoro consisteva nel fare le pulizie di tutto il seminario. C’erano allora un centinaio di seminaristi, mentre noi eravamo una squadra di ragazzi più o meno della mia età, tutti della provincia di Belluno, in gran parte agordini e zoldani. Un ulteriore nostro ruolo era quello di camerieri. Ai pasti avevamo l’incarico di servire a tavola i seminaristi e i superiori. Non di rado capitavano ospiti di riguardo, come vescovi o cardinali ex alunni del seminario. Tra questi ebbi anche l’onore di servire il cardinale Angelo Giuseppe Roncalli, più tardi Sua Santità Papa Giovanni XXIII.

Roma, 1955. Isidoro in divisa da cameriere.

Nella primavera del 1957 mi capitò l’occasione di trasferirmi a Bolzano, dove uno zio aveva una piccola impresa di pittura. Iniziai allora da apprendista la mia vera carriera. Rimasi a Bolzano per i tre anni dell’apprendistato e per un quarto da operaio, mentre nell’inverno del 1960-61 un mio paesano che da anni lavorava in Svizzera mi chiese se non avessi interesse a espatriare. Era pittore anche lui e visto che stava per cambiare ditta, dal suo vecchio capo si sarebbe liberato un posto. Fu così che a marzo del 1961 arrivai per la prima volta a Herisau, nel Canton Appenzell, dove mi trattenni per otto stagioni, fino al 1968.

Appenzell, 1967. Isidoro (sulla vespa) con il fratello Claudio (in basso a sinistra)
e due colleghi di lavoro.

A metà degli anni Sessanta a Herisau venne fondata una delle prime Famiglie Bellunesi, grazie al signor Giacomo Ponte di Lamon e ad altri collaboratori. Anch’io fui tra i soci della prima ora ed ebbi in consegna il gagliardetto della Famiglia, che portai in corteo ai raduni in varie località della Svizzera, tra San Gallo, Sciaffusa, Lugano e così via. Nel 1968 la mia famiglia al completo si trasferì a Bolzano, dove già lavoravano mio padre e due sorelle, e così decisi anch’io di rientrare dopo quasi sedici anni.

Nell’anno scolastico 1969-70 frequentai a Bolzano le scuole medie serali. Grazie al diploma di licenza media – e a una discreta conoscenza della lingua tedesca acquisita negli anni in Svizzera – qualche tempo dopo ebbi la possibilità di entrare alle dipendenze dell’amministrazione provinciale di Bolzano in qualità di assistente ai servizi agrari. Vi rimasi per quasi vent’anni, fino al pensionamento. Nel frattempo mi sposai (nel 1974), ebbi due figlie e ora ho anche due nipoti. Fino al suo scioglimento, fui socio della Famiglia Bellunese dell’Alto Adige.

Anche se non ho visto né l’Australia né le Americhe, sessantasette anni li ho passati fuori dalla provincia di Belluno

Dopo il pensionamento, per un po’ ripresi la vecchia carriera dell’imbianchino, ma da un paio d’anni mi dedico solo alla famiglia: moglie, figlie e nipotini. Un po’ mi vergogno ad autodefinirmi emigrante. Ma in fondo, anche se non ho visto né l’Australia né le Americhe, sessantasette anni li ho passati fuori dalla provincia di Belluno, e continuo a farlo. Con ciò penso di potermi dire “migrante” anch’io.

Isidoro Nardi

Donna schiava

Al mattino mi venne detto che mi sarei dovuto recare a Tebidaba per la manutenzione di routine. Assieme a me ci sarebbe stato Christopher, il futuro caporeparto nigeriano, che mi venne affiancato per fare esperienza. Io e Christopher ci conoscevamo da tanto tempo e tra noi c’era stima reciproca. Io lo apprezzavo per la sua umiltà e disponibilità, e lui ricambiava per le stesse ragioni. Inoltre, sapeva che in qualsiasi circostanza poteva contare sulle mie capacità.

Il viaggio da Brass a Tebidaba, quando tutto andava bene, durava circa quattro ore. Partimmo il giorno dopo verso le otto del mattino. Attraversammo un largo braccio del fiume Niger, uno dei tanti del suo delta e, giunti alla sponda opposta, ci inserimmo in uno dei piccoli canali. L’influenza della marea si faceva sentire, la navigazione lungo questi canali non era mai monotona.

Finalmente arrivammo alla flow station di Tebidaba. Ormai era mezzogiorno passato e pensavamo che il cuoco ci avesse preparato il pranzo. Purtroppo, però, come succedeva spesso, era rimasto senza viveri. Conoscendo la situazione, avevamo portato la scorta per alcuni giorni. Sistemate le nostre cose negli alloggi, ci recammo all’impianto per farci un’idea di quanto lavoro ci sarebbe spettato. Ritornando verso la mensa Christopher mi fermò e mi disse: «Vedi quella donna con il contenitore dell’acqua che sta salendo sulla canoa? Mi sembra di conoscerla, assomiglia a una ragazza scomparsa dal mio villaggio due o tre anni fa. Probabile che mi sbagli e che semplicemente sia una che le assomiglia fortemente. Al villaggio i familiari la piangono come se fosse morta».

Nelle poche parole scambiate con Christopher, gli disse che era stata rapita e venduta, e lo pregò di aiutarla a scappare.

Della cosa non parlammo più fino al mattino seguente, quando la donna venne ad attingere acqua al nostro rubinetto. Appena vide Christopher, con discrezione gli fece cenno di avvicinarsi. Gli disse chi era, e aggiunse che aveva paura, perché l’uomo con cui viveva era molto sospettoso. Se l’avesse vista parlare con qualcuno del campo l’avrebbe fatta fuori. In fretta riempì la tanica dell’acqua e ritornò alla sua capanna. Nelle poche parole scambiate con Christopher, gli disse che era stata rapita e venduta, e lo pregò di aiutarla a scappare.

Christopher venne da me e mi chiese consiglio su come farla fuggire. Riflettemmo un po’, poi decidemmo che sarebbe stato opportuno aspettare il giorno seguente. Nel frattempo, mettemmo al corrente della situazione il capitano responsabile dei trasporti, che saputo della situazione ci assicurò che avrebbe mandato quanto prima un Sea Truck per l’emergenza. Ci raccomandammo con il comandante del motoscafo di non fermarsi in nessun posto fino al Brass terminal, là ci sarebbe stato il capitano ad attendere la passeggera.

Il motoscafo partì subito. Il più era fatto, ma rimanemmo in ansia ad aspettare la chiamata del capitano. Finalmente verso le due del pomeriggio ci chiamò, dicendoci che la donna era arrivata sana e salva. Il giorno seguente, a metà pomeriggio arrivò alla capanna il rapitore. Lo vedemmo cercare affannosamente la donna, non trovandola, caricò le sue cose sulla canoa, incendiò la capanna e partì sul delta del Niger. Dissi a Christopher: «Tutto è bene quel che finisce bene».

Giacomo Alpagotti

A sinistra, Giacomo Alpagotti