La coperta rossa
Fu parecchi anni fa, la prima volta che controllai il ripostiglio del pronto soccorso in una miniera di rame dello Zambia. Là, tra bende, disinfettanti e lacci emostatici, spiccava il color rosso scarlatto di una dozzina di coperte ben piegate in un involucro di plastica trasparente. Il mio primo pensiero fu che era logico che le coperte fossero rosse, sarebbero servite a coprire dei feriti e il colore avrebbe mascherato quello del sangue.
Ero giovane e non avevo mai visto un incidente; ne avevo sentito sì parlare, ed ero anche – a parer mio – preparato all’eventualità, ma pensavo che fosse una cosa così lontana da non preoccuparsene. Purtroppo non passò tanto tempo prima che anch’io vivessi l’ansia, il terrore e la disperazione di un’incidente e vedessi la coperta rossa diventare di un rosso cupo, man mano che si inzuppava del sangue di un amico.
Il giorno era uno come tanti altri, anche se lo ricorderò per sempre. Dovevamo controllare una falda freatica a circa settecentocinquanta metri di profondità. Eravamo in tre e percorrevamo un piccolo cunicolo; io ero in testa al gruppo, dietro di me veniva Robert e più attardato Lesilie, che era più anziano di noi. Con Robert eravamo come fratelli; spesso parlavamo di lavoro e di miniera: lui mi diceva che non voleva passare tutta la vita in miniera come aveva fatto suo padre, che a cinquant’anni era già un uomo finito. Mi parlava della tosse incessante del suo genitore, tosse che era il frutto di tanti anni passati tra la polvere e l’umidità.
«Ancora poco tempo – proclamò – e poi di miniera non si parlerà più».
Quella mattina, negli spogliatoi, mentre ci stavamo infilando i calzoni di lana e gli stivali, era moto allegro. Mi disse che aveva avuto un’offerta di lavoro da geologo nelle prospezioni, era felice. «Ancora poco tempo – proclamò – e poi di miniera non si parlerà più».
Uno schianto, la roccia che cadeva, un grido, io che mi giro con il cuore in gola. Lesilie che urla, polvere secca che entra negli occhi e nella gola. Tra le rocce cadute giace l’amico che fino a pochi attimi prima mi parlava, l’elmetto sventrato in fianco, il sangue che cola dalla fronte. La luce della pila non basta, dato che gli occhi sono coperti di polvere impastata di lacrime e di sudore nella frenesia di rimuovere i massi caduti. La corsa fino al telefono più vicino, lo strillo della sirena, la squadra di soccorso e l’amico fraterno sorretto solo dalla fibra dei suoi ventiquattro anni, avvolto nella coperta rossa che già si inumidiva di sangue.
All’infermeria è già arrivato un medico, che dopo un sommario esame mi guarda scuotendo la testa: è la fine. Un’altra giovane vita si era immolata nella miniera, ed era la vita di un amico. Lui non avrebbe avuto la tosse come suo padre, il destino non gliene aveva dato il tempo; non avrebbe sofferto di silicosi, non si sarebbe svegliato di notte senza respiro.
Mi avvicinai al lettino, le mie dita tremanti accarezzarono il corpo ormai senza vita avvolto nella coperta rossa.
Rinaldo Tranquillo