Vita nomade – seconda parte
La prima parte della storia è disponibile QUI.
Assuefarsi a una vita nomade non è cosa di poco conto, ma io devo ammettere di essere stato doppiamente fortunato nella prima esperienza perché trovai comprensione sia da parte del padrone che da parte della gente. Mio padre aveva saputo consegnarmi a mani fidate: quel compaesano era un vero signore nell’animo e mi trattò come un suo figlio. Mi insegnava con grande passione mettendo sempre in risalto i miei piccoli miglioramenti: diceva che il seggiolaio non deve ridursi a bestia da soma ma che deve concedersi anche qualche ora di riposo. Si dimostrò sempre soddisfatto del mio rendimento.
A Umbertide e nei paesi circostanti la gente costumava dare vitto e alloggio ai seggiolai, pertanto durante la mia prima “campagna” ebbi sempre il conforto di dormire a letto. Siccome in tante zone ciò non avveniva, il letto per il seggiolaio era un lusso. Noi, ogni giorno, mangiavamo e dormivamo nella famiglia in cui avevamo lavorato. Su quelle tavole pane, vino e cibi ce n’erano a sufficienza. Aiutavo il padrone nei lavori che non richiedevano particolare abilità: andavo in cerca di lavoro, bagnavo la paglia alla fontana, impagliavo e squadravo il legno con l’accetta. C’erano delle famiglie che ordinavano sedie nuove affidandoci anche il compito di abbattere nel loro podere la pianta adatta per ricavare il legno necessario alla costruzione. Dopo due mesi di tirocinio ero in grado di impagliare discretamente bene cinque, sei sedie al giorno. Si diceva che la sedia, prima di farla, bisogna imparare a impagliarla. Io, la prima sedia, da solo, la costruii all’età di 18 anni: è un lavoro, questo, che esige abilità e accorgimenti particolari.
Nel 1920 a Umbertide una sedia nuova ce la pagavano 3, 4 lire, mentre la sola impagliatura valeva la metà; ma, come ho già riferito, i committenti ci offrivano vitto e alloggio oltre che il legno.
Nelle zone in cui i seggiolai dovevano provvedere da sé a vitto e alloggio, i prezzi del lavoro erano un po’ più elevati. In quei casi, però, dovevano dormire accucciati nel fieno dei fienili, oppure nelle stalle sopra la paglia. In certe situazioni i seggiolai dovettero dormire sotto i ponti e nelle piazze.
Quell’anno tornai a casa il 7 giugno: la mia presenza in famiglia, in quella stagione, si rendeva molto utile essendo il periodo della fienagione il più faticoso dell’anno. Bisognava falciare tutto con la falce e trasportare i fasci di fieno sulla testa; durante le altre stagioni le donne s’arrangiavano da sole a svolgere i lavori campestri, ma durante l’estate dovevano essere coadiuvate dalle braccia vigorose dei loro uomini.
Le “campagne” immediatamente successive alla prima le svolsi con mio padre o con altri familiari. Quando mi resi indipendente, anch’io assunsi dei garzoni: il primo lo trovai ad Avoscan, il secondo e il terzo a Sovramonte. Trovare garzoni a Gosaldo non sempre era possibile dato che tanti seguivano il padre, i fratelli oppure i parenti. Bisognava ricorrere spesso agli altri paesi dell’Agordino e anche altrove. Ci furono seggiolai che ebbero garzoni di Cencenighe, Sospirolo e Santa Giustina.
Dopo che imparai il mestiere, da solo in un giorno riuscivo a costruire quattro sedie, con l’aiuto di un garzone invece ne costruivo sei. A impagliare una sedia impiegavo circa un’ora. Per l’impagliatura usavamo la paglia palustre. Se negli anni Venti il seggiolaio guadagnava poco in proporzione alle ore lavorative che svolgeva, gli anni Trenta, a causa della crisi mondiale a tutti nota, furono ancora peggiori. C’era miseria e la gente disponeva di poco denaro.
Negli anni che seguirono la Seconda guerra mondiale le cose migliorarono anche per i seggiolai: lavoro ce n’era a bizzeffe ed era discretamente retribuito, ma moltissimi lo abbandonarono avendo trovato altre possibilità di impiego in Italia e all’estero. Alcuni scesero nelle miniere del Belgio, altri entrarono nelle fabbriche, altri ancora scelsero i cantieri. Io tenni duro fino al 1960.
Quello del seggiolaio fu un mestiere duro e povero. Il seggiolaio visse diviso dalla famiglia girovagando di paese in paese, lavorando una quindicina di ore al giorno. Non potendo fissarsi una dimora stabile, per ricevere la corrispondenza doveva ricorrere al fermoposta oppure a un recapito in cui si recava abbastanza spesso. La sua famiglia incontrava notevoli difficoltà quando aveva bisogno di comunicargli notizie urgenti. Il suo lavoro si svolgeva tra la gente povera delle campagne e della periferia delle città. Nei grossi centri, oltretutto, sarebbe stato difficile trovare legno. Per molti il lavoro del seggiolaio fu una vera e propria lotta per la sopravvivenza. In mezzo a tante difficoltà, il seggiolaio era felice quando il lavoro abbondava.
Il gergo1, seguendo le raccomandazioni fattemi da mio padre e dal mio primo padrone, in tutti i miei anni di lavoro lo usai pochissimo, in casi del tutto eccezionali. Essi sostenevano che per non destare sospetti negli astanti e per guadagnarsi la stima della gente bisogna comunicare in modo chiaro, a tutti comprensibile. Avevano scarsa istruzione scolastica, ma molto buon senso.
Nella mia carriera una sola volta ricorsi alla vendetta nei confronti di un committente: costui, a lavoro ultimato, si rifiutava di pagarmi il prezzo pattuito. Quando vidi che era inutile discutere per difendere le mie sacrosante ragioni, elusi la sua sorveglianza e, lesto lesto, infilai pezzettini di lardo nell’imbottitura delle sedie. Era uno stratagemma bell’e buono: il gatto sentendo l’odore del lardo avrebbe graffiato i cordoncini di paglia guastando nell’arco di breve tempo il lavoro da me eseguito.
Gelindo Pongan (Gelindo dai Nonet), in collaborazione con il prof. Gian Pietro Zanin
Questa storia ci è stata gentilmente consegnata da Barbara Bressan.
1 Lo Skapelament del konza, una lingua inventata dai seggiolai per potersi esprimere “in segreto”, senza essere compresi dai profani. La base è il dialetto agordino, accanto al quale è introdotta una ricca serie di deformazioni lessicali, di metafore e altre figure retoriche.