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Una famiglia dell’Alpago – seconda parte

di Renée Götz 

Mio nonno, Pietro D’Alpaos, nacque a Tignes nel 1915, il più giovane di cinque fratelli e sorelle. Suo padre era Natale D’Alpaos e la madre era Elena Bortoluzzi. 

Elena era la sorella di Pieretto Bianco, il celebre pittore dell’Alpago. Era nata a Trieste, dove la sua famiglia era emigrata per lavoro. Poi tornò e visse a Tignes. 

Mio nonno Pietro fin da giovane andò con suo padre e suo fratello a Waldshut, nel Sud della Germania, per lavorare nelle cave. Durante la guerra finì (non sappiamo come) prigioniero dei tedeschi in Francia. Al suo ritorno in Italia, dopo la fine delle ostilità, lui e mia nonna si sposarono e andarono in Svizzera, in una città vicino al lago di Costanza, Amriswil, dove c’erano già due sorelle di Pietro con i loro mariti, uno svizzero/italiano e l’altro svizzero. 

Pietro lavorava da un contadino. A quei tempi si poteva svolgere solo il lavoro che era scritto sul permesso di soggiorno, e lui poteva lavorare solo nell’agricoltura. Mia nonna lavorava in una fabbrica di tessuti come sartina (la Sallman, oggi ISA Bodywear). 

Nel 1950 nacque la prima figlia, Giovanna, che a otto mesi prese la polmonite. Dicevano che fosse successo perché la stanza dove abitavano si trovava in cantina ed era molto umida. La portarono in Italia, poiché credevano che i medici svizzeri non l’avrebbero trattata bene in quanto erano una famiglia di poveri italiani. La bimba morì poco dopo a Tignes. 

Mia nonna decise che da allora in poi avrebbe partorito in Italia. Così mio nonno tornò da solo in Svizzera a lavorare e mia nonna rimase in Italia con le altre due figlie arrivate in seguito: Gabriella e Ivonne, mia madre. 

Nel 1956, quando Gabriella aveva quattro anni e Ivonne ne aveva due e mezzo, la famiglia decise di emigrare in Germania. Mia nonna non voleva più andare in Svizzera dopo quello che era successo alla prima figlia. Andarono a vivere a Mauenheim (Immendingen), un piccolo villaggio a circa mezzora dal lago di Costanza. Pietro era già stato lì prima della guerra e sapeva che lì vicino c’era una cava dove poteva trovare lavoro. Li raggiunsero anche un fratello con la famiglia e un cugino.

Il fratello si ammalò di silicosi e, tornato in Italia, morì nel 1959. Poco dopo, anche Pietro si ammalò di silicosi e dovette smettere di lavorare. Mia nonna aveva trovato lavoro in un’altra fabbrica di tessuti, la Schiesser, in una città vicina, Engen. All’inizio andava al lavoro a piedi, sei chilometri all’andata e sei al ritorno, dopo un turno di otto ore a cucire. Poi il nonno le regalò una bicicletta per facilitarle il viaggio. Alcuni anni dopo la Schiesser mandò un pulmino per raccogliere le donne che abitavano nei villaggi nei dintorni di Engen e portarle al lavoro. 

Mio nonno passava molto tempo tra un sanatorio e l’altro. Nel 1962 decise di tornare in Italia, perché aveva la speranza che l’aria buona di montagna gli facesse bene. Purtroppo, però, morì il 26 marzo 1963. Mia nonna restò sola con le bimbe. 

La famiglia voleva costringerla a ritornare in Italia: una vedova sola, lontana, con due figlie – le dicevano – non andava bene. Ma mia nonna non voleva abbandonare l’idea, avuto con suo marito, di costruirsi una vita migliore all’estero, dove c’era più lavoro. Entrambi volevano dare un’educazione migliore alle loro figlie, offrendo loro la possibilità di studiare e imparare una professione.

La nonna lavorava in fabbrica, lavorava anche per i contadini nella stagione del raccolto, e lavorava come sarta per le persone in paese. Spesso i contadini la pagavano con un sacco di patate o altri prodotti, anziché con i soldi. 

Siccome nei dintorni non c’erano scuole superiori e dato che lei lavorava a turni, anche di notte, per garantire alle figlie una miglior educazione dopo la scuola elementare decise di mandarle in collegio a Lindau, un’isola sul Lago di Costanza. 

Mia mamma lavorò sempre in amministrazione aziendale e come mediatrice e mia zia si laureò in Economia e Commercio. 

Nel 1978, a mia zia Gabriella venne proposta una posizione di lavoro come contabile per un’azienda farmaceutica di Milano. Quando dette la notizia del trasferimento a sua mamma, lei si mise a piangere e disse: «Ma no la finiss mai…». Era addolorata dal continuo migrare della famiglia tra Italia e Germania, sempre avanti e indrio

Facendo l’albero genealogico della mia famiglia, ho trovato che dal 1800 in poi altri miei antenati sono andati in America, Argentina, Francia, Belgio, Svizzera, Germania.

Amriswil. Anna Bortoluzzi al lavoro in fabbrica.

Amriswil. Pietro al lavoro come contadino.

NOTA: La prima parte della storia è disponibile QUI.

Una famiglia dell’Alpago

di Renée Götz

Il mio bisnonno Giovanni Bortoluzzi (nato a Tignes nel 1875) andò in Germania prima della Grande Guerra per lavorare alla costruzione della ferrovia a Dieringhausen (vicino a Gummersbach), uno snodo ferroviario importante nella parte Nord-Ovest della Germania, oggi parte del “Nordrhein-Westfalen”, vicino al fiume Reno e alle grandi industrie e miniere di carbone presenti in quella zona. Emigrò con suo fratello Domenico e altri compaesani.

Entrambi i fratelli sposarono donne tedesche. Domenico rimase in Germania con la sua famiglia e purtroppo, con il passare degli anni, abbiamo perso i contatti.

Mia nonna, figlia di Giovanni, nacque in Germania nel 1917. Alla fine del conflitto, Giovanni, sua moglie e la bimba piccola tornarono in Italia. Giovanni lavorò alla costruzione dell’impianto idraulico che consente di produrre elettricità con l’acqua del lago di Santa Croce e gli altri laghi nella zona di Vittorio Veneto, e anche all’impianto di Soverzene.

Mia bisnonna lavorava la terra della famiglia in Alpago, dalla quale ricavava il necessario per il sostentamento. Divideva una mucca con una sorella del marito e nei campi coltivava il mais per la farina da polenta e la canapa per realizzare tessuti per vestiti e lenzuola.

Mia nonna andò a scuola e suo padre le fece ripetere l’ultimo anno (la terza elementare, se non sbaglio) perché imparasse di più, visto che non poteva permettersi di mandarla alle medie (figurasi alle superiori!). Nel pomeriggio e durante le vacanze, lavorava da una zia come sarta e aiutava sua madre nei campi e a prendersi cura della mucca e delle galline. Imparò a cucire ed era bravissima, sapeva fare tutto, anche completi da uomo.

Già da ragazza, a soli undici anni, sapeva che, se fosse rimasta in Alpago, non avrebbe avuto speranza di fare una vita diversa dai suoi antenati. Parlava di questo con suo padre già a quell’età. Così, a tredici anni, decise di andare a servizio da una famiglia benestante a Busto Arsizio. Viaggiò da sola. Raccontava sempre che non aveva mai visto un treno prima del viaggio a Milano e che era molto impressionata dalla grande locomotiva a vapore.

Dormiva in una stanza sotto il tetto della casa, freddissima d’inverno e caldissima d’estate. Doveva lavorare molto duro per i signori di casa, che non erano molto benevoli. Non le piaceva ricordare quei tempi. Mandava a casa i soldi che guadagnava, per aiutare i genitori.

Nel 1935, suo padre morì e sua madre rimase sola con il fratello più giovane, Alfredo (detto Guido). Lui voleva diventare prete e frequentò il seminario. Però, per ragioni a noi ignote, decise di lasciare prima di finire gli studi e andò in Venezuela a trovare la sua fortuna. A quei tempi, tanti italiani andavano in Venezuela, un Paese con un’economia crescente. Anche uno dei cugini di mia nonna e di Guido andò in Venezuela a lavorare per un paio d’anni. Lui scriveva alla mamma in francese. Lei parlava francese, come tanti della sua regione in Germania, vicina alla Francia.

Nel 1936, un terremoto devastò la conca dell’Alpago e anche a Tignes ci furono molti danni. La nonna raccontava che aveva dormito con sua mamma nei campi per parecchi giorni dopo la scossa principale. Era ottobre, faceva freddo, e avevano molta paura che arrivassero altre scosse.

Mia nonna andò poi a Cortina d’Ampezzo durante la Seconda guerra mondiale e lavorò come cameriera ai piani in un albergo.

Una storia che raccontava spesso di quei tempi era quella della squadra tedesca dei mondiali di sci, che alloggiava nell’albergo dove lavorava e che per colazione mangiava pappa d’avena ogni mattina, una cosa che sembrava molto strana agli italiani, ma che la nonna sapeva dar loro la forza necessaria per le competizioni.

Giovanni Bortoluzzi a Dieringhausen con i compagni di lavoro.

Vado via per sette mesi

Mi chiamo Luigi Antole, sono nato il 25 aprile 1925 a Farra d’Alpago. La mia avventura iniziò una sera del lontano 1949, quando arrivò a casa mia una signora da Puos chiedendomi se volessi andare in Svizzera a fare il contadino al posto di suo genero. Dopo averci riflettuto un po’, accettai. I primi di aprile mi arrivò il contratto di lavoro, mia madre mi preparò quel poco da vestire che avevo. Ero d’accordo con i miei genitori di andare via, qui non c’era lavoro.

Il 18 aprile del ’49 mio padre mi accompagnò alla stazione dell’Alpago con la mia valigia di cartone sopra la bicicletta. Giunsi a Venezia, poi a Milano, passai la Svizzera fino ad arrivare a Domodossola. Dopo la visita salii su un treno diretto a Lucerna. Una volta lì presi un altro treno e andai a Rotkreuz per poi salire su un altro treno ancora. Circa a metà strada c’era la piccola stazione di Meierskappel, là scesi, ma era già tarda sera. Dalla stazione arrivai al paese che era quasi buio. Per la strada non passava nessuno, non sapevo cosa fare.

Avevo la pancia vuota, avevo mangiato solo tre panini in due giorni.

Mentre camminavo potevo percepire una musica distante, così decisi di dirigermi verso il luogo da cui proveniva. Giunsi davanti a un ristorante, entrai, c’erano quattro persone che giocavano a carte (lo ricordo bene) e, per mia fortuna, uno di loro parlava italiano. Mi invitarono a sedermi e tirai fuori il mio contratto di lavoro sul quale era riportato il numero di telefono della famiglia di contadini dalla quale sarei dovuto andare a lavorare. Quegli uomini chiamarono il contadino avvisandolo che ero proprio lì in quel ristorante. Mi offrirono anche un bicchiere di birra, avevo la pancia vuota, avevo mangiato solo tre panini in due giorni. Dopo circa tre quarti d’ora arrivò il padrone con una donna, anche lei originaria di Puos. Salutai tutti e andai.

La mattina dopo, finita la colazione, andai nei campi a lavorare. Il mio compito era prolungare dei tubi per concimare il prato. Avevo previsto di rimanere lì per circa sette mesi. Sapevo che la vita da contadino era dura, ma avevo pensato: «Non mi ammazzeranno mica in sette mesi!». Invece continuai a lavorare in quel luogo per cinque anni. Alla fine del 1954, decisi di andare a passare il Natale da mia sorella, che aveva trovato lavoro in una filatura di cotone nel Canton Zurigo, a Wetzikon. Poi tornai in Italia. Nel frattempo, mia sorella aveva chiesto alla sua ditta se potessero essere utili un paio di braccia in più, così il 12 di marzo partii per la filatura.

Il giorno dopo mi presentai al capo e iniziai subito a lavorare. La mia mansione era quella di sfilacciare in una prima fase il cotone nel reparto delle carde. Continuai a lavorare in quella ditta per undici anni. In quel periodo abitavo in una vecchia casa, il mio vicino era un contadino che aveva una grande campagna e vari animali da stalla. Lo vedevo solitamente nel cambio turno, sempre ad arare, smussare, piantare… era solo, ma ben attrezzato. Una sera, tornando a casa, cominciò a piovere a dirotto e suo padre, che era molto anziano, stava cercando invano di coprire con un telo il carro di fieno, così andai ad aiutarlo. La mattina seguente il figlio mi ringraziò per quanto avevo fatto. Iniziammo così a stringere un rapporto sempre più stretto.

Quest’uomo aveva una sorella che lavorava in una tipografia in qualità di segretaria del direttore. In quel periodo stavo cercando un lavoro che mi potesse far guadagnare qualche soldo in più, dato che nel 1964 mia moglie Evelina (ci eravamo sposati nel ’57 e nel ’58 era nato il nostro primo figlio, Claudio) aveva avuto il secondo figlio, Stefano. La ragazza riuscì a farmi avere un incontro con il direttore per vedere se avevo le carte in regola per essere assunto. Alcuni giorni dopo il colloquio, la segretaria si presentò a casa mia per mostrarmi la paga mensile che mi sarebbe stata corrisposta se avessi accettato: la differenza con il lavoro precedente era di novanta franchi al mese, così accettai. Salutai tutti i miei ex-colleghi e, passati tre mesi, iniziai a lavorare alla tipografia, era il 9 agosto del ’65.

Mi mancavano pochi mesi per raggiungere i venticinque anni di lavoro in quella ditta. Una volta arrivato al traguardo, avrei avuto diritto a un ventino d’oro.

Mi diedi sempre da fare, occupandomi un po’ di tutto. I nuovi colleghi mi volevano bene, c’era grande rispetto reciproco. Inizialmente aggiustavo macchinari, poi, man mano, cominciai a imparare le diverse tecniche e guadagnai posizioni fino a ottenere l’incarico di sviluppare dalla pellicola delle fotografie sull’alluminio. Ricordo che il secondo anno sostituii per tre settimane il portinaio, un incarico di grande fiducia nei miei confronti da parte del direttore. Mi svegliavo alle tre del mattino per accendere i macchinari, alle cinque azionavo altri motori, poi distribuivo la posta ai vari uffici, alle sei e trenta andavo a casa a fare colazione e alle sette ero al lavoro per iniziare la mia giornata. Alla sera tornavo per chiudere le porte. Mi mancavano pochi mesi per raggiungere i venticinque anni di lavoro in quella ditta. Una volta arrivato al traguardo, avrei avuto diritto a un ventino d’oro (venti franchi svizzeri d’oro) e a una doppia paga mensile. Ormai, però, io e mia moglie avevamo già deciso di tornare in Italia.

L’ultimo giorno in tipografia, il 30 aprile, salutai calorosamente tutti i colleghi. Avevo portato da mangiare e da bere. Ero un po’ dispiaciuto di abbandonare quel lavoro. Parlai un’ultima volta con il direttore, che mi fece tanti auguri, mi strinse la mano e mi porse una lettera, dicendomi: «Questa mettila in tasca e non farla vedere a nessuno». Una volta arrivato a casa, la aprii e… cosa c’era dentro? Il ventino d’oro e il mensile. Mi erano stati dati per la mia grande generosità in tutti quegli anni. Quando c’era qualcosa da fare, io ero sempre disponibile.

Il 30 aprile feci venire un camion da Vittorio Veneto, caricai tutto il mobilio per portarlo in Italia. Ora sono trent’anni che sono qui, in pensione. Ero partito da ragazzo per fare sette mesi in Svizzera, invece ci sono rimasto quarantun anni. Ah, racconto un’ultima cosa che fa sorridere: quando nel ’90 lasciai la tipografia per venire in Italia, su proposta del direttore mi abbonai a un quotidiano e da trent’anni a questa parte, tutti i giorni, continua ad arrivarmi senza che io debba pagare un solo centesimo!

Si ringraziano Bruno De March e Angelo Caneve per aver raccolto la storia.

Luigi Antole

Rino Dal Farra. La mia esperienza in Svizzera

Rino Dal Farra

“Nel 1958 in Alpago c’era miseria nera. Ed io, come quasi tutti gli Alpagoti, sono andato in Svizzera, con in tasca un contratto di lavoro che un mio amico mi aveva fatto avere. Non sapevo cosa avrei dovuto fare, perché il contratto era scritto in tedesco, di cui non sapevo una parola.

Insomma per un anno ho lavato piatti e pelato patate – come previsto da contratto – in un grande albergo, a Einsiedeln. Volevo scappar via subito, ed invece son rimasto in terra elvetica per 35 anni. Ho fatto corsi di tutti i generi: tedesco, spagnolo, scuola di commercio. Mi è riuscito tutto – con totale applicazione, s’intende – essendo autodidatta ed essendomi portato da Belluno un po’ d’istruzione e l’apertura mentale necessaria.

Ho messo su famiglia, allevando quattro figli, oggi Italiani e Svizzeri. Mi son costruito una posizione dignitosa. Ho lavorato sodo – come del resto quasi tutti i Bellunesi! – a Lachen, sul lago di Zurigo, a Niederurnen (dove, la sera, insegnavo tedesco agli italiani che lavoravano lì). Per nostalgia della mia lingua materna sono andato anche a Lugano. Mi sono accorto là che i Ticinesi di fronte ad uno Svizzero di lingua tedesca sono Italiani e di fronte ad un Italiano (io) sono Svizzeri. Dopo un anno sono ritornato nella Svizzera tedesca! Una volta la settimana, la sera, ho dato a Rapperswil lezioni di Italiano a Svizzeri, per dieci anni. Gli ultimi 18 anni ho lavorato a Volketswil/ZH in una grande ditta, della quale ero il factotum amministrativo e di cui mi ero guadagnato la totale fiducia.

Ho rispettato tutti come tutti hanno rispettato me. Ho rispettato le loro leggi, i loro usi e costumi, le loro regole. A casa degli altri, comandano, appunto, gli “altri”. Ho imparato a prendere la persona così com’è, con i suoi pregi e i suoi difetti, con le sue idee.
Conoscendo tutti i meccanismi amministrativi e politici svizzeri, non posso fare a meno di citare tre soluzione da brevetto.
Pensione di vecchiaia: c’è un minimo e c’è un massimo. Il motto della pensione di vecchiaia svizzera è: il giovane per i vecchio, il ricco per il povero;

Gli evasori fiscali hanno grosse difficoltà a nascondersi, perché la dichiarazione dei redditi va in Comune, che può facilmente controllare;
Lo stato di “impiegato statale” non esiste; già a livello comunale si assume e si licenzia – se necessario – (senza l’intervento dei Sindacati!).

Durante gli ultimi dieci anni di Svizzera ho “scoperto” la Famiglia Bellunese di Zurigo, collaborando attivamente. Lì ho vissuto l’attaccamento alla nostra “bellunesità” e alla nostra patria. Per me – e penso per tanti Bellunesi – la Svizzera è stata l’America! Mi han trattato bene. mi han pagato bene, però…
Nel 1993 la nostalgia delle mie montagne e della mia gente raggiunse il massimo ed ho avuto il coraggio di rientrare, assieme a mia moglie, lasciando lì quattro figli ormai “fuori di casa”.

Rino Dal Farra