Tag con la parola “australia”

La “nave delle spose”

Il suo viaggio inaugurale avvenne il 14 settembre 1951. Partita da Genova, per la prima volta la turbonave “Sydney” della Flotta Lauro solcò l’oceano in direzione Australia. Giunse a Fremantle il 17 ottobre, per poi continuare verso Melbourne, Sydney e Brisbane.

Il suo nome era appunto “Sydney”, ma era anche conosciuta come la “nave delle spose”, poiché a bordo portava centinaia di ragazze italiane, spesso giovanissime, sposatesi per procura, una tipologia di matrimonio che proprio in quegli anni divenne un fenomeno di massa. Gli uomini, già emigrati e insediatisi nel nuovo Paese, una volta raggiunta una certa stabilità decidevano di sposarsi.

Tuttavia, dato che il biglietto per il viaggio di rientro era costoso, diventò un’abitudine unirsi per procura con donne del paese di provenienza.

«Centinaia di ragazze – scrive Mina Cappussi nel Dizionario Enciclopedico delle Migrazioni Italiane nel Mondo – partirono così per la lontana Australia, salite nei porti di Genova, Napoli, Messina e Malta. Ragazze sprovvedute, ma anche donne navigate per le quali l’Australia rappresentava una possibilità di rifarsi una vita dignitosa. Qualcuna tornò indietro, la maggior parte restò per non deludere la famiglia, per non doversi sottomettere al giudizio del paese e del parentado».

Altre giovani si imbarcavano da nubili e raggiungevano i fidanzati, sposandoli dopo qualche settimane o perfino il giorno stesso dell’arrivo, nella chiesa più vicina alla banchina di attracco.

«È questo il senso – spiega ancora Mina Cappussi – del nomignolo affibbiato alle giovani italiane che giungevano in Australia, ribattezzate, appunto, “spose delle banchine”».

Il fabbricante di distillati

È nelle Dolomiti che ha origine la nostra tradizione familiare di lavorare con le nostre mani. Gli stagnini erano artigiani che fabbricavano e riparavano pentole e padelle di rame. Percorrevano le Alpi innevate con un emporio di attrezzi legati alla schiena per svolgere il loro lavoro.

Valentino Zannantonio Martin era uno di quegli uomini, e questa è la sua storia. Valentino era solo un ragazzo di tredici anni quando i tedeschi invasero il suo villaggio durante la Prima guerra mondiale. Miracolosamente, riuscì a sfuggire alla cattura e a morte certa.

Dieci anni dopo, nel 1927, colse al volo l’opportunità di trasferirsi nel “Paese fortunato” e fare di questa terra la sua nuova casa. Lasciandosi alle spalle Casamazzagno e la moglie incinta, si recò dall’altra parte del mondo, nel remoto deserto di Simpson, nell’Australia centrale.

Per due lunghi anni Valentino sopportò giornate calde e notti solitarie, moscerini e polvere rossa costruendo la Old Ghan Railway Line da Port Augusta ad Alice Springs. Valentino era un uomo di bassa statura, ma il suo senso dell’avventura e la sua determinazione erano enormi. Sapeva che l’Australia era un posto dove con il duro lavoro un uomo poteva costruire una buona vita per la sua famiglia.

All’inizio degli anni Trenta Valentino aprì un laboratorio a McCormac Place, Melbourne, una zona squallida di indesiderabile notorietà. I tempi erano duri e questo era il meglio che poteva permettersi. Tuttavia, la sua reputazione nel campo dell’artigianato superava l’ambiente misero da cui il suo laboratorio era circondato.

I ristoranti iconici di Melbourne, tra cui Florentino e il Victoria Coffee Palace, riconobbero le sue capacità e furono suoi clienti abituali. Valentino era anche noto per fare lo “strano alambicco o due”, abilità – queste – molto “utili” ai migranti italiani che distillavano grappa di contrabbando. Era l’epoca della Grande Depressione e l’alcol di contrabbando era valuta di baratto.

Valentino era “The Stillmaker” e sono orgoglioso fosse mio nonno. La nostra distilleria è dedicata a Valentino, a riconoscenza della sua maestria, del suo carattere forte e del suo cuore gentile. E proprio come il nonno, anche noi siamo artigiani con la passione per la produzione di whisky eccezionale.

Fu dura per mio padre Elio, cresciuto a Melbourne durante la Seconda guerra mondiale come figlio di migranti italiani.

Seguendo le orme di Valentino, mio padre e i suoi fratelli fecero tutti i commercianti, con mani dotate e lo stesso spirito imprenditoriale. Benedetti da una mente brillante per le grandi idee, non avevano paura di correre dei rischi e di “provarci”.

Fu dura per mio padre Elio, cresciuto a Melbourne durante la Seconda guerra mondiale come figlio di migranti italiani. Come la maggior parte degli uomini della sua generazione, non aveva molto da dire sulla sua vita personale. Sono state le cose che abbiamo condiviso a parlarmi di più.

Abbiamo condiviso l’amore per la vita all’aria aperta, il campeggio e il sogno di possedere una fattoria. Alcuni dei miei momenti più felici con mio padre sono stati trascorsi condividendo un whisky accanto al fuoco.

Quando io e Sandy ci siamo conosciuti, lei era ancora al liceo e io ero un apprendista elettrico al primo anno. Eravamo solo una coppia di adolescenti, ma in quei primi giorni sapevamo di essere destinati a stare insieme. Siamo in attività da quarant’anni e abbiamo sperimentato gli alti e bassi tipici della conduzione di piccole imprese.

Sono un uomo di grandi dimensioni, proprio come mio padre e mio nonno. Mentre io ho i sogni, è compito di Sandy far sì che diventino e rimangano reali! Lei gestisce i piccoli dettagli.
Siamo sempre stati una buona combinazione, e più che mai lo siamo stati nel creare la nostra distilleria di whisky single malt australiano su misura.

Nel 2021, in occasione del nostro quarantesimo anniversario di matrimonio, abbiamo riempito una delle nostre bellissime botti di Ruby Port/Rum. Sarà un giorno molto speciale quando imbottiglieremo questa produzione.

Ora sono un nonno con una famiglia meravigliosa e sto realizzando il mio sogno di mantenere in vita le tradizioni della mia famiglia.

Michael Zannantonio Martin, Whisky Maker

Giuliani e dalmati in Australia

dal Dizionario enciclopedico delle migrazioni italiane nel mondo; Roma: SER, ItaliAteneo, Fondazione Migrantes, 2014.

Le emigrazioni dal Friuli Venezia Giulia verso l’Australia dopo la Seconda guerra mondiale videro tre gruppi distinti in viaggio: i friulani, i triestini e gli istriani, fiumani e dalmati. Le prime ondate migratorie del dopoguerra furono proprio quelle forzate dei giuliano dalmati nativi dei territori allora amministrati dalla Jugoslavia.

Questi zaratini, friulani, polesi vennero inseriti nell’Australian Displaced Persons Scheme insieme ad altri profughi, provenienti in particolare dall’area balcanica e da quella sovietica. Il movimento migratorio delle displaced persons era gestito da un organismo internazionale, l’IRO (International Refugee Organization), che operava da Ginevra su mandato dell’ONU dal 1947 al 1951. Chi intendeva recarsi in Australia doveva abbandonare il campo profughi in cui viveva per raggiungerne uno gestito dall’IRO, perlopiù Bagnoli (Napoli) o Cinecittà (Roma) per le selezioni e gli arruolamenti. Partivano da Napoli, da Genova o da Bremerhaven in Germania e viaggiavano in condizioni in genere disastrose. 

Ai primi del 1952 i compiti dell’IRO passarono al Comitato provvisorio intergovernativo per il movimento dei migranti dall’Europa, poi Comitato intergovernativo per le migrazioni europee (CIME). Il CIME di Trieste svolse un ruolo di primo piano per l’emigrazione assistita dei candidati residenti nel Triveneto. Un accordo bilaterale di emigrazione assistita tra Italia e Australia, siglato il 29 marzo 1951, favorì la partenza di triestini per l’Oceania; fu sospeso l’anno dopo per i disordini nei campi di raccolta di Boneigilla e di Sydney, causati dagli italiani frustrati dal divario tra le aspettative e la realtà incontrata, ma venne riattivato nel 1954. 

L’emigrazione assistita fu un fenomeno intenso ma limitato nel tempo. Una descrizione delle partenze si deve alle penna dello scrittore triestino Giani Stuparich: «Tutto il cuore della città era là, in quei saluti, in quelle raccomandazioni, in quegli addii: tutto il temperamento del popolo triestino si esprimeva in quelle manifestazioni di popolo che sa essere spiritoso anche tra le lacrime, vivace pur nella disgrazia. “I và, i và e noi restemo… sempre alegri e mai passion”, diceva un giovane operaio con l’occhio lucido e la bocca amara. “Andé fioi, feghe onor a Trieste!”, raccomandava un altro operaio anziano. E una vecchia nonna! Era là, sorretta dai parenti, e continuamente chiedeva se Rico fosse a bordo, e dove fosse, se avesse la sua sciarpa rossa intorno al collo, se salutava, se sorrideva, e se la traversata fin laggiù sarebbe stata buona; non volle muoversi di là neanche quando la nave si staccò e girò al largo; la gente cominciò a sfollare tra commenti e rimpianti: “nonina, la se movi!”, ma la vecchia non si decideva e, col volto rigato di lacrime, andava ripetendo: “Cossa che me toca veder!”».

Una bambina, seduta su una valigia, con una bambola di Cappuccetto Rosso: siamo durante una delle innumerevoli partenze di emigranti dal porto di Trieste nel secondo dopoguerra (per gentile concessione dell’Associazione Giuliani nel Mondo)

La partenza della “Castelverde”, la prima nave diretta in Australia con emigrazione assistita, è così descritta da un comunista muggesano: «Quelli della Castelverde con gesti, fischi, urli, fazzoletti, lampadine tascabili, lanciano segnali, saluti, messaggi. Niente canti, niente allegria. Pare una partenza per la guerra, per un viaggio verso l’ignoto e senza ritorno. Finalmente la nave si muove, Trieste va in Australia, chi poteva immaginarlo?». 

La gran parte dei friulani che partirono per l’Oceania appartenevano alla provincia di Pordenone, forse per la vicinanza con quella di Treviso, una delle aree più rappresentate verso quella destinazione. L’incontro con il continente “nuovissimo” non fu certo soddisfacente; il primo impatto fu con i poliziotti, i doganieri con il cappello a larghe tese, che «controllano i passaporti con facce bisbetiche, dure, accigliate. […] Non capiscono gli agenti, e non lo capiranno mai, che si può essere vestiti bene ed essere poveri. Per quelle teste coperte da un cappello a larghe tese, chi è povero deve essere vestito da povero». 

Il successivo impatto fu con i campi di raccolta, ex campi dell’esercito o di internamento per prigionieri di guerra. Ecco una testimonianza a proposito di quello di Boneigilla: «Appena usciti dal vagone, siamo stati accolti da migliaia e migliaia di mosche, una vera invasione, sembrava che ti volevano mangiare vivo. […] Il cibo che ricevevamo dalla cucina, a non stare molto attenti, prima di arrivare alla nostra stanza era pieno di vermi; la maggior parte del vitto andava a finire nel bidone dell’immondizia. Non molto dopo è arrivata l’epidemia di morbillo, la poliomielite era in giro. Nessuno te lo diceva, l’ambulanza veniva a prenderti i bambini e tante volte non sapevi il perché». L’unica proposta culinaria era il castrato di pecora o di montone, cucinato e condito con il suo stesso sebo: «Questa pecora ci veniva data ogni giorno: fritta, lessa, arrosta ed impanata: Papà andava in mensa e diceva: Di nuovo castrone! e, preso un pezzo di pane, se ne tornava in baracca». I rimedi erano peggio del male: «Ve lo potete immaginare che faccia aveva la gente nel vedersi servire maccheroni rossi al sugo con miele e zucchero. I cuochi, non c’è bisogno di dirlo, erano tedeschi». 

Un altro problema era rappresentato dalla lingua. Ecco la testimonianza di un equivoco: «Dopo alcune settimane mi chiamarono dall’ufficio di collocamento; dopo aver spiegato tramite interprete che avevo lavorato in Italia presso i cantieri navali di Monfalcone, sapendo che conoscevo le navi (in inglese ship) che suona molto vicino a sheep (pecora), mi assegnarono un posto di pastore, ai limiti del deserto, e m’indicarono sulla carta geografica dei bei laghi […] quei laghi erano laghi di sale, non d’acqua, e le navi erano con quattro gambe». 

Perlopiù si trattò di essere avviati a lavori essenziali all’economia australiana, a prescindere dalle competenze degli immigrati; e in genere massacranti. Del resto gli italiani adulti avevano firmato un contratto per due anni con il governo australiano accettando di fare qualunque lavoro fosse richiesto, come raccogliere frutta, posare le rotaie della ferrovia, pulire gabinetti, lavorare l’acciaio o il cemento, ma anche tagliare la canna da zucchero. Scarse le previdenze e protezioni sociali: «L’Australia di allora era un paese, per certi aspetti, quasi primitivo. Lavoro sì, ma basta. Non previdenza sociale, non casse ammalati; una settimana di ferie; alloggio: arrangiati. Si viveva in affitto in case occupate a volte anche da sei famiglie, con un solo bagno, una sola cucina ed un solo gabinetto esterno, che poi era praticamente una cisterna senz’acqua che veniva rimossa dagli addetti comunali una volta alla settimana». 

I pregiudizi, nei comportamenti e nelle parole, erano costanti, uniti a un certo risentimento. Un’altra testimonianza: «Gli australiani, essendo di razza inglese o irlandese, si sentivano superiori a noi, anche se erano molto inferiori per molti aspetti a noi emigranti giuliano-dalmati. Basti pensare che gli uomini allora non portavano le mutande sotto i pantaloni, erano vestiti come all’epoca del 1935, mentre noi eravamo sempre eleganti, con abiti più moderni, anche se al principio avevamo poco da indossare. Gli australiani non usavano il fazzoletto per pulirsi il naso». 

Ma non per tutti gli emigrati dal Friuli Venezia Giulia il rapporto con il Paese di destinazione fu alle origini così conflittuale. E alcuni trovarono una nuova terra nella quale progettare il futuro e mettere radici per progettare una vita nuova.

Dal “Pino Solitario” alla Logan Road

Se vi capitasse di andare a Brisbane, in Australia, e transitare per la sua strada principale, la Logan Road, potreste ammirare un elegante edificio con ben visibile una grande insegna: “Da Rin Professional Centre”. Si tratta di un complesso di negozi voluti e realizzati da Giuseppe Da Rin De Barbera, originario di Laggio.

Bepi è scomparso all’età di ottantotto anni. La sua storia è quella di un ragazzo che, lasciato giovanissimo il paese di origine, ha saputo raggiungere, con intelligenza e coraggio, i traguardi che si era prefisso, ottenendo per sé e la sua famiglia un riscatto non solo economico, ma anche sociale e culturale.

“Bepi De Barbera” è nato a Laggio l’8 aprile 1931, terzo dei cinque figli di Antonio e Maria Da Rin Perette. Il padre, boscaiolo, morì all’età di quarantadue anni, quasi contemporaneamente alla scomparsa del figlio Mario, cosicché la famiglia si trovò in condizioni davvero difficili.

Finite le scuole elementari, “Bepi” fece il pastore sui pascoli di Razzo, Piniè e Ciampon fino all’età di sedici anni, poi andò a lavorare con la “Squadraccia Da Rin” alle teleferiche di Lasa, in Val Venosta, e come carpentiere nelle gallerie nei dintorni di Bolzano. A ventidue anni, nel 1952, pensò di aprire un bar sopra Piniè: il locale, inaugurato nel 1953 e chiamato “Pino Solitario”, funziona tuttora e costituisce ormai un capitolo di storia del turismo all’ombra del Tudaio. Per onorare gli impegni economici contratti fu però costretto a emigrare in Australia, lasciando in gestione il bar al fratello Gaspare.

… la vita fu molto dura: dopo una giornata di sfiancante lavoro si era costretti a dormire su giacigli luridi in baracche di lamiera infestate dai topi.

Nel dicembre 1955 si imbarcò a Trieste su un bastimento svedese e dopo quaranta giorni di traversata giunse a Melbourne, subito smistato prima al campo di raccolta di Bonegila e quindi in una fattoria a Robinvale, nello stato del Victoria, per essere impiegato nella raccolta dell’uva. Qui la vita fu molto dura: dopo una giornata di sfiancante lavoro si era costretti a dormire su giacigli luridi in baracche di lamiera infestate dai topi.

Con l’aiuto di un amico di Lorenzago riuscì a procurarsi un altro lavoro. «Senza conoscere l’inglese – raccontava – sono andato a Sydney, dove sapevo dell’esistenza di un’impresa italiana, la E.P.T., che si occupava di linee elettriche. Qui, mi sono detto, riesco a farmi capire e a parlare con qualcuno. Mi sono presentato a un capocantiere, un emiliano simpatico, che mi ha chiesto che cosa sapevo fare. Gli ho spiegato che sapevo aggiustare i cavi di acciaio delle funivie e quando ha visto la rapidità con cui riuscivo a ridare efficienza ai cavi spezzati, mi ha ingaggiato subito con una paga che io consideravo “da sogno”, tanto che ogni due settimane mandavo un assegno a mia madre perché pagasse i debiti del bar, saldati in cinque anni».

La Transfield non aveva nessuna intenzione di lasciarsi sfuggire un elemento così qualificato e gli fece una allettante proposta: restare il tempo necessario alla costruzione dell’impianto e poi, oltre all’ottima paga, gli avrebbe dato pure quattro mesi di vacanza…

Dopo dodici mesi andò a lavorare per la Transfield con una paga più alta, restandovi per dieci anni. Al quarto anno, però, “Bepi” manifestò il desiderio di far ritorno a casa. La Transfield, tuttavia, non aveva nessuna intenzione di lasciarsi sfuggire un elemento così qualificato e gli fece una allettante proposta: la società doveva realizzare una seggiovia in una stazione turistica, la prima di questo genere in Australia, e gli propose di restare il tempo necessario alla costruzione dell’impianto e poi, oltre all’ottima paga, gli avrebbe dato pure quattro mesi di vacanza compreso il giro del mondo. Il nostro accettò, alla fine si prese le meritate vacanze e fece ritorno a in Italia.

Nella terra d’origine un’altra tappa fondamentale della sua vita: a Laggio conobbe la friulana Alberta Persello. Fu un vero colpo di fulmine, i due si fidanzarono e nel settembre 1961, dopo soli due mesi, si sposarono. Tre settimane dopo gli sposi erano già di ritorno a Sidney, dove Bepi riprese servizio con la Transfield, che lo inviò prima a dirigere i lavori di oltre 250 chilometri di linee elettriche, poi a costruire una seconda seggiovia e infine a realizzare gli impianti di una miniera d’oro.

Nel marzo del 1966, stanco di peregrinare, decise di mettersi in proprio: insieme a due geometri della Valtellina, Guido Zuccoli e Italo Speziale, fondò la Steelcon (ferro e cemento) e il successo arrivò presto con la realizzazione di ponti, scuole, stazioni radio, bacini idrici, ferrovie, impianti idroelettrici, apparati meccanici ed edili per le miniere di uranio. Nel 1977 Giuseppe cedette le sue quote e si stabilì a Brisbane, dove comprò la tenuta agricola Mount Side a Cambooya.

Nel 1979, durante una vacanza in Italia, il cugino Antonio Da Rin Vidal, comproprietario dell’occhialeria Luxol di Lozzo di Cadore, gli propose di portare in Australia un campionario di occhiali di sua produzione per metterli sul mercato. Giuseppe intuì subito le potenzialità e con rinnovato entusiasmo si lanciò in questo nuovo settore. Creò, nel 1979, la Da Rin Fashion Eyewear e nell’arco di qualche anno il giro d’affari assunse proporzioni tali da richiedere nel 1990 un complesso di uffici e negozi: il centro ottico Da Rin Professional Centre.

Ai suoi due figli, Dennis, nato nel 1964, e John Martin, nato nel 1970, fece studiare optometria. Oggi entrambi hanno una prospera attività con due negozi di occhiali ciascuno. La figlia Diane, nata nel 1966, si è invece laureata in architettura e ha sposato un architetto.

Giovanni De Donà

Betti e Bepi De Barbera a Laggio il 15 settembre 2006.

Cent’anni fa in Australia

La digitalizzazione delle fonti scritte, a livello internazionale, offre sempre nuovi squarci di storie poco conosciute o che, talvolta, possono stravolgere quanto fino a quel momento dato per certo. La riprova sta in un articolo che ci è stato segnalato attraverso Facebook da Darren Piasente, pubblicato dal quotidiano “The Argus” di Melbourne, Victoria, il 17 giugno 1929. Titolo: “Jumbunna Mine Tragedy”. Tema: la tragedia mineraria di Jumbunna, che colpì tre nostri connazionali.

Durante l’inchiesta che ricercava i colpevoli della tragedia nella quale il 3 giugno persero la vita i tre italiani, il giudice Grant, assieme a una giuria di sette persone, ascoltò le testimonianze dei vari responsabili, e di quanti – presenti – potessero fornire dettagli su quanto avvenuto.

Il titolo di un articolo pubblicato il giorno dopo la tragedia, avvenuta il 3 giugno del 1929

Assodato, da parte di tutti, che vi era presenza di aria “cattiva”, che i vari registri e valvole presenti nelle gallerie non riuscirono a purificare, si convenne che i tre italiani, Ferdinando Triziana, J. Triziana e Caeser Pisanti (nomi trascritti erroneamente), che si erano spinti fino a circa 300 yarde (300 metri scarsi) all’interno della galleria, erano morti per asfissia a causa della presenza di “black damp”, un miscuglio soffocante di diossido di carbonio e di altri gas irrespirabili, come testimoniato dal campione analizzato dal reparto chimico della miniera.

Nel corso del dibattimento vi furono rimpalli di colpe da parte delle persone preposte alla sicurezza e fu proposta un’indagine sulle condizioni di questa e di altre miniere della zona, la qual cosa, tuttavia, non riportò in vita i nostri concittadini, originari di Lamon, e dall’articolo non emerge se giustizia fu fatta.

Ma è proprio alla conclusione dell’articolo che veniamo a conoscenza che il giudice Grant, a fine dibattimento, volle evidenziare che Caeser Pisanti perse la vita, nel tentativo di salvare la vita dei suoi compagni. Ed è proprio quest’ultima affermazione che non collima con quanto inciso nella lapide posta il 7 agosto 2009, a San Donato, dove risulta, invece, che fu Ferdinando Tiziani a tentare di salvare i suoi compaesani.

Forse altre fonti potranno fornire una spiegazione e lasciare le tre vittime riposare in pace.

Irene Savaris

La lapide posta il 7 agosto 2009 a San Donato, frazione del comune di Lamon