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Marcinelle

Marcinelle (Charleroi, Belgio), 8 agosto 1956.
Un errore umano provoca un incendio nella miniera di carbone del Bois du Cazier. A quasi mille metri di profondità perdono la vita 262 minatori. 136 vittime sono emigrati italiani. Tra questi, Dino Della Vecchia, nato nel 1926, di Sedico.

Charleroi, anni Cinquanta. Dino Della Vecchia, di Sedico (a destra), con un collega del Bois du Cazier.
Per gentile concessione di Enrico De Salvador

Perforazione in miniera a Marcinelle.
Per gentile concessione di Rino Budel 
Estrazione del carbone a Marcinelle.
Per gentile concessione di Rino Budel
Sotto la volta armata, si carica il carbone con la pala a mano. 
Per gentile concessione di Rino Budel

Un minatore al lavoro a Marcinelle.
Per gentile concessione di Rino Budel

I giornali raccontano la tragedia

La Nouvelle Gazette, edizione di Charleroi, 8 agosto 1956.

La Stampa, 9 agosto 1956.

La Nouvelle Gazette, edizione di Charleroi, 9 agosto 1956.

L’Unità, 9 agosto 1956.

La Nouvelle Gazette, edizione di Charleroi, 10 agosto 1956. 

La Stampa, 10 agosto 1956. 

L’Unità, 10 agosto 1956.

La Nouvelle Gazette, edizione di Charleroi, 12 agosto 1956. 

L’Amico del Popolo, 18 agosto 1956.

La Nouvelle Gazette, edizione di Charleroi, 23 agosto 1956.

L’Amico del Popolo, 25 agosto 1956.

La Nouvelle Gazette, edizione di Charleroi, 30 agosto 1956.

I vestiti lasciati appesi al soffitto per l’ultima volta prima di scendere in miniera. Questa era la cosiddetta “sala degli impiccati”.

La Nouvelle Gazette, edizione di Charleroi, 31 agosto 1956.

L’Amico del Popolo, 1 settembre 1956.

Mai ho passato ore così terribili in questi giorni come stanotte. (…) Sull’acqua cheta, raccolta sul fondo della galleria, nera come l’inchiostro, vedemmo un primo corpo galleggiare, e poi un altro ancora.
(La testimonianza di Ettore Bettinato, uno dei soccorritori a Marcinelle)

Uomini in cambio di carbone

C’è una data simbolo che contrassegna l’emigrazione italiana in Belgio, quella del 23 giugno 1946. È la data in cui viene siglato il “Protocollo italo-belga per il trasferimento di 50.000 minatori italiani in Belgio”. Un accordo ribattezzato anche “Uomini in cambio di carbone”. Gli uomini – duemila a settimana – li metteva l’Italia. Il Belgio forniva il carbone a prezzo agevolato.

Il contesto di questo scambio è quello disastroso, dal punto di vista materiale ed economico, dell’immediato secondo dopoguerra, con il nostro Paese sconfitto e bisognoso sia della materia prima, sia di tamponare l’abbondante disoccupazione in patria. Bruxelles deve invece colmare il vuoto di manodopera lasciato nelle sue miniere dai prigionieri tedeschi rimpatriati dopo il conflitto.

Per tenere fede al patto e garantire i contingenti di braccia promessi, lungo vie e piazze della Penisola inizia a comparire il famigerato “Manifesto rosa”, passato alla storia per il suo colore, ma soprattuto per una serie di annunci che, a suon di false promesse, stimolavano a trasferirsi in Belgio.

Duro lavoro, fatica, pericolo, incidenti, alloggi degradanti e silicosi…

Già prima del “Protocollo” i nostri connazionali si erano diretti nel Pays Noir, impiegati assieme a polacchi, cecoslovacchi, russi e tedeschi nelle viscere della terra. Ma è dopo la firma dell’intesa che miniera e Belgio diventano, per gli italiani, elementi di un binomio inscindibile – fatto di duro lavoro, fatica, pericolo, incidenti, alloggi degradanti e silicosi – almeno fino alla fine degli anni Cinquanta.

A far calare nettamente i flussi saranno le conseguenze dirette e indirette del disastro di Marcinelle (8 agosto 1956), con le sue duecentosessantadue vittime, di cui centotrentasei italiane, morte a quasi mille metri di profondità a seguito di un incendio scatenatosi nella miniera del Bois du Cazier.

Dopo Marcinelle gli espatri calano, pur senza interrompersi. E gli italiani cominciano a inserirsi in settori diversi da quello minerario, con un buon numero di emigranti che decidono di stabilirsi definitivamente nel contesto di arrivo.

Gruppo di minatori, tra cui veneti e un bellunese, all’ingresso dei pozzi nella miniera di Thieu, in Belgio, nel 1926.
(Archivio Foto-Storico Feltrino, fondo privato Egidio Girardello)

Le memorie dal sottosuolo di Amedeo Grillo

Una frase che fa impressione. E che permette di comprendere quanto terribile potesse essere la vita del minatore. «C’era un collega toscano. Malediva i suoi genitori per averlo fatto nascere perché lavorava in miniera». A pronunciarla è Amedeo Grillo, ricordando gli anni trascorsi in Belgio. Otto ore al giorno, tutti i giorni, nelle viscere della terra. 

Oggi Amedeo, partito da Alano di Piave per faticare e respirare polvere nel sottosuolo del Pays Noir, non c’è più. Se n’è andato già da qualche anno ma, per fortuna, ha lasciato la sua testimonianza, ritratto del sacrificio di centinaia di bellunesi e di migliaia di italiani che, come lui, sono stati protagonisti di quella pagina della nostra emigrazione significativamente ribattezzata “Uomini in cambio di carbone”.

Lui era uno di quegli uomini che il protocollo tra Italia e Belgio del 1946 spedì proprio a cavar carbone. Giù, con «un grande ascensore», fino a settecentocinquanta metri di profondità. «Mi hanno consegnato a un altro minatore che aveva esperienza e mi hanno fatto fare due-tre giorni di tirocinio, dopodiché ho cominciato». Il primo giorno di “mina” è un’esperienza che non si dimentica facilmente.

«Quando ho iniziato è stato brutto perché mi hanno portato in una galleria con un polacco con il quale non riuscivo a parlare. Mi ha accompagnato in questa galleria solo per farmela vedere, e mi sembrava che a battere sarebbe cascato tutto». 
In miniera, il rischio è sopra la testa, è tutto intorno, ma guai a pensarci. «Se pensi ai pericoli – assicura Amedeo – non entri più». 

«Ho avuto tanta paura perché credevo di non uscirne più. Un’altra volta è franato tutto e mi sono fatto male, tre vertebre fratturate».

Lui di spavento ne ha preso un bel po’. «Il sole non arriva mai laggiù, è sempre buio. La lampada è come un fiammifero e bisogna vedere con cosa si lavora. Ho lavorato un mese su un filone alto venti centimetri, cose che uno non ci crede se non lo vede. La lampada non stava in piedi e bisognava lavorare con una mano sola. Una volta sono venuti giù dei pezzi di roccia, da sopra, che pesavano tre o quattro chili.

Ero buttato giù, con la pancia di sotto, perché bisognava lavorare così. Si sono staccati questi blocchi di roccia e non potevo andare né avanti né indietro. Ho chiesto aiuto e un polacco che era lì vicino è venuto con un pezzo di legno a liberarmi. Ho avuto tanta paura perché credevo di non uscirne più. Un’altra volta è franato tutto e mi sono fatto male, tre vertebre fratturate». 

Amedeo lavorava a Boussu, non troppo distante da Charleroi. L’8 agosto del 1956 andò a vedere ciò che era accaduto a Marcinelle. «Ma non si poteva pensare a quanto successo, perché altrimenti non ci vai più a lavorare. Ovviamente c’era tanto pericolo e bisognava sempre avere la testa sulle spalle. Si contava ogni minuto, perché a volte finivi dopo le otto ore, altre volte finivi presto e dovevi aspettare il resto del tempo». 

La miniera di La sentinelle, dove Amedeo lavorava

Addirittura, in qualche modo si è sentito fortunato. «Nella mina dove ho lavorato io mi pare ci siano stati due morti in cinque anni, mentre nelle altre ce n’erano tanti di più».

Dopo cinque anni di Belgio, il ritorno in Italia, per poi ripartire di nuovo. «Un amico mi ha chiesto se volevo andare in Svizzera. Abbiamo fatto un contratto e in due mesi sono andato, per rimanere undici anni. Ho trovato un lavoro da tessitore, facevo tappeti in una fabbrica». 

Là – ricorda Amedeo – non era pericoloso. Però anche in terra elvetica le cose non erano semplici. Qualche guaio c’era. «La vita in Belgio era meglio che in Svizzera, perché tra gli svizzeri non ho trovato tanti amici. In Belgio si facevano delle feste fenomenali, ad esempio per Santa Barbara, mentre in Svizzera, i primi tempi, non si poteva andare neanche al bar, si andava solo in quelli con gli altri italiani».

Meglio evitare, insomma, l’ostilità xenofoba che in quegli anni prendeva di mira gli immigrati italiani, quelli che – diceva qualche svizzero, aizzato dalla ben nota propaganda politica nazionalista – “rubavano il lavoro” alla gente del posto.

Ritornando con la mente al Belgio, Amedeo ricorda perfettamente il motivo per cui era emigrato. E soprattuto la necessità di accettare un mestiere particolarmente difficile. «Sapevo già che sarei andato a lavorare in miniera, perché avevo dai cugini là, anche loro lavoravano in miniera. Mi avevano spiegato che il lavoro era brutto e pericoloso, ma a quei tempi bisognava adattarsi». 

Amedeo Grillo alla fine del suo turno

Angelo Antoniol

Nacque a Lamon il 2 novembre 1900. Appena sposato ad una giovane del luogo, Anna Mastel, lascia il paese natale nel 1923 ed emigra nel Belgio, bacino di Liegi, seguendo il destino di tanti a cui la terra era stata avara. La vita della sua famiglia, accresciuta di sei figli è una continua lotta sia per le difficoltà ambientali che per i tempi difficili che corrono; ma egli, uomo dalla volontà ferrea, con una fede in Dio più forte delle montagne che aveva lasciato, onora la sua terra e quella ospitale con il duro lavoro di minatore. La fede negli ideali di famiglia, Dio e Patria, lo vede lavorare fianco a fianco coll’allora primo missionario italiano in Belgio, il defunto Piumatti per la realizzazione della prima Missione Cattolica Italiana in Belgio per dare agli emigranti italiani un luogo in cui riunirsi negli anni trenta-trentacinque, sormontando le difficoltà d’ambiente e qualche volta anche certe ostilità per l’insorgere di questa missione guardata dalla gente del luogo come un’avventura. Il “savoir faire” e la pazienza però di questi due pionieri, è il caso di dirlo, e il coraggio acquistano col tempo il benestare tanto della parte civile e religiosa belga. La guerra non smorza in Angelo Antoniol lo spirito creativo e combattivo, continua nel lavoro di apostolato perché la missione che Dio gli aveva affidato non scompaia. Lavora con il signor Vincenzo Bombardieri alla fondazione dell’Azione Cattolica nel 1947. Gli emigranti italiani trovano in lui il consigliere, l’aiuto, le suore delle Poverelle chiamate alla missione per dare assistenza agli emigranti non bussano mai invano alla sua porta: povere tra i poveri. Gli è compagna fedele la moglie Anna che nei momenti difficili lo sostiene con amore e dedizione. L’attaccamento agli ideali della famiglia, del lavoro della chiesa gli merita la Croce di San Silvestro Papa benignamente concessagli dal Santo Padre e che Monsignor Forte gli rimette in una riunione straordinaria a cui partecipano amici, conoscenti e tutte le Organizzazioni Cattoliche. Minato dall’inesorabile male della mina, continua nel suo cammino anche sofferente  e lo si continua a vedere nelle varie riunioni a carattere religioso. Morì il 27 novembre 1968 a Seraing, Liegi.

Fonte: BNM 1970

Emigranti bellunesi si sentono a casa nella “Citè del minatore” in Belgio

Da sinistra a destra Rino, Noemi e Riccardo sotto la statua della regina Elisabetta
Da sinistra a destra Rino, Noemi e Riccardo sotto la statua della regina Elisabetta

I fratelli ‘Bob’ Riccardo (81) e Rino (76) e la sorella Noemi (79) Sponga sono nati a Eisden (Belgio) negli anni trenta, e vivono ancora nel quartiere giardino della “Cité del minatore”. “Nostro padre , Attilio, con radici a Sedico (Belluno), è nato a Selbeck in Germania. Da lì è venuto in Belgio via Francia con due fratelli, prima a Charleroi, poi a Beringen e infine, nel 1926, a Eisden. Seguirono quattro sorelle” – così Bob inizia a raccontare la storia di una famiglia di emigranti bellunesi – “ Nostro padre ha incontrato qui nella cité nostra madre Mafalda Brentel, anche lei venuta dalle Alpi, da Aune di Sovramonte, vicino a Feltre”.

“Siamo tutti nati nella stessa casa, dove ho poi portato un figlio e una figlia nel mondo – continua Noemi. “Papà aveva solo 48 anni quando, dopo 30 anni lavoro pesante nella miniera di carbone, dopo sei mesi di pensione è deceduto a causa della polvere di carbone nei polmoni. Triste destino di molti dei suoi amici minatori della sua generazione!”, dice Rino, che pure ha lavorato per diversi anni nella miniera di carbone di Eisden, dove anche Bob, cominciando a 14 anni, ha lavorato per 30 anni.

Soprattutto gli anni della guerra hanno lasciato una profonda impressione. “Nel giardino dei nostri vicini, una bomba è esplosa” ricorda Rino. “Tutte le finestre nella casa sono andate in mille pezzi e il soffitto è venuto giù,” racconta Noemi che, insieme con i fratelli, è cresciuta all’ombra del parco reale, costruito in onore della visita della regina Elisabetta.

“Abbiamo trascorso tutta la nostra vita qui a Eisden. Ora non vogliamo più andare via da qui. A volte ritorniamo a Belluno in montagna. L’atmosfera delle Dolomiti non si trova nella nostra regione in Belgio”.

Jos Miscoria (Eisden – Belgio)