Un futuro roseo

«Condizioni particolarmente vantaggiose vi sono offerte per il lavoro sotterraneo nelle miniere belghe. Approfittate degli speciali vantaggi che il Belgio accorda ai suoi minatori». 

Ad affabulare gli operai italiani non era uno scaltro commerciante deciso ad appioppare mercanzia di dubbia qualità, erano le parole stampate su un manifesto della Federazione Carbonifera Belga diventato famoso per il suo colore rosa. Un brigante di carta incollato sui muri di tutte le città e zeppo di slogan e promesse da far stropicciare gli occhi: «Carbone gratuito», «Biglietti ferroviari gratuiti», «Premio di natalità», «Ferie», «Alloggio». 

«Il viaggio dall’Italia al Belgio è completamente gratuito per i lavoratori italiani, firmatari di un contratto annuale di lavoro per le miniere. Dura in ferrovia solo 18 ore. Compiute le semplici formalità d’uso, la vostra famiglia potrà raggiungervi in Belgio». Come non accorrere, come non approfittarne! La realtà era ben diversa, ed era fatta di condizioni difficili, fatica, pericoli. 

C’è una data simbolo che contrassegna l’emigrazione italiana in Belgio, quella del 23 giugno 1946. È la data in cui viene siglato il “Protocollo italo-belga per il trasferimento di 50.000 minatori italiani in Belgio”. Un accordo ribattezzato anche “Uomini in cambio di carbone”. Gli uomini – duemila a settimana – li metteva l’Italia. Il Belgio forniva il carbone a prezzo agevolato.

Il contesto di questo scambio è quello disastroso, dal punto di vista materiale ed economico, dell’immediato secondo dopoguerra, con il nostro Paese sconfitto e bisognoso sia della materia prima (il carbone, appunto), sia di tamponare l’abbondante disoccupazione in patria. Bruxelles deve invece colmare il vuoto di manodopera lasciato nelle sue miniere dai prigionieri tedeschi rimpatriati dopo il conflitto. 

Per tenere fede al patto e garantire i contingenti di braccia promessi, lungo vie e piazze della Penisola inizia a comparire per l’appunto il famigerato “Manifesto rosa”, passato alla storia per il suo colore, ma soprattuto per la serie di annunci che, a suon di illusioni, stimolavano a trasferirsi in Belgio.

Già prima del “Protocollo” i nostri connazionali si erano diretti nel Pays Noir, impiegati assieme a polacchi, cecoslovacchi, russi e tedeschi nelle viscere della terra. Ma è dopo la firma dell’intesa che miniera e Belgio diventano, per gli italiani, elementi di un binomio inscindibile – fatto di duro lavoro, incidenti1, alloggi degradanti e silicosi – almeno fino alla fine degli anni Cinquanta.

A far calare nettamente i flussi saranno le conseguenze dirette e indirette del disastro di Marcinelle (8 agosto 1956), con le sue duecentosessantadue vittime, di cui centotrentasei italiane, morte a quasi mille metri di profondità a seguito di un incendio scatenatosi nella miniera del Bois du Cazier.

Dopo Marcinelle gli espatri calano, pur senza interrompersi. E gli italiani cominciano a inserirsi in settori diversi da quello minerario, con un buon numero di emigranti che decidono di stabilirsi definitivamente nel contesto di arrivo.

1 Tra il 1946 e il 1963 si contano 890 vittime italiane nelle miniere del Belgio.

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