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Tra Lamon e la valle della Roia

di Eveline Rapetti

Mia nonna, Giovanna Paoletto, nacque a Lamon l’8 gennaio 1887, in un’epoca in cui il mondo era ben diverso da quello che conosciamo oggi. Mio nonno, Ferdinando Brochetto, vide la luce anche lui a Lamon, il 2 giugno 1884. Il loro amore, nato contro il volere della famiglia di lei, li portò a unirsi in matrimonio il 9 aprile 1908. Da quell’unione, destinata a fronteggiare prove durissime, nacquero cinque figli maschi, tutti nel piccolo paese che fu la culla della loro storia.

Negli anni Venti, come tanti uomini di quell’epoca, mio nonno partì in cerca di fortuna, trovando lavoro nella miniera di Vallauria, nella valle della Roia, in comune di Tenda, all’epoca provincia di Cuneo. Nel 1924, mia nonna lo seguì, lavorando prima come selezionatrice di minerali e poi nelle cucine dei minatori. Il 27 febbraio 1925 nacque mia madre Laura.

La miniera era un microcosmo pulsante, attivo tutto l’anno: c’erano una scuola, un asilo, la casa del direttore, le abitazioni degli operai e delle loro famiglie. Ma la fatica e il sacrificio ebbero presto il loro prezzo. Il 3 marzo 1929, mio nonno Ferdinando si spense, consumato dalla silicosi, la malattia che mieté molte vite tra i lavoratori delle miniere. Quando morì, mia nonna Giovanna era incinta della loro figlia Ferdinande. Nonostante il dolore, Giovanna non si arrese e si risposò con Zanus, ma anche lui cadde vittima della stessa malattia, lasciandola di nuovo sola.

Nel 1930, la miniera di Vallauria chiuse definitivamente. Il villaggio che una volta brulicava di vita fu abbandonato e saccheggiato dai raccoglitori di metalli, ormai un ricordo spettrale di un passato perduto.

Oggi, di quella importante comunità di lamonesi che aveva cercato fortuna alla miniera di Vallauria, siamo rimasti in pochi

Durante la Seconda guerra mondiale, la tragedia colpì ancora la nostra famiglia. Gli italiani del Caposaldo occuparono gli edifici della miniera, trasformandoli in base logistica. Mia nonna, con le sue due figlie e i suoi figli ormai adulti, si trasferì a Saint-Dalmas-de-Tende, al fondo della valle, cercando di sopravvivere alla miseria. Uno dei suoi figli, Angelo, scomparve tragicamente in Russia, vittima della brutalità della guerra.

Con la fine del conflitto, il 1947 segnò un altro cambiamento: il comune di Tenda venne annesso alla Francia e la miniera di Vallauria divenne ufficialmente territorio francese. Giovanna e i suoi figli sopravvissuti acquisirono la cittadinanza francese. Lei, però, nata da madre austriaca, non parlò mai né italiano né francese.

Giovanna Paoletto morì il 17 gennaio 1970, portando con sé una vita di sacrifici e dolori, ma anche di straordinaria resilienza. Oggi, di quella importante comunità di lamonesi che aveva cercato fortuna alla miniera di Vallauria, siamo rimasti in pochi a Tenda, testimoni di un passato che si sta dissolvendo. E come un ultimo atto di crudele indifferenza del tempo, la tempesta Alex del 2020 ha distrutto il cimitero di Saint-Dalmas, cancellando anche le loro tombe, come se la loro storia fosse destinata a essere inghiottita dall’oblio.

Lavoratrici impegnate nella scelta del minerale, inizi del Novecento. Fonte Wikimedia Commons

Tra Belgio e California

di Giuseppe Carrera

La storia siamo noi, l’incipit di una famosa canzone ci offre lo spunto per una riflessione: la Storia del nostro passato è il risultato delle tante piccole storie minori di persone comuni che, con le loro esperienze di vita, i sacrifici, la resilienza, le delusioni, i successi, i sogni, compongono il disegno finale di un paesaggio complesso e articolato.
Una di queste ci porta a Gosaldo, il 4 giugno del 1931.

È la data di nascita di Delfino Alberto Bressan che, come tanti bambini della sua età, trascorse un’esistenza semplice, segnata dalla dura realtà della vita rurale e montana, con il lavoro fisico unico mezzo per sostenere la famiglia. Crescendo, Delfino imparò presto quei valori di fatica e determinazione che lo avrebbero accompagnato per tutta la vita.

Visse gli anni della fanciullezza e della gioventù in un periodo storico difficile e controverso, caratterizzato dal ventennio fascista e dalla Seconda guerra mondiale. Nel suo percorso incrociò situazioni particolari e drammatiche e divenne testimone, diretto e indiretto, di diverse tragedie che caratterizzarono gli anni Cinquanta e Sessanta.

All’età di 26 anni, nel 1957, era già un uomo maturo e, viste le scarse opportunità di lavoro, come tanti agordini e bellunesi fu costretto a lasciare la propria terra e i propri affetti per cercare un futuro migliore all’estero, più precisamente in Belgio, nella Vallonia nota per le miniere di carbone, attratto – come tanti altri italiani – dalle promesse del famigerato “manifesto rosa”. Partì nonostante l’anno prima, l’8 agosto del 1956, duecentosessantadue minatori avessero perso la vita nel drammatico incidente al Bois du Cazier di Marcinelle.

Malgrado la consapevolezza del pericolo, la decisione era presa e per circa due anni, dal 1957 al 1959, lavorò in una miniera vicino a Liegi. Di quel periodo rimangono alcune fotografie che lo ritraggono in vari momenti di lavoro, da solo o con i colleghi. In alcune immagini lo si vede a fine turno con il viso e la tuta completamente neri per il carbone. Con un buon bagno tornava pulito, ma i suoi polmoni ogni giorno respiravano quella maledetta e insidiosa polvere che nel tempo sarebbe stata letale.

Ans, provincia di Liegi, 28 gennaio 1957. Delfino è l’ultimo a destra

Prima di iniziare il turno di lavoro
A fine turno

Intanto, nel suo paese natio, più precisamente a Vallalta, nella località denominata California, si stavano creando nuove situazioni che avrebbero cambiato il suo futuro.

Nel 1957 la Società Mineraria Vallalta, del gruppo Montedison, elaborò un progetto per la rinascita del sito minerario di Vallalta: da indagini e studi sul territorio emersero importanti potenzialità del giacimento. Vennero quindi messe in campo diverse attività preliminari per iniziare le attività di ricerca e coltivazione dei giacimenti. La vecchia mulattiera venne resa transitabile, si portò la linea elettrica a 380 V, vennero ripristinate vecchie gallerie, la O’Connor e Todros, e scavati nuovi pozzi fino alla profondità di centosessanta metri.

Delfino, probabilmente informato da parenti e paesani, ne venne a conoscenza e si candidò come minatore alla Società Vallalta, che accettò la sua richiesta. Delfino fu entusiasta di poter abbandonare le miniere di carbone in un Paese senza luce e di poter tornare al suo paese di origine, nella sua verde e soleggiata vallata, vicino ai propri cari.

Nelle miniere di Vallalta prestò servizio per alcuni anni tra il 1960 e il 1962. Si recava al lavoro a piedi, scendendo da casa sua giù per la valle fino alla California dove, insieme ai suoi compagni di turno, raggiungeva la miniera. Lavorava otto ore al giorno per sei giorni la settimana, forando la roccia, caricando l’esplosivo e facendolo brillare. Il mercurio si presentava allo stato liquido e in grande quantità.

Dopo la fase di ricerca e individuazione del minerale, si procedeva su altri settori, con altri scavi. Questa attività di ricerca avrebbe poi portato, nella seconda fase, alla produzione e coltivazione vera e propria.

Si creò un buon rapporto tra dirigenti e maestranze, senza scioperi e proteste e con una bassa incidenza di infortuni, nonostante il contesto lavorativo di particolare pericolosità. Nel gennaio del 1962, però, ecco i primi segnali di ciò che avrebbe posto fine ai sogni e alle aspettative: infiltrazioni d’acqua nelle gallerie che sembravano inizialmente di poco conto si rivelarono in poco tempo fatali.

Per l’intera comunità questa terribile sciagura rimase per molto tempo una ferita aperta.

Delfino raccontò che il pomeriggio del 19 gennaio, verso le 19:00, mentre stava per ultimare una fase del suo lavoro di perforazione, lui e il suo compagno di turno improvvisamente vennero investiti da un forte getto d’acqua che allagò velocemente la galleria.

A stento riuscirono a uscire e a dare l’allarme, ma nel frattempo tre colleghi erano scesi nel pozzo per il loro consueto turno di notte. La mattina seguente, alle 7:10, l’arganista Angelo Pollazzon, dopo aver sentito il segnale di salita, mise in azione l’argano che subito si bloccò.

Si sporse alla bocca del pozzo per capire la causa e rimase sconvolto da quanto vide: dal condotto, impetuosa, risaliva una colonna d’acqua. Rimase colpito e interdetto e, compresa la gravità della situazione, lanciò l’allarme. Nelle gallerie scavate in precedenza e non segnalate nelle mappe erano entrate copiose quantità d’acqua che avevano saturato gli spazi vuoti.

Con l’alta pressione creatasi, arrivò la rottura del sottile diaframma tra le vecchie coltivazioni e i nuovi avanzamenti e il conseguente allagamento dell’intera struttura. Per le maestranze in superficie furono momenti drammatici al pensiero dei tre sfortunati colleghi scesi la sera prima nel pozzo.

Il giovane perito minerario Vito De Cassan, di La Valle, e i minatori Bruno Bedont, di Tiser, e Antonio Carrera, di Carrera, si trovavano lungo il pozzo a centotrenta metri di profondità, senza alcuna via di fuga. Il loro destino era segnato.

Vani i tentativi di vigili del fuoco, militari, carabinieri e maestranze per portare loro soccorso. Solo dopo dieci giorni le salme vennero recuperate con grande difficoltà, dato il continuo innalzamento del livello dell’acqua.

Il 30 gennaio 1962, nella chiesetta di California, il vescovo Gioacchino Muccin celebrò il funerale e una folla immensa si strinse intorno a parenti e amici delle tre vittime. Per l’intera comunità questa terribile sciagura rimase per molto tempo una ferita aperta.

Inevitabilmente, il tragico evento rappresentò una battuta d’arresto per la società Vallalta, costretta ad abbandonare il progetto e a trovare nuovi siti minerari. Oltre al lutto, ci fu un impatto negativo per l’economia locale e per l’occupazione. Delfino e i suoi colleghi furono costretti a cercare un altro posto di lavoro nella vallata, oppure a emigrare.

Gli anni successivi furono caratterizzati da eventi naturali drammatici che sconvolsero e misero in ginocchio la provincia di Belluno e la vallata agordina. Nell’ottobre del 1963, l’immane tragedia del Vajont. Nel 1966, l’alluvione che interessò gran parte dell’Italia. Il 4 novembre del 1966, il colpo di grazia per la comunità di Gosaldo: la California fu spazzata via dalle acque impetuose dei due torrenti alla cui confluenza si trovava il paese.

La California e le miniere di Vallalta vennero negli anni dimenticate e del vecchio insediamento rimasero solo alcuni ruderi, via via fagocitati dalla vegetazione. La comunità seppe comunque reagire e trovare nuove idee ed energie per riprogrammare il futuro.

Ciò che rimane oggi del vecchio sito minerario di Vallalta

Delfino non abbandonò mai il suo paese e la sua casa natale e, per il forte attaccamento alle proprie radici, non emigrò più, trovando impiego nella Forestale. Gli anni passati in miniera insidiarono però il suo fisico. Si ammalò di silicosi, e fu costretto per anni a respirare a fatica e con l’ausilio dell’ossigeno.

Dopo tanta sofferenza, con il conforto della moglie e dei suoi cari, Delfino, detto Giando, esalò il suo ultimo respiro l’11 febbraio del 1993, all’età di 62 anni.

Le informazioni contenute in questa storia ci sono state gentilmente fornite da Barbara Bressan, figlia di Delfino.

Un futuro roseo

«Condizioni particolarmente vantaggiose vi sono offerte per il lavoro sotterraneo nelle miniere belghe. Approfittate degli speciali vantaggi che il Belgio accorda ai suoi minatori». 

Ad affabulare gli operai italiani non era uno scaltro commerciante deciso ad appioppare mercanzia di dubbia qualità, erano le parole stampate su un manifesto della Federazione Carbonifera Belga diventato famoso per il suo colore rosa. Un brigante di carta incollato sui muri di tutte le città e zeppo di slogan e promesse da far stropicciare gli occhi: «Carbone gratuito», «Biglietti ferroviari gratuiti», «Premio di natalità», «Ferie», «Alloggio». 

«Il viaggio dall’Italia al Belgio è completamente gratuito per i lavoratori italiani, firmatari di un contratto annuale di lavoro per le miniere. Dura in ferrovia solo 18 ore. Compiute le semplici formalità d’uso, la vostra famiglia potrà raggiungervi in Belgio». Come non accorrere, come non approfittarne! La realtà era ben diversa, ed era fatta di condizioni difficili, fatica, pericoli. 

C’è una data simbolo che contrassegna l’emigrazione italiana in Belgio, quella del 23 giugno 1946. È la data in cui viene siglato il “Protocollo italo-belga per il trasferimento di 50.000 minatori italiani in Belgio”. Un accordo ribattezzato anche “Uomini in cambio di carbone”. Gli uomini – duemila a settimana – li metteva l’Italia. Il Belgio forniva il carbone a prezzo agevolato.

Il contesto di questo scambio è quello disastroso, dal punto di vista materiale ed economico, dell’immediato secondo dopoguerra, con il nostro Paese sconfitto e bisognoso sia della materia prima (il carbone, appunto), sia di tamponare l’abbondante disoccupazione in patria. Bruxelles deve invece colmare il vuoto di manodopera lasciato nelle sue miniere dai prigionieri tedeschi rimpatriati dopo il conflitto. 

Per tenere fede al patto e garantire i contingenti di braccia promessi, lungo vie e piazze della Penisola inizia a comparire per l’appunto il famigerato “Manifesto rosa”, passato alla storia per il suo colore, ma soprattuto per la serie di annunci che, a suon di illusioni, stimolavano a trasferirsi in Belgio.

Già prima del “Protocollo” i nostri connazionali si erano diretti nel Pays Noir, impiegati assieme a polacchi, cecoslovacchi, russi e tedeschi nelle viscere della terra. Ma è dopo la firma dell’intesa che miniera e Belgio diventano, per gli italiani, elementi di un binomio inscindibile – fatto di duro lavoro, incidenti1, alloggi degradanti e silicosi – almeno fino alla fine degli anni Cinquanta.

A far calare nettamente i flussi saranno le conseguenze dirette e indirette del disastro di Marcinelle (8 agosto 1956), con le sue duecentosessantadue vittime, di cui centotrentasei italiane, morte a quasi mille metri di profondità a seguito di un incendio scatenatosi nella miniera del Bois du Cazier.

Dopo Marcinelle gli espatri calano, pur senza interrompersi. E gli italiani cominciano a inserirsi in settori diversi da quello minerario, con un buon numero di emigranti che decidono di stabilirsi definitivamente nel contesto di arrivo.

1 Tra il 1946 e il 1963 si contano 890 vittime italiane nelle miniere del Belgio.

Marcinelle

Marcinelle (Charleroi, Belgio), 8 agosto 1956.
Un errore umano provoca un incendio nella miniera di carbone del Bois du Cazier. A quasi mille metri di profondità perdono la vita 262 minatori. 136 vittime sono emigrati italiani. Tra questi, Dino Della Vecchia, nato nel 1926, di Sedico.

Charleroi, anni Cinquanta. Dino Della Vecchia, di Sedico (a destra), con un collega del Bois du Cazier.
Per gentile concessione di Enrico De Salvador

Perforazione in miniera a Marcinelle.
Per gentile concessione di Rino Budel 
Estrazione del carbone a Marcinelle.
Per gentile concessione di Rino Budel
Sotto la volta armata, si carica il carbone con la pala a mano. 
Per gentile concessione di Rino Budel

Un minatore al lavoro a Marcinelle.
Per gentile concessione di Rino Budel

I giornali raccontano la tragedia

La Nouvelle Gazette, edizione di Charleroi, 8 agosto 1956.

La Stampa, 9 agosto 1956.

La Nouvelle Gazette, edizione di Charleroi, 9 agosto 1956.

L’Unità, 9 agosto 1956.

La Nouvelle Gazette, edizione di Charleroi, 10 agosto 1956. 

La Stampa, 10 agosto 1956. 

L’Unità, 10 agosto 1956.

La Nouvelle Gazette, edizione di Charleroi, 12 agosto 1956. 

L’Amico del Popolo, 18 agosto 1956.

La Nouvelle Gazette, edizione di Charleroi, 23 agosto 1956.

L’Amico del Popolo, 25 agosto 1956.

La Nouvelle Gazette, edizione di Charleroi, 30 agosto 1956.

I vestiti lasciati appesi al soffitto per l’ultima volta prima di scendere in miniera. Questa era la cosiddetta “sala degli impiccati”.

La Nouvelle Gazette, edizione di Charleroi, 31 agosto 1956.

L’Amico del Popolo, 1 settembre 1956.

Mai ho passato ore così terribili in questi giorni come stanotte. (…) Sull’acqua cheta, raccolta sul fondo della galleria, nera come l’inchiostro, vedemmo un primo corpo galleggiare, e poi un altro ancora.
(La testimonianza di Ettore Bettinato, uno dei soccorritori a Marcinelle)

Uomini in cambio di carbone

C’è una data simbolo che contrassegna l’emigrazione italiana in Belgio, quella del 23 giugno 1946. È la data in cui viene siglato il “Protocollo italo-belga per il trasferimento di 50.000 minatori italiani in Belgio”. Un accordo ribattezzato anche “Uomini in cambio di carbone”. Gli uomini – duemila a settimana – li metteva l’Italia. Il Belgio forniva il carbone a prezzo agevolato.

Il contesto di questo scambio è quello disastroso, dal punto di vista materiale ed economico, dell’immediato secondo dopoguerra, con il nostro Paese sconfitto e bisognoso sia della materia prima, sia di tamponare l’abbondante disoccupazione in patria. Bruxelles deve invece colmare il vuoto di manodopera lasciato nelle sue miniere dai prigionieri tedeschi rimpatriati dopo il conflitto.

Per tenere fede al patto e garantire i contingenti di braccia promessi, lungo vie e piazze della Penisola inizia a comparire il famigerato “Manifesto rosa”, passato alla storia per il suo colore, ma soprattuto per una serie di annunci che, a suon di false promesse, stimolavano a trasferirsi in Belgio.

Duro lavoro, fatica, pericolo, incidenti, alloggi degradanti e silicosi…

Già prima del “Protocollo” i nostri connazionali si erano diretti nel Pays Noir, impiegati assieme a polacchi, cecoslovacchi, russi e tedeschi nelle viscere della terra. Ma è dopo la firma dell’intesa che miniera e Belgio diventano, per gli italiani, elementi di un binomio inscindibile – fatto di duro lavoro, fatica, pericolo, incidenti, alloggi degradanti e silicosi – almeno fino alla fine degli anni Cinquanta.

A far calare nettamente i flussi saranno le conseguenze dirette e indirette del disastro di Marcinelle (8 agosto 1956), con le sue duecentosessantadue vittime, di cui centotrentasei italiane, morte a quasi mille metri di profondità a seguito di un incendio scatenatosi nella miniera del Bois du Cazier.

Dopo Marcinelle gli espatri calano, pur senza interrompersi. E gli italiani cominciano a inserirsi in settori diversi da quello minerario, con un buon numero di emigranti che decidono di stabilirsi definitivamente nel contesto di arrivo.

Gruppo di minatori, tra cui veneti e un bellunese, all’ingresso dei pozzi nella miniera di Thieu, in Belgio, nel 1926.
(Archivio Foto-Storico Feltrino, fondo privato Egidio Girardello)