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Le memorie dal sottosuolo di Amedeo Grillo

Una frase che fa impressione. E che permette di comprendere quanto terribile potesse essere la vita del minatore. «C’era un collega toscano. Malediva i suoi genitori per averlo fatto nascere perché lavorava in miniera». A pronunciarla è Amedeo Grillo, ricordando gli anni trascorsi in Belgio. Otto ore al giorno, tutti i giorni, nelle viscere della terra. 

Oggi Amedeo, partito da Alano di Piave per faticare e respirare polvere nel sottosuolo del Pays Noir, non c’è più. Se n’è andato già da qualche anno ma, per fortuna, ha lasciato la sua testimonianza, ritratto del sacrificio di centinaia di bellunesi e di migliaia di italiani che, come lui, sono stati protagonisti di quella pagina della nostra emigrazione significativamente ribattezzata “Uomini in cambio di carbone”.

Lui era uno di quegli uomini che il protocollo tra Italia e Belgio del 1946 spedì proprio a cavar carbone. Giù, con «un grande ascensore», fino a settecentocinquanta metri di profondità. «Mi hanno consegnato a un altro minatore che aveva esperienza e mi hanno fatto fare due-tre giorni di tirocinio, dopodiché ho cominciato». Il primo giorno di “mina” è un’esperienza che non si dimentica facilmente.

«Quando ho iniziato è stato brutto perché mi hanno portato in una galleria con un polacco con il quale non riuscivo a parlare. Mi ha accompagnato in questa galleria solo per farmela vedere, e mi sembrava che a battere sarebbe cascato tutto». 
In miniera, il rischio è sopra la testa, è tutto intorno, ma guai a pensarci. «Se pensi ai pericoli – assicura Amedeo – non entri più». 

«Ho avuto tanta paura perché credevo di non uscirne più. Un’altra volta è franato tutto e mi sono fatto male, tre vertebre fratturate».

Lui di spavento ne ha preso un bel po’. «Il sole non arriva mai laggiù, è sempre buio. La lampada è come un fiammifero e bisogna vedere con cosa si lavora. Ho lavorato un mese su un filone alto venti centimetri, cose che uno non ci crede se non lo vede. La lampada non stava in piedi e bisognava lavorare con una mano sola. Una volta sono venuti giù dei pezzi di roccia, da sopra, che pesavano tre o quattro chili.

Ero buttato giù, con la pancia di sotto, perché bisognava lavorare così. Si sono staccati questi blocchi di roccia e non potevo andare né avanti né indietro. Ho chiesto aiuto e un polacco che era lì vicino è venuto con un pezzo di legno a liberarmi. Ho avuto tanta paura perché credevo di non uscirne più. Un’altra volta è franato tutto e mi sono fatto male, tre vertebre fratturate». 

Amedeo lavorava a Boussu, non troppo distante da Charleroi. L’8 agosto del 1956 andò a vedere ciò che era accaduto a Marcinelle. «Ma non si poteva pensare a quanto successo, perché altrimenti non ci vai più a lavorare. Ovviamente c’era tanto pericolo e bisognava sempre avere la testa sulle spalle. Si contava ogni minuto, perché a volte finivi dopo le otto ore, altre volte finivi presto e dovevi aspettare il resto del tempo». 

La miniera di La sentinelle, dove Amedeo lavorava

Addirittura, in qualche modo si è sentito fortunato. «Nella mina dove ho lavorato io mi pare ci siano stati due morti in cinque anni, mentre nelle altre ce n’erano tanti di più».

Dopo cinque anni di Belgio, il ritorno in Italia, per poi ripartire di nuovo. «Un amico mi ha chiesto se volevo andare in Svizzera. Abbiamo fatto un contratto e in due mesi sono andato, per rimanere undici anni. Ho trovato un lavoro da tessitore, facevo tappeti in una fabbrica». 

Là – ricorda Amedeo – non era pericoloso. Però anche in terra elvetica le cose non erano semplici. Qualche guaio c’era. «La vita in Belgio era meglio che in Svizzera, perché tra gli svizzeri non ho trovato tanti amici. In Belgio si facevano delle feste fenomenali, ad esempio per Santa Barbara, mentre in Svizzera, i primi tempi, non si poteva andare neanche al bar, si andava solo in quelli con gli altri italiani».

Meglio evitare, insomma, l’ostilità xenofoba che in quegli anni prendeva di mira gli immigrati italiani, quelli che – diceva qualche svizzero, aizzato dalla ben nota propaganda politica nazionalista – “rubavano il lavoro” alla gente del posto.

Ritornando con la mente al Belgio, Amedeo ricorda perfettamente il motivo per cui era emigrato. E soprattuto la necessità di accettare un mestiere particolarmente difficile. «Sapevo già che sarei andato a lavorare in miniera, perché avevo dai cugini là, anche loro lavoravano in miniera. Mi avevano spiegato che il lavoro era brutto e pericoloso, ma a quei tempi bisognava adattarsi». 

Amedeo Grillo alla fine del suo turno

La memoria di Marcinelle

di Walter Basso

Si dice che la storia sia maestra di vita, ma molte volte, purtroppo, la storia ha la memoria corta. O meglio, gli uomini che la fanno, hanno la memoria corta. Nel corso degli anni, dei secoli, sono state innumerevoli le stragi che hanno colpito l’umanità: a volte sono state provocate dalle guerre, altre volte da calamità naturali o dall’incuria dell’uomo. Nella maggior parte dei casi questi eventi si ricordano negli anniversari, con interventi politici che talvolta sono semplicemente appuntamenti di routine in un mondo dominato dalla velocità e dall’interesse.

Si tiene un breve discorso davanti ai monumenti che riportano sfilze di nomi e di date, si appoggia una corona di fiori e poi via al prossimo impegno. Ma chi non dimentica sono i familiari delle infinite vittime, per i quali il tempo si è congelato nel dolore per la perdita di un figlio, di un padre, un marito, un fratello. E poi ci sono coloro che quella particolare strage l’hanno vissuta, o perché hanno avuto la fortuna di essere stati graziati, oppure per aver partecipato ai soccorsi, al recupero di chi è rimasto ferito o peggio ha perso la vita.

Questa mia riflessione è nata quando gli Amici della Sezione Alpini di Vigonza Padova mi hanno invitato a partecipare al compleanno di un ex minatore che già conoscevo, ma solo telefonicamente, perché mi aveva dato una mano per raccogliere i dati per il mio libro Carne da miniera dedicato ai minatori morti in incidenti nelle miniere belghe.

La persona straordinaria alla quale voglio dedicare quest’articolo si chiama Lino Rota. Abita a Nembro con la moglie Mariuccia, una donna dolcissima, il suo braccio destro di tutta la vita. Ma perché voglio parlarvi di lui e cos’ha di straordinario Lino? Beh, per me tutta la sua vita è straordinaria, ma l’apice lo ha raggiunto quando nel 1956, esattamente l’8 agosto, è stato chiamato come soccorritore alla miniera Bois du Cazier a Marcinelle, in Belgio, nel tragico teatro della terza più grande strage che ha coinvolto i nostri avi, dove hanno trovato la morte ben 262 uomini, dei quali 136 italiani.

Lino oggi ha occhi saggi e sereni, ma questi suoi occhi hanno visto l’orrore puro, la disperazione di tante, troppe donne, ha visto piangere troppi orfani, ha respirato l’odore della morte, ha rischiato la vita per cercare qualcuno vivo nell’inferno.

Tutti noi abbiamo sentito parlare, letto o visto film di questa immane tragedia che ha reso martiri tutti questi uomini (il più giovane aveva quattordici anni) condannati a una morte orrenda tra fiamme e fumo da un patto scellerato tra i due Stati, Italia e Belgio. Ma una cosa è sentirne parlare o leggerne, un’altra è viverla. Lino, il minatore italiano entrato nel ’48 nel bacino carbonifero di Charleroi, il soccorritore, il porion poi, dal sorriso limpido, oggi ha occhi saggi e sereni, ma questi suoi occhi hanno visto l’orrore puro, la disperazione di tante, troppe donne, ha visto piangere troppi orfani, ha respirato l’odore della morte, ha rischiato la vita per cercare qualcuno vivo nell’inferno.

Lino da giovane nel bacino di Charleroi

Lino è stato davanti a me, a raccontarmi il buio dei pozzi, mentre i tanti che hanno vissuto quegli infiniti giorni di fuoco e fumo come sconosciuti eroi non ci sono più. È uno degli ultimi preziosi testimoni e merita di essere ringraziato ancor oggi, oltre che essere ascoltato, soprattutto dalle nuove generazioni. Inoltre, dovrebbe essere onorato come si onorano gli eroi veri: perché lui, dopo aver visto l’inimmaginabile a Marcinelle, non ha mollato tutto, ma ha continuato a lavorare in miniera, non un mese o un anno, ma fino al ’74, quando è tornato in Italia.

Ma dal suo cuore i ricordi del carbone, delle gallerie, dei vagoncini, delle lampade, non mai è riuscito a cacciarli e così, pezzo su pezzo, con il supporto della sua Mariuccia, a Nembro ha costruito il “suo” museo, riassunto completo di una vita sì di sacrificio dentro e sopra una miniera, ma soprattutto di coraggio, di dignità, di amore. Il museo, allestito in una cavità della roccia e denominato dal Comune di Nembro “Piazzetta dell’Emigrante”, è stato ricostruito come l’entrata di una miniera di fronte alla quale poteva trovarsi un emigrato italiano.

Questi sono i veri eroi: Lino, mio padre, mio zio e tutte le migliaia di minatori di tutto il mondo.

Nel corso di tutti questi anni è stato fortemente arricchito di testimonianze preziose e dal grande valore storico (attrezzi, materiali, documenti e foto), grazie all’impegno della famiglia Rota nel recuperare oggetti direttamente in Belgio. Tutti gli elementi che compongono il museo sono stati catalogati come “Collezione Lino Rota”. Un riassunto visivo, che merita di essere visitato con lo stesso spirito con il quale si visita una chiesa: rispetto e riflessione.

Lino davanti al museo creato da lui e Mariuccia

Io quel 3 aprile, al pranzo, ho visto un momento Lino commuoversi e vedendo quelle lacrime solcare il suo viso, per un attimo ho rivisto mio padre, anche lui minatore, e così impulsivamente l’ho stretto a me immaginando di stringere lui. Per immaginare di ringraziarlo dopo tanti anni che è lontano da me. Ecco, questi sono i veri eroi: Lino, mio padre, mio zio e tutte le migliaia di minatori di tutto il mondo. E anche se le istituzioni non sempre se ne ricordano, siamo noi figli di questi uomini, spesso abbandonati dalle loro patrie, che ci hanno lasciato morendo sotto terra comi i topi, o soffocati negli ospedali, nell’indifferenza dei grandi politici, che li ammiriamo e li ringraziamo.

Per questo io dico: grazie Lino per quello che sei stato e per quello che sei, grazie Mariuccia per il tuo amore e l’aiuto che gli dai, e grazie a voi amici Alpini di Vigonza per avermi voluto insieme a condividere il compleanno di un Uomo Vero che non dimenticherò.

Mariuccia e Lino

Guerra, amore ed emigrazione

Giovanni e i suoi fratelli, Antonio e Giuseppe, emigrarono nel 1904-1905 arrivando, come tanti altri del nostro paese – Arsiè – a Spring Valley, nell’Illinois, per lavorare come minatori. Dopo alcuni anni le loro mogli li raggiunsero.

La vita era dura nei campi di mina di Marquette, le casette misere, nel fango quando pioveva, fra la polvere quando non pioveva. Il sabato sera i minatori scapoli andavano a Spring Valley nelle osterie, tornando a tarda sera, facendo baccano, usando un linguaggio duro. Giovanni e sua moglie Maria, diventati nel 1910 genitori di una bambina di nome Constantina, decisero che quello non era un posto dove allevare una famiglia e nel 1912 tornarono in Italia.

Col passare del tempo nacquero altri due figli, Gaetano e Gino. Poi, ecco che di lì a qualche anno scoppiò la guerra, e il padre fu chiamato militare e assegnato con gli Alpini del Battaglione Feltre. Dopo la disfatta di Caporetto, Arsiè rimase sotto l’occupazione tedesca e fu solo a ostilità concluse che Giovanni venne a sapere di essere diventato padre di un altro figlio, al quale Maria aveva dato il suo stesso nome, Giovanni, appunto.

La guerra era finita, ma le cose in Italia non andavano bene. Giovanni decise di tentare di nuovo la via dell’America: aveva ancora i documenti di cittadino americano, e nessun problema per rientrare. Così nel 1923 lasciò la moglie e cinque figli, la più piccola, Lina, di tre anni. Quando arrivò, trovò lavoro a far pavimenti di terrazzo e non appena i figli compivano i sedici, diciassette anni di eta, faceva in modo che lo raggiungessero in America. Il più giovane, Giovanni (John), giunse nel 1937.

Dato che Lina si sposava e andava in Australia nel settembre di quell’anno, il padre tornò in Italia, con la speranza dì rientrare poi in America. Ma un anno dopo Maria si ammalò e più tardi scoppiò la seconda guerra mondiale. Giovanni non tornò più in America. Conoscendo la gravità del male della madre, anche il figlio suo omonimo voleva tornare per vederla almeno un’ultima volta. Fu tuttavia convinto a non farlo, malgrado il dolore. Già i carabinieri erano stati due volte in casa, visto che non si era presentato quando era stato chiamato al servizio militare.

Nel dopoguerra John venne a trovare suo padre, e trovò pure me. Ci siamo sposati il 13 marzo 1947, dopo un mese di fidanzamento! John è morto nel settembre 2014, dopo sessantasette anni di matrimonio.

Anna Venzon
(Peoria, USA)

Illinois Miners 1903
(fonte: Wikimedia Commons)

Arsenio Calligaro. Un bellunese nelle cronache di inizio ‘900 a Hurley

Un giorno di novembre di qualche anno fa, pervenne al Comune di Lozzo di Cadore un’email da parte del signor Pierluigi Vernetto. «Spulciando vecchi giornali italo americani di Hurley, Iron County (una zona di miniere, dove sono emigrati tanti italiani) – scriveva Vernetto – ho trovato questa notizia: “Arsenio Calligaro, 23 anni, da Lozzo Cadore colpito al capo da un grosso masso di minerale franato nel pozzo del Winsor mine. Il colpo tremendo gli lasciò una parziale atrofia al cervello. Il 5 dicembre 1910, accompagnato alla stazione da molti compaesani, l’Arsenio Calligaro partì alla volta del paese natio, dove le arie balsamiche, e forse qualche nuovo tentativo della scienza, gli ridaranno la salute”. A Lozzo Cadore è conosciuta la vicenda di Arsenio?» concludeva Vernetto.

Ecco dunque che mi premurai di effettuare alcune ricerche, sollecitato anche dal fatto che mia moglie è una nipote di Arsenio.  
Scoprii così che Calligaro Arsenio era nato a Lozzo di Cadore il 12 settembre 1887. L’8 dicembre del 1913 si era sposato con Laguna Osvalda e aveva avuto otto figli, quattro dei quali deceduti in tenera età. In base a quanto riportato sul sito di Ellis Island*, era emigrato in America per la prima volta il 24 febbraio 1907, partendo dal Porto di Le Havre con la nave “La Provence”. Arrivato in America si era trasferito direttamente a Hurley, Wisconsin, dove aveva iniziato a lavorare in miniera.  

«I sanitari di qui fecero quanto fu loro possibile per il ristabilimento di quel giovane, al quale la Compagnia aveva posto speciale affezione per la sua attività e sobrietà».

«I connazionali ricorderanno certamente l’infortunio toccato al giovane Arsenio Calligaro, colpito al capo da una frana di minerale circa un anno fa», riportava l’edizione del 10 dicembre 1910 di La Nostra Terra. Corriere Popolare del Nordvest, giornale italiano di Hurley, che proseguiva: «I sanitari di qui fecero quanto fu loro possibile per il ristabilimento di quel giovane, al quale la Compagnia aveva posto speciale affezione per la sua attività e sobrietà. Nulla valse a rimetterlo in condizione di lavorare ancora. Il colpo tremendo gli lasciò una parziale atrofia del cervello. Onde sollecitare dalla Compagnia il maggior compenso possibile, venne nominato amministratore di Arsenio Calligaro il signor Carlo Bonino il quale si incaricò dei passi necessari, fece rilasciare dal soprintendente della Compagnia il permesso di far circolare una sottoscrizione a favore dello sfortunato connazionale, seppe ottenere l’appoggio dei capitani ai quali i lavoratori, ben dimostrando quanto cameratismo alligni fra loro, risposero con vera generosità.

Anche la Compagnia concesse un buon sussidio al suo bravo minatore e lunedì scorso, accompagnato alla stazione da molti compaesani, l’Arsenio Calligaro, in compagnia dell’amico Valentino De Diana, partì alla volta del paese natio, dove le arie balsamiche, e forse qualche nuovo tentativo della scienza, gli ridaranno la salute. Il suo ultimo pensiero, espresso al signor Bonino, fu quello di ringraziare pubblicamente tutti coloro che tanto si adoperarono per lui, rammentando in special modo il suo cugino Giovanni Calligaro che gli fece come da padre in tutto il tempo della sua infermità, la Compagnia nei suoi dirigenti che gli usarono riguardi infiniti ed infine i compagni di lavoro che tutti generosamente vollero nei loro mezzi contribuire ad alleviargli la disgrazia toccatagli. E noi ci prestiamo ben volentieri ad esprimere il ringraziamento di quel bravo giovanotto al quale auguriamo di ritrovare in patria quella salute che forse gli permetterà di ritornare un giorno fra di noi».

Arsenio Calligaro con la moglie Osvalda e i figli Ruggero e Valentino

Dopo il rimpatrio, nel 1921 ritornò in America e, da notizie raccolte presso i nipoti, risulta che sia emigrato anche in Nuova Zelanda e in Germania.  
Al rientro definitivo nel nostro Paese, acquistò una casa dove visse fino alla sua morte, avvenuta il 24 luglio del 1970.

Mario Calligaro

* Il sito della “The Statue of Liberty – Ellis Island Foundation”, che raccoglie svariate liste di passeggeri sbarcati sull’isola newyorchese di Ellis Island, famoso punto d’approdo di chi emigrava via nave negli Stati Uniti.

Giuseppe De Min e la medaglia al lavoro del San Gottardo

Giuseppe De Min, originario di Chies d’Alpago, quando era pressoché ventenne lavorò come minatore nel traforo della grande galleria ferroviaria del San Gottardo in Svizzera conquistandosi, in quell’”inferno”, una medaglia d’argento al valor civile. 

Il libro “Storia dei trafori del S. Gottardo”, scritto dalla ricercatrice e giornalista di origine veneta Fiorenza Venturini racconta la drammatica storia dei minatori italiani emigranti impegnati nell’esecuzione di quelle opere. Dopo discussioni che hanno impegnato Governi e finanziatori per oltre trent’anni, intorno al 1870 veniva deciso l’avvio della grande galleria della lunghezza di 15 chilometri. Rimaneva da assicurare l’enorme quantità di manodopera necessaria per l’esecuzione dei lavori: “Ce la fornirà la miseria italiana”, affermava lo svizzero Josef Zingg, come è riportato nel libro della Venturini. E nel 1872 si davano inizio ai lavori che dureranno ben dieci anni. Ventimila emigranti italiani fra i quali molti veneti e certamente molti bellunesi hanno lavorato in quei cantieri. Le loro condizioni di vita e di lavoro erano più che disumane: tenuti a distanza dalla popolazione svizzera anche per disposizione delle autorità locali, i lavoratori italiani venivano trattati da esseri inferiori, da miserabili. Lavoravanododici ore al giorno, perforando la roccia a colpi di mazza e rimuovendo tutto il materiale a forza di braccia, costretti a respirare polveri e gas prodotti dagli scoppi della dinamite, senza una sufficiente circolazione d’aria e un minimo di prevenzione. Molti di loro sono morti per incidenti da incuria e molti ancora per una epidemia chiamata “anemia dei minatori” durata parecchi anni e causata da esalazioni tossiche e dalla scarsa pulizia e igiene ambientale. Si legge ancora nel libro citato: “Soltanto ombre sarebbero rimasti i nostri lavoratori i quali, chi subito nelle viscere della montagna chi più tardi in patria, hanno sacrificato la loro vita, se uomini di cervello e di cuore non li avessero risuscitati facendo di loro non dei fantasmi da dimenticare ma degli eroi”. Ed ecco quindi la questione della medaglia, con la quale il Governo italiano si è sentito in dovere di manifestare agli eroici minatori superstiti del Gottardo un riconoscimento morale. 

Fonte: BNM n. 5/1985