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I minatori di Valle Imperina: una storia dal basso

di Antonio Zampiero

A pochi chilometri da Agordo si estende una Valle, denominata Imperina, nel comune di Rivamonte Agordino, con una storia affascinante e di lunga data. Solcata da un torrente, detto Imperina, che dà il nome alla Valle e termina nel Cordevole, essa si inserisce in un filone di studi che analizza la storia delle miniere, dei minatori e dell’estrazione dei minerali.

Il processo estrattivo nelle Dolomiti parte da lontano, da tempi remotissimi, fino al 4000 anni fa. Valle Imperina si caratterizza per la notevole presenza di rame e di vetriolo (sottoprodotto del processo metallurgico) e, in minor quantità, anche argento.

Alla ricchezza dei minerali faceva da contraltare la povertà e l’asprezza del terreno, non particolarmente adatto alla coltivazione. Risulta chiaro come la vita e la sussistenza delle comunità locali ruotassero intorno alle miniere: la storia di Valle Imperina è soprattutto la storia dei minatori e delle condizioni durissime in cui versavano.

Le prime attestazioni riguardo allo sfruttamento della miniera risalgono ai primi del ‘400 (anche se la maggior parte degli studiosi concorda su un utilizzo precedente di quelle zone) quando avvenne l’acquisizione da parte della Repubblica di Venezia.

Sotto l’egida della Serenissima, le miniere di Val Imperina soddisfacevano, nel periodo di massimo apice tra il XVII e il XVIII, più del cinquanta per cento del fabbisogno di rame. Rame che veniva utilizzato per l’interno delle navi, per produrre monete e per il bronzo dei cannoni.

La Repubblica di Venezia si rese conto molto presto dell’importanza del bacino minerario e mise in atto un lungo processo di specializzazione del lavoro, un taylorismo ante litteram, convocando anche i mastri minatori più sapienti del tempo.

La composizione dei lavoratori ricopriva un ventaglio molto ampio di individui, non solo autoctoni del luogo, ma anche maestranze e manodopera provenienti dal Sacro Romano Impero.

L’influenza del mondo tedesco fu determinante non solo per quanto riguarda l’indispensabile apporto di saperi e tecniche, ma anche dal punto di vista linguistico: ne è un esempio l’origine di molti termini ancor’ oggi utilizzati come canòp (da knappe, minatore), smilcer (da schmelzer, fonditore) e stol (da stoln, galleria).

Le peregrinazioni, gli spostamenti di merci e persone, portarono con sé anche un nuovo fervore culturale, religioso e ideologico. I passi alpini, i quali apparentemente rappresentavano un ostacolo, erano particolarmente permeabili e tutte quelle idee – vivide di quel rinnovamento che la Riforma protestante bramava – viaggiavano con i mercanti e lavoratori che sistematicamente si riversavano nella Valle e in tutto il Bellunese.

Questo destò, nel periodo della Controriforma, grande preoccupazione a Venezia, ma soprattutto a Roma. La Chiesa cattolica certamente non vide di buon occhio tutto questo fermento e intensificò la sua attività nel territorio reprimendo ogni forma di dissenso e l’inosservanza delle regole religiose.

Ci sono testimonianze di processi inquisitoriali che interessarono non solo i Canopi (minatori) ma la cittadinanza tutta: medici, osti, laici con buona cultura, e anche preti e frati.

Nel ‘500 la repressione inquisitoriale non fu l’unica preoccupazione per gli agordini, ci furono diverse carestie, la peste e nel 1545 persino un terremoto. Diverse fonti dell’epoca tratteggiano una situazione sostanzialmente negativa anche per quanto riguarda il lavoro nelle miniere.

Una situazione di crisi del lavoro minerario dovuta all’esodo della manovalanza tedesca. Causa che poteva essere ricondotta alla costante rivalità delle compagnie private che gestivano irrazionalmente le miniere.

«Questo è quanto hà di buono la miniera, che molti miserabilissimi operai campano con loro fatiche di sangue»

Un cronista dell’epoca, Giovanni Barpo, ritenendo che le miniere agordine fossero in uno stato di decadenza e sfruttate da pochi, avidi arricchitori, elogiava, invece, quegli operai che svolgevano alacremente il loro mestiere: «Questo è quanto hà di buono la miniera, che molti miserabilissimi operai campano con loro fatiche di sangue».

Questa visione disfattista del Barpo venne ridimensionata dall’arrivo, nel territorio agordino, dell’imprenditore lecchese Francesco Crotta (1604). Elogiato da Barpo stesso, Crotta diede un impulso decisivo all’industria mineraria agordina riuscendo a introdurre importanti novità nelle tecniche di scavo e ampliando la rete delle gallerie.

Un grande sostegno venne dall’introduzione della polvere da sparo, la quale permise ai minatori di risparmiare tempo e fatica e alla famiglia Crotta di crescere economicamente.

Intraprendente e con una certa spregiudicatezza, il Crotta non si limitò all’attività imprenditoriale, ma si ritagliò uno spazio sempre più rilevante nella sfera politica e sociale, diventando la sua una delle famiglie più importanti dell’Agordino.

Questo inarrestabile successo conobbe, però, una brusca interruzione. Nel 1654, Giuseppe, figlio del sopracitato Francesco, assassinò il fratello Antonio e venne bandito dalla città. Con la morte di Crotta, alle imprese private si affiancò una gestione statale e i lavoratori risentirono molto della rivalità tra pubblico e privato.

La Repubblica volle gestire le miniere di Val Imperina in prima persona, consapevole dell’importanza in termini di risorse di uno dei giacimenti più importanti d’Europa, fino a quando non ne ottenne la quasi totalità.

Seguendo le sorti del panorama politico mondiale, il centro minerario subì un periodo di crisi alla fine del XVIII secolo con la conquista della Repubblica di Venezia (1797) da parte di Napoleone e la requisizione forzata del rame durante le guerre napoleoniche (1803-1815).

Declino che si protrarrà per tutto il XIX secolo fino al colpo di grazia definitivo: prima con il Piano Marshall, il quale inferse un duro colpo alla produzione di materie prime italiane; poi, con l’alluvione del 1966 e la definitiva chiusura delle buse.

La comunità agordina preferisce dimenticare un passato fatto di sfruttamento, desolazione e fame. Spinta verso l’oblio che risente anche di una spaccatura tra una cultura imprenditoriale con la sua gestione, i suoi interessi, e una cultura popolare del lavoro minerario, con le sue esperienze concrete e i suoi equilibri.

Ma, come rileva sapientemente Francesco Spagna nel suo “Minatori in Val Imperina”, attuando uno sguardo antropologico sulla questione possiamo giungere a una duplice conclusione.

Primariamente, se, da una parte, la storiografia pone spesso al centro dell’attenzione singoli personaggi, singole famiglie, che, quasi eroicamente, dall’alto, hanno cambiato il corso degli eventi, non è possibile non ricordare la spinta dal basso di quella comunità di minatori che hanno saputo portare grandi innovazioni dal proprio interno, di quei lavoratori che sono riusciti a mantenere e tramandare da una generazione all’altra una conoscenza, un sapere tecnico-pratico.

Secondariamente, in opposizione a una logica di cieco sfruttamento del territorio, la comunità mineraria ha sempre mantenuto un rapporto armonioso con l’ambiente circostante, rispettando gli spazi e mantenendo quei delicati equilibri – sempre così precari – perché la montagna, con le sue acque, i suoi boschi, le miniere stesse, non si fa mai dominare del tutto.

Immagine tratta dal sito: museovalleimperina

Immagine tratta da wikipedia.org

Tra Belgio e California

di Giuseppe Carrera

La storia siamo noi, l’incipit di una famosa canzone ci offre lo spunto per una riflessione: la Storia del nostro passato è il risultato delle tante piccole storie minori di persone comuni che, con le loro esperienze di vita, i sacrifici, la resilienza, le delusioni, i successi, i sogni, compongono il disegno finale di un paesaggio complesso e articolato.
Una di queste ci porta a Gosaldo, il 4 giugno del 1931.

È la data di nascita di Delfino Alberto Bressan che, come tanti bambini della sua età, trascorse un’esistenza semplice, segnata dalla dura realtà della vita rurale e montana, con il lavoro fisico unico mezzo per sostenere la famiglia. Crescendo, Delfino imparò presto quei valori di fatica e determinazione che lo avrebbero accompagnato per tutta la vita.

Visse gli anni della fanciullezza e della gioventù in un periodo storico difficile e controverso, caratterizzato dal ventennio fascista e dalla Seconda guerra mondiale. Nel suo percorso incrociò situazioni particolari e drammatiche e divenne testimone, diretto e indiretto, di diverse tragedie che caratterizzarono gli anni Cinquanta e Sessanta.

All’età di 26 anni, nel 1957, era già un uomo maturo e, viste le scarse opportunità di lavoro, come tanti agordini e bellunesi fu costretto a lasciare la propria terra e i propri affetti per cercare un futuro migliore all’estero, più precisamente in Belgio, nella Vallonia nota per le miniere di carbone, attratto – come tanti altri italiani – dalle promesse del famigerato “manifesto rosa”. Partì nonostante l’anno prima, l’8 agosto del 1956, duecentosessantadue minatori avessero perso la vita nel drammatico incidente al Bois du Cazier di Marcinelle.

Malgrado la consapevolezza del pericolo, la decisione era presa e per circa due anni, dal 1957 al 1959, lavorò in una miniera vicino a Liegi. Di quel periodo rimangono alcune fotografie che lo ritraggono in vari momenti di lavoro, da solo o con i colleghi. In alcune immagini lo si vede a fine turno con il viso e la tuta completamente neri per il carbone. Con un buon bagno tornava pulito, ma i suoi polmoni ogni giorno respiravano quella maledetta e insidiosa polvere che nel tempo sarebbe stata letale.

Ans, provincia di Liegi, 28 gennaio 1957. Delfino è l’ultimo a destra

Prima di iniziare il turno di lavoro
A fine turno

Intanto, nel suo paese natio, più precisamente a Vallalta, nella località denominata California, si stavano creando nuove situazioni che avrebbero cambiato il suo futuro.

Nel 1957 la Società Mineraria Vallalta, del gruppo Montedison, elaborò un progetto per la rinascita del sito minerario di Vallalta: da indagini e studi sul territorio emersero importanti potenzialità del giacimento. Vennero quindi messe in campo diverse attività preliminari per iniziare le attività di ricerca e coltivazione dei giacimenti. La vecchia mulattiera venne resa transitabile, si portò la linea elettrica a 380 V, vennero ripristinate vecchie gallerie, la O’Connor e Todros, e scavati nuovi pozzi fino alla profondità di centosessanta metri.

Delfino, probabilmente informato da parenti e paesani, ne venne a conoscenza e si candidò come minatore alla Società Vallalta, che accettò la sua richiesta. Delfino fu entusiasta di poter abbandonare le miniere di carbone in un Paese senza luce e di poter tornare al suo paese di origine, nella sua verde e soleggiata vallata, vicino ai propri cari.

Nelle miniere di Vallalta prestò servizio per alcuni anni tra il 1960 e il 1962. Si recava al lavoro a piedi, scendendo da casa sua giù per la valle fino alla California dove, insieme ai suoi compagni di turno, raggiungeva la miniera. Lavorava otto ore al giorno per sei giorni la settimana, forando la roccia, caricando l’esplosivo e facendolo brillare. Il mercurio si presentava allo stato liquido e in grande quantità.

Dopo la fase di ricerca e individuazione del minerale, si procedeva su altri settori, con altri scavi. Questa attività di ricerca avrebbe poi portato, nella seconda fase, alla produzione e coltivazione vera e propria.

Si creò un buon rapporto tra dirigenti e maestranze, senza scioperi e proteste e con una bassa incidenza di infortuni, nonostante il contesto lavorativo di particolare pericolosità. Nel gennaio del 1962, però, ecco i primi segnali di ciò che avrebbe posto fine ai sogni e alle aspettative: infiltrazioni d’acqua nelle gallerie che sembravano inizialmente di poco conto si rivelarono in poco tempo fatali.

Per l’intera comunità questa terribile sciagura rimase per molto tempo una ferita aperta.

Delfino raccontò che il pomeriggio del 19 gennaio, verso le 19:00, mentre stava per ultimare una fase del suo lavoro di perforazione, lui e il suo compagno di turno improvvisamente vennero investiti da un forte getto d’acqua che allagò velocemente la galleria.

A stento riuscirono a uscire e a dare l’allarme, ma nel frattempo tre colleghi erano scesi nel pozzo per il loro consueto turno di notte. La mattina seguente, alle 7:10, l’arganista Angelo Pollazzon, dopo aver sentito il segnale di salita, mise in azione l’argano che subito si bloccò.

Si sporse alla bocca del pozzo per capire la causa e rimase sconvolto da quanto vide: dal condotto, impetuosa, risaliva una colonna d’acqua. Rimase colpito e interdetto e, compresa la gravità della situazione, lanciò l’allarme. Nelle gallerie scavate in precedenza e non segnalate nelle mappe erano entrate copiose quantità d’acqua che avevano saturato gli spazi vuoti.

Con l’alta pressione creatasi, arrivò la rottura del sottile diaframma tra le vecchie coltivazioni e i nuovi avanzamenti e il conseguente allagamento dell’intera struttura. Per le maestranze in superficie furono momenti drammatici al pensiero dei tre sfortunati colleghi scesi la sera prima nel pozzo.

Il giovane perito minerario Vito De Cassan, di La Valle, e i minatori Bruno Bedont, di Tiser, e Antonio Carrera, di Carrera, si trovavano lungo il pozzo a centotrenta metri di profondità, senza alcuna via di fuga. Il loro destino era segnato.

Vani i tentativi di vigili del fuoco, militari, carabinieri e maestranze per portare loro soccorso. Solo dopo dieci giorni le salme vennero recuperate con grande difficoltà, dato il continuo innalzamento del livello dell’acqua.

Il 30 gennaio 1962, nella chiesetta di California, il vescovo Gioacchino Muccin celebrò il funerale e una folla immensa si strinse intorno a parenti e amici delle tre vittime. Per l’intera comunità questa terribile sciagura rimase per molto tempo una ferita aperta.

Inevitabilmente, il tragico evento rappresentò una battuta d’arresto per la società Vallalta, costretta ad abbandonare il progetto e a trovare nuovi siti minerari. Oltre al lutto, ci fu un impatto negativo per l’economia locale e per l’occupazione. Delfino e i suoi colleghi furono costretti a cercare un altro posto di lavoro nella vallata, oppure a emigrare.

Gli anni successivi furono caratterizzati da eventi naturali drammatici che sconvolsero e misero in ginocchio la provincia di Belluno e la vallata agordina. Nell’ottobre del 1963, l’immane tragedia del Vajont. Nel 1966, l’alluvione che interessò gran parte dell’Italia. Il 4 novembre del 1966, il colpo di grazia per la comunità di Gosaldo: la California fu spazzata via dalle acque impetuose dei due torrenti alla cui confluenza si trovava il paese.

La California e le miniere di Vallalta vennero negli anni dimenticate e del vecchio insediamento rimasero solo alcuni ruderi, via via fagocitati dalla vegetazione. La comunità seppe comunque reagire e trovare nuove idee ed energie per riprogrammare il futuro.

Ciò che rimane oggi del vecchio sito minerario di Vallalta

Delfino non abbandonò mai il suo paese e la sua casa natale e, per il forte attaccamento alle proprie radici, non emigrò più, trovando impiego nella Forestale. Gli anni passati in miniera insidiarono però il suo fisico. Si ammalò di silicosi, e fu costretto per anni a respirare a fatica e con l’ausilio dell’ossigeno.

Dopo tanta sofferenza, con il conforto della moglie e dei suoi cari, Delfino, detto Giando, esalò il suo ultimo respiro l’11 febbraio del 1993, all’età di 62 anni.

Le informazioni contenute in questa storia ci sono state gentilmente fornite da Barbara Bressan, figlia di Delfino.

Un futuro roseo

«Condizioni particolarmente vantaggiose vi sono offerte per il lavoro sotterraneo nelle miniere belghe. Approfittate degli speciali vantaggi che il Belgio accorda ai suoi minatori». 

Ad affabulare gli operai italiani non era uno scaltro commerciante deciso ad appioppare mercanzia di dubbia qualità, erano le parole stampate su un manifesto della Federazione Carbonifera Belga diventato famoso per il suo colore rosa. Un brigante di carta incollato sui muri di tutte le città e zeppo di slogan e promesse da far stropicciare gli occhi: «Carbone gratuito», «Biglietti ferroviari gratuiti», «Premio di natalità», «Ferie», «Alloggio». 

«Il viaggio dall’Italia al Belgio è completamente gratuito per i lavoratori italiani, firmatari di un contratto annuale di lavoro per le miniere. Dura in ferrovia solo 18 ore. Compiute le semplici formalità d’uso, la vostra famiglia potrà raggiungervi in Belgio». Come non accorrere, come non approfittarne! La realtà era ben diversa, ed era fatta di condizioni difficili, fatica, pericoli. 

C’è una data simbolo che contrassegna l’emigrazione italiana in Belgio, quella del 23 giugno 1946. È la data in cui viene siglato il “Protocollo italo-belga per il trasferimento di 50.000 minatori italiani in Belgio”. Un accordo ribattezzato anche “Uomini in cambio di carbone”. Gli uomini – duemila a settimana – li metteva l’Italia. Il Belgio forniva il carbone a prezzo agevolato.

Il contesto di questo scambio è quello disastroso, dal punto di vista materiale ed economico, dell’immediato secondo dopoguerra, con il nostro Paese sconfitto e bisognoso sia della materia prima (il carbone, appunto), sia di tamponare l’abbondante disoccupazione in patria. Bruxelles deve invece colmare il vuoto di manodopera lasciato nelle sue miniere dai prigionieri tedeschi rimpatriati dopo il conflitto. 

Per tenere fede al patto e garantire i contingenti di braccia promessi, lungo vie e piazze della Penisola inizia a comparire per l’appunto il famigerato “Manifesto rosa”, passato alla storia per il suo colore, ma soprattuto per la serie di annunci che, a suon di illusioni, stimolavano a trasferirsi in Belgio.

Già prima del “Protocollo” i nostri connazionali si erano diretti nel Pays Noir, impiegati assieme a polacchi, cecoslovacchi, russi e tedeschi nelle viscere della terra. Ma è dopo la firma dell’intesa che miniera e Belgio diventano, per gli italiani, elementi di un binomio inscindibile – fatto di duro lavoro, incidenti1, alloggi degradanti e silicosi – almeno fino alla fine degli anni Cinquanta.

A far calare nettamente i flussi saranno le conseguenze dirette e indirette del disastro di Marcinelle (8 agosto 1956), con le sue duecentosessantadue vittime, di cui centotrentasei italiane, morte a quasi mille metri di profondità a seguito di un incendio scatenatosi nella miniera del Bois du Cazier.

Dopo Marcinelle gli espatri calano, pur senza interrompersi. E gli italiani cominciano a inserirsi in settori diversi da quello minerario, con un buon numero di emigranti che decidono di stabilirsi definitivamente nel contesto di arrivo.

1 Tra il 1946 e il 1963 si contano 890 vittime italiane nelle miniere del Belgio.

Ottavio Romanel. Io, mancato “caregheta”

Cantiere in Nigeria, con la moglie e un dipendente locale
Cantiere in Nigeria, con la moglie e un dipendente locale

Mi chiamo Ottavio Romanel, sono nato a La Valle Agordina il 5 giugno 1935.e voglio raccontare la mia storia di mancato caregheta.
Figlio di careghete iniziai tale attività nel biennio 1949-50 in quel di Savona, dove mio padre aveva la zona di lavoro. Questo avvenne dopo aver frequentato l’avviamento professionale nella scuola di Agordo. Ma i tempi stavano cambiando e allora chiesi a mio padre di riprendere gli studi all’ITIM, Istituto Tecnico Industriale Minerario di Agordo.
Conseguii il diploma nel 1956 e a marzo del 1957 fui assunto dalla RAIBL, Società Mineraria di Cave del Predil, che estraeva i minerali di blenda e galena. In quel periodo la direzione tecnica era affidata alla Pertusola che sfruttava le miniere in Sardegna. Fui visionato ed assunto dall’Ing. Valdivieso, noto a noi studenti perché autore di una dissertazione riguardante la perforazione e le cariche di esplosivo inclusa nel “Gerbella”, la bibbia del perito minerario. Nel 1962 la concessione mineraria fu tolta alla Pertusola ed assegnata all’Amministrazione Società Stradale. Alla direzione della miniera arrivò l’Ing. Bonato, nostra conoscenza essendo stato insegnante all’ITIM di Agordo.

Alla fine del 1968 cambiò la mia storia: l’Ing. Bonato venne chiamato dal cognato Prof. Milli, nostro insegnante di geologia e mineralogia, per andare in Perù a risolvere certi problemi legati allo scavo di una galleria di 20 km per una centrale idroelettrica.

Milli, in qualità di consulente dell’Impregilo, chiese a Bonato di occuparsi della faccenda portandosi dietro dei tecnici minerari con le competenze necessarie ad affrontare la situazione. Io fui tra i prescelti e mi fu affidato l’incarico di scavare l’ultimo tratto della galleria, compreso il pozzo piezometrico e due camere di espansione. Dopo due anni di quel lavoro venni trasferito, sempre tramite l’Impregilo, in Colombia per i lavori di scavo del tunnel di deviazione ed altre gallerie inerenti alla costruzione di una diga sul fiume Chivor, nella zona smeraldifera a nord del Paese.
Alla fine del 1974 venni trasferito a Medellin, dove dovevo supervisionare lo scavo di una caverna sotterranea adiacente ad una centrale funzionante con quattro turbine. Naturalmente non si trattava di una cosa semplice e vennero ingaggiati dei tecnici svedesi della ditta Nitro Consult dai quali appresi le tecniche degli spari controllati. Alla fine del 1976 venni trasferito in Iran e fui addetto agli scavi del tunnel di deviazione per la costruzione di una diga in terra a nord di Teheran, vicino al Mar Caspio. A gennaio del 1977 fui trasferito in Nigeria con una società joint venture composta da Girola, Borini, Prono e il rappresentante nigeriano Hiconi. La ditta aveva in appalto la costruzione del ponte “Therih Milan”, in prossimità di Lagos. Io avevo l’incarico di Quarry Manager per lo scavo e la produzione degli inerti che servivano alla costruzione. Alla fine del 1979 fui trasferito in Argentina per la costruzione di una diga in terra nelle vicinanze di San Carlos de Bariloche. Ero addetto agli scavi di due tunnel di deviazione e a quelli inerenti le spalle della diga. A marzo del 1982, dopo una breve esperienza alle cave di marmo in Sicilia, trovai lavoro nelle gallerie autostradali della tratta Udine-Tarvisio fino a settembre del 1984 con la ditta Italstrade. Fui quindi trasferito a Napoli per la ristrutturazione della galleria Cumana, danneggiata dai bradisismi nella zona flegrea.

Miniera di Cave, con il collega Asquini sul filone mineralizzato di blenda
Miniera di Cave, con il collega Asquini sul filone mineralizzato di blenda

Alla fine del 1986 l’Impregilo mi richiamò per la costruzione di una nuova diga in Argentina, dove trovai impegnativo il lavoro di scavo di due gallerie nella zona alluvionale detta “il palecause” con una macchina tedesca del diametro di 5 m, detta “scudo”. Alla fine del 1987 mi ricercò l’Italstrade per inviarmi in Turchia per la costruzione di una diga in calcestruzzo arco e gravità alta 120 m simile a quella del Vajont. Rimasi fino al giugno del 1988, quando venni trasferito in Val d’Aosta per lo scavo di gallerie autostradali verso Courmayeur e verso il Gran San Bernardo con la mansione di direttore tecnico. Alla fine di quel periodo avevo maturato il diritto alla pensione, ma il Presidente Amato la bloccò per due anni. Dovetti preparare nuovamente le valigie e tramite l’Impregilo fui trasferito in Cile per lo scavo di un tunnel di desvio e di una caverna sotterranea per la costruzione di una centrale. Durante i miei trasferimenti sono sempre stato accompagnato dalla famiglia. Nel marzo del 1994 mi sono ritirato in pensione.