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Sebastiano Bellegante

di Luisa Carniel

Sebastiano Giovanni Bellegante, che nacque ai Giaroni di Fonzaso il 13 dicembre 1879, fu uno dei tanti fonzasini che intrapresero la via dell’America agli inizi del Novecento, consapevoli del grande sacrificio che sarebbe stato richiesto loro per le fatiche del mestiere che andavano a fare, oltre che per la lontananza dalla famiglia.

Nel novembre 1898 Sebastiano aveva sposato Fortunata Lira, anche lei originaria dei Giaroni, e nel maggio 1904 era nata la loro prima figlia, Fortunata Carmela. Quando la bambina aveva solo pochi mesi, Sebastiano lasciò la famiglia e assieme ad altri otto compaesani si imbarcò sulla nave Savoie per raggiungere l’Illinois, dove trovò impiego in una miniera di carbone.

Un anno dopo si spostò a Centerville, in Iowa, nelle cui miniere lavoravano moltissimi fonzasini attirati dalle buone paghe orarie garantite a coloro che provvedevano all’estrazione del carbone, combustibile molto richiesto all’epoca perché serviva per far funzionare la rete ferroviaria, oltre che per il riscaldamento domestico e per l’industria.

L’attività estrattiva continuò e assicurò il lavoro ai nostri emigranti per molti anni, fino a quando i treni cominciarono ad essere alimentati a diesel e le case a essere riscaldate con gas naturale. Nel 1906 la moglie Fortunata lo raggiunse in Iowa: aveva solo ventiquattro anni e lasciò a Fonzaso la piccola Carmela, affidata ai parenti.

Il ricongiungimento sarebbe avvenuto solo quattordici anni dopo! Sebastiano e Fortunata costruirono la propria abitazione a Bellair, nella contea di Appanoose, dove rimasero tutta la vita e dove diedero temporanea ospitalità ad amici e parenti italiani impiegati nelle miniere.

Durante uno dei suoi viaggi oltreoceano portò con sé la nipote Carmela affinché si riunisse ai genitori e ai fratelli, che non aveva mai conosciuto…

A Centerville era emigrato anche un fratello di Sebastiano, Guglielmo, che rimase anch’egli per sempre in terra americana. Nel 1912 Sebastiano ottenne la cittadinanza statunitense, la famiglia si era allargata ed erano già nati quattro figli, che diventarono in tutto dieci, quando nel 1921 nascerà l’ultimogenita, Rosa.

Sebastiano continuò il lavoro in miniera fino alla pensione e inoltre si impegnò nella locale sezione del sindacato per la tutela dei minatori di carbone. Alla sua morte, avvenuta nel 1955, lasciò la moglie, nove figli, ben trenta nipoti, oltre a sei bisnipoti.

Fortunata Lira (1882-1958), figlia di Antonio e Maddalena, non fu l’unica della famiglia ad emigrare oltreoceano: lo aveva fatto qualche anno prima di lei il fratello Antonio (1886), che purtroppo nel 1923 trovò la morte a Dawson, nel New Mexico, cittadina e miniera tristemente note per la grande sciagura del 1913, dove perirono quasi trecento uomini, tra cui due sovramontini.

Anche Giovanni Lira (1889-1960), fratello di Fortunata e Antonio, emigrò definitivamente in Iowa e durante uno dei suoi viaggi oltreoceano portò con sé la nipote Carmela affinché si riunisse ai genitori e ai fratelli, che non aveva mai conosciuto. Un anno dopo il suo arrivo a Bellair, la giovane convolò a nozze con Andrea Pescador (1897-1956), emigrante di Fonzaso.

Sebastiano e Fortunata



Sebastiano e Fortunata con i nove figli divenuti adulti
Documento identificativo di Sebastiano Bellegante, impiegato presso la compagnia mineraria Sunshine di Centerville, Iowa

Dalle radici italiane al sogno americano

di Lauren Phoebe

Mia madre nacque a Belluno nel 1920. In città ancora oggi vivono tre dei miei cugini. Quando era bambina, i miei nonni materni decisero di emigrare dall’Italia a Monterey, in California, a bordo della nave “Dante Alighieri”. Mio nonno, Sabino Toscan, nel 1918 aveva prestato servizio nel 7° reggimento Alpini. 

In questa nuova terra, i miei nonni aprirono un hotel e un ristorante, dove mia madre lavorò prima di sposare mio padre, un cittadino statunitense nato in una famiglia di immigrati dalle Azzorre. Io nacqui in California nel 1946. 

Durante gli anni universitari, quando studiavo Linguistica, iniziai a riscontrare difficoltà a superare gli esami. I medici mi sottoposero a diversi test, inclusi quelli per l’udito, ma tutto risultava nella norma. Successivamente, un gruppo di esperti linguistici volle esaminare la mia competenza nella lingua parlata, convinti che non fossi di madrelingua inglese. 

Chiesi a mia madre quale fosse stata la mia prima lingua e lei rispose che era l’inglese. Gli esperti, tuttavia, mi suggerirono di chiedere a mia madre quale lingua usasse con me prima che imparassi a parlare. Ricordo ancora la sua risata quando mi rispose: «Parlavo italiano, naturalmente, perché tu non sapevi ancora parlare!». 

Così scoprii che il mio cervello era programmato in italiano: avevo imparato a comprendere e ascoltare l’italiano, ma quando iniziai a parlare, mia madre passò all’inglese. Mi spiegò che voleva che crescessi come un’americana, per evitarmi le difficoltà che lei stessa aveva incontrato quando iniziò la scuola senza conoscere l’inglese. 

Nonostante i miei sforzi, dovetti abbandonare il master perché era riservato esclusivamente a madrelingua inglesi. Solo in seguito mi resi conto che i miei nonni parlavano un inglese stentato, qualcosa che capii solo quando incontrarono mio marito americano. Lui mi disse chiaramente che non capiva nulla di ciò che dicevano. Fino a quel momento, avevo sempre pensato che parlassero semplicemente a modo loro. 

Nonostante la distanza, mia madre mantenne sempre vive le tradizioni italiane. Amava cucinare deliziosi piatti italiani come la polenta, e adorava la musica italiana, cantando e ascoltando dischi d’opera. 

Penso che l’Italia le sia sempre mancata, ed è per questo che mi sento a casa ogni volta che vi torno.

La cucina di mamma era amata da tutti: polenta, pasta e baccalà erano sempre accompagnati da formaggi prelibati, pane francese e frutta per dessert. 

Ricordo ancora la sorpresa di mio marito americano durante il nostro primo pranzo domenicale insieme. Avevo servito la pasta come primo piatto, seguita da una portata principale. Mi spiegò che negli Stati Uniti la pasta era considerata un piatto unico e che non si usava servirla insieme ad altri piatti nello stesso pasto. 

Durante la Seconda guerra mondiale, il governo statunitense confiscò la radio di mia madre. Deve essersi spaventata per quell’episodio perché ricordo ancora la sua preoccupazione anche in seguito: una volta mi ordinò di non dire nulla, se qualcuno fosse venuto a fare domande sulla nostra famiglia, e di chiamarla immediatamente. 

Non mi sono mai sentita pienamente cittadina statunitense; il mio cuore ha sempre battuto per l’Europa, e sognavo di tornare a vivere lì. Oggi vivo in Francia, ho imparato il francese e sto riscoprendo l’italiano. 

Avrei voluto ottenere la cittadinanza italiana, ma essendo nata prima del 1948, non posso rivendicarla tramite mia madre. Mia madre, infatti, dovette rinunciare alla cittadinanza italiana quando sposò mio padre, prima che io nascessi, a causa delle leggi di allora che vietavano la doppia cittadinanza. 

Penso che l’Italia le sia sempre mancata, ed è per questo che mi sento a casa ogni volta che vi torno. Anche se ora vivo in Francia, una parte di me sarà sempre legata all’Italia. 

Oggi sono un pastore interreligioso e una scrittrice di libri sul pensiero positivo. Ho avuto una carriera variegata: sono stata insegnante di inglese, avvocata di diritto di famiglia e direttrice di un centro per bambini malati. 

Mio fratello ha avuto successo nel campo dell’economia, e le mie nipoti hanno seguito strade diverse, diventando avvocata, terapista e professoressa in un junior college. 

I nonni
La nonna
La mamma
La nonna e la mamma

La Società Veneta di Mutuo Soccorso di Manor

Manor, Pennsylvania, Stati Uniti d’America. Numerosi gli emigranti veneti giunti dall’altra parte dell’oceano tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, tanto da dar vita a una “Società Veneta di Mutuo Soccorso”1.

Veneta ma aperta a «Qualunque lavoratore che parli la lingua Italiana», come si evince dall’articolo 7 dello Statuto approvato il 31 maggio del 1908.

Scopo del sodalizio, il sostegno e la solidarietà tra gli associati. L’articolo 17 recitava: «In caso di malattia del socio la Società è obbligata di versare al socio il sussidio legale di 5 dollari la settimana, purché egli sia in piena regola con l’amministrazione per il periodo di 9 mesi. Passati i tre mesi e continuando la malattia, il socio avrà per altri 3 mesi mezzo sussidio ($2.50). Qualora il malato non guarisse l’assemblea deciderà che cosa deve fare la Società per il socio infermo».

Ancora – articolo 25 – «Qualora un membro fosse in prigione per ragioni non disonoranti, egli avrà la protezione e sarà difeso dalla Società».

Articolo 30: «Non appena giunge alla Società la notizia che uno dei membri è morto, il Presidente, il Segretario di Archivio ed il Consiglio debbono espletare i preliminari necessari per i funerali».

Articolo 32: «Qualora un socio morisse in seguito a disgrazia nella mina o in seguito a malattia è fatto obbligo ad ogni socio della Società di versare un dollaro alla famiglia dell’estinto».

L’associazione – dotata, tra i suoi organi amministrativi, di un “Comitato d’Investigazione” chiamato a discutere l’ammissione degli aspiranti soci – aveva inoltre stabilito regole piuttosto rigide sul comportamento che i membri dovevano tenere. L’obiettivo era rispettare quanto prefissato dall’articolo 3 dello Statuto: «Questa Società ha per principii fondamentali Libertà, Fratellanza, Uguaglianza e Buoni Cittadini per membri».

L’articolo 18, per esempio, proibiva severamente ai soci ammalati «di recarsi nei Bars o dovunque per bere sostanze spiritose».

L’articolo 19, invece, stabiliva l’impossibilità di ricevere sussidi per i membri «affetti da mali venerei», per quelli «che riportassero ferite in rissa» (salvo la dimostrazione di aver agito per legittima difesa), o «che fossero ammalati per abuso di liquori».

Il 35 vietava «le sostanze di natura alcoolica, apportatrici di ebbrezza, nella Sala di riunione, nelle stanze, o nei locali appartenenti alla Società».

Il successivo articolo 36 precisava: «Se un membro o dei membri portano bevande che possono ubbriacare nella Sala di riunione, nelle stanze o nei locali appartenenti alla Società e dispongono della stessa per vendita od altro, avranno inflitta la punizione dell’espulsione nel modo all’uopo previsto».

Nelle pagine di chiusura, lo Statuto riportava i soci fondatori. Un elenco dal quale risultano molti cognomi di emigrati bellunesi.

Documento gentilmente concesso da Tarcisio Bombassaro

1 Fondata ufficialmente il 18 febbraio 1908.

Un cadorino pioniere di Loretto, Michigan

di Luisa Carniel

Giuseppe Andrea Marinello, i cui genitori Antonio e Maria Antonia Agnoli erano originari di Valle di Cadore, nacque a Fiume nel 1868, proprio nell’anno in cui venne firmato l’accordo croato-ungherese secondo il quale la città istriana tornava sotto il controllo dell’Ungheria, divenendone così il principale emporio marittimo e portuale. 

Giuseppe prese fin da giovane la strada dell’emigrazione, che lo portò in Sud America e successivamente in Messico. Nel 1892 sposò, a Venas, Angela Gei, dopo di che partì per gli Stati Uniti, dirigendosi nel Michigan, dove divenne ben presto caposquadra della vecchia miniera di Loretto, nella contea di Dickinson. Si trattava di una miniera, ora non più aperta, che faceva parte dell’importante distretto minerario del ferro della zona di Vulcan. 

Giuseppe Marinello è considerato uno dei pionieri della zona di Loretto, dove rimase più di cinquant’anni, riuscendo a inserirsi molto bene nella società civile ed entrando a far parte di diverse associazioni. Stabilì una particolare amicizia con altri due emigranti italiani, tali Domenico Girardi e Fortunato Cristianelli, che si consideravano “compari” e che divennero padrini l’uno dei figli degli altri. 

La moglie Angela, classe 1865, dopo aver dato alla luce la loro prima figlia in Cadore (Maria, 1893-1978), emigrò anche lei a Loretto, dove nacque la secondogenita Pierina (1895-1958). 

Seguì un rientro temporaneo a Venas, dove nel 1897 nacque l’unico figlio maschio della coppia, Amedeo Giacomo, e un anno dopo ripartirono tutti per il Michigan, riunendosi così nuovamente al padre. L’anno seguente venne alla luce la piccola Olga (1899-1980) e nel 1904 fu la volta di Angela che, preso il nome della madre morta presumibilmente di parto, morì anch’essa nel settembre dello stesso anno, pare di colera. 

Successivamente Giuseppe si concesse un periodo di ritorno in Cadore che durò circa tre mesi.

A un anno di distanza dalla morte della moglie, Giuseppe si risposò con la vedova Maria Fedrizzi, con la quale ebbe altri sei figli. Diventarono un’unica grande famiglia alla quale Giuseppe fu in grado di assicurare una certa tranquillità economica.

Il capofamiglia morì nel 1944, quando l’ultimogenito Fred era di stanza in Corsica, impegnato nel secondo conflitto mondiale. Venne sepolto nel cimitero di Norway, poco distante da Loretto. 

Nel 1919 Olga e Amedeo aprirono la Marinello Grocery, un’importante attività commerciale della città di Caspian, sempre nella contea di Dickinson: un grande magazzino che fu attivo fino al 1961. 

Giuseppe Marinello posa con la moglie Angela e i figli Amedeo, Maria, Pierina e Olga.

Fiamme nella notte

Nella storia del lavoro negli Stati Uniti, pochi eventi hanno avuto un impatto significativo quanto l’incendio della fabbrica Triangle Shirtwaist, avvenuto il 25 marzo 1911 a New York. 

Da un lato la tragedia colpì duramente la comunità italiana immigrata, evidenziando le difficili condizioni di lavoro e le sfide che gli italiani affrontavano nell’America del tempo.

Dall’altro, segnò un momento cruciale, generando un’immediata risposta sociale e politica e portando a cambiamenti legislativi che avrebbero plasmato il futuro del lavoro nel Paese. 

La Triangle Shirtwaist Company era una fabbrica di abbigliamento situata nell’edificio Asch, al 23-29 di Washington Place, nel quartiere di Greenwich Village, a Manhattan. Impiegava principalmente giovani donne immigrate, italiane ed ebree dell’Europa orientale, spesso provenienti da famiglie disagiate. 

Il 25 marzo 1911, un incendio divampò nella fabbrica, causando la morte di 146 lavoratori e il ferimento di 71 persone, la maggior parte giovani donne. Le condizioni di lavoro precarie e la mancanza di misure di sicurezza nell’edificio contribuirono alla tragedia.

Le porte delle uscite di emergenza erano bloccate o chiuse per impedire ai lavoratori di fare pause non autorizzate o di rubare. Per questo motivo, diversi operai rimasero intrappolati all’interno dell’edificio in fiamme. Alcuni cercarono di fuggire gettandosi dalle finestre, molte delle quali troppo alte, con le reti di sicurezza che cedettero sotto il peso delle persone.

Il rogo scosse l’opinione pubblica e diffuse un’ondata di indignazione e proteste. Le indagini rivelarono gravi negligenze da parte dei proprietari della fabbrica, tra cui la mancanza di precauzioni antincendio e – appunto – la pratica di bloccare le vie di fuga.

Da questa catastrofe, tuttavia, ebbe avvio un processo di riforme legislative volte a migliorare le condizioni di lavoro e di sicurezza nelle fabbriche. 

Nel 1911, New York approvò nuove leggi che obbligavano le imprese a seguire rigide norme antincendio e ad assicurare la disponibilità di vie d’uscita libere in caso di emergenza. 

L’evento rafforzò inoltre il movimento sindacale, portando alla nascita di organizzazioni più forti e influenti. Ecco perché l’incendio della Triangle Shirtwaist è considerato un punto di svolta nel movimento operaio americano.