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Un cadorino pioniere di Loretto, Michigan

di Luisa Carniel

Giuseppe Andrea Marinello, i cui genitori Antonio e Maria Antonia Agnoli erano originari di Valle di Cadore, nacque a Fiume nel 1868, proprio nell’anno in cui venne firmato l’accordo croato-ungherese secondo il quale la città istriana tornava sotto il controllo dell’Ungheria, divenendone così il principale emporio marittimo e portuale. 

Giuseppe prese fin da giovane la strada dell’emigrazione, che lo portò in Sud America e successivamente in Messico. Nel 1892 sposò, a Venas, Angela Gei, dopo di che partì per gli Stati Uniti, dirigendosi nel Michigan, dove divenne ben presto caposquadra della vecchia miniera di Loretto, nella contea di Dickinson. Si trattava di una miniera, ora non più aperta, che faceva parte dell’importante distretto minerario del ferro della zona di Vulcan. 

Giuseppe Marinello è considerato uno dei pionieri della zona di Loretto, dove rimase più di cinquant’anni, riuscendo a inserirsi molto bene nella società civile ed entrando a far parte di diverse associazioni. Stabilì una particolare amicizia con altri due emigranti italiani, tali Domenico Girardi e Fortunato Cristianelli, che si consideravano “compari” e che divennero padrini l’uno dei figli degli altri. 

La moglie Angela, classe 1865, dopo aver dato alla luce la loro prima figlia in Cadore (Maria, 1893-1978), emigrò anche lei a Loretto, dove nacque la secondogenita Pierina (1895-1958). 

Seguì un rientro temporaneo a Venas, dove nel 1897 nacque l’unico figlio maschio della coppia, Amedeo Giacomo, e un anno dopo ripartirono tutti per il Michigan, riunendosi così nuovamente al padre. L’anno seguente venne alla luce la piccola Olga (1899-1980) e nel 1904 fu la volta di Angela che, preso il nome della madre morta presumibilmente di parto, morì anch’essa nel settembre dello stesso anno, pare di colera. 

Successivamente Giuseppe si concesse un periodo di ritorno in Cadore che durò circa tre mesi.

A un anno di distanza dalla morte della moglie, Giuseppe si risposò con la vedova Maria Fedrizzi, con la quale ebbe altri sei figli. Diventarono un’unica grande famiglia alla quale Giuseppe fu in grado di assicurare una certa tranquillità economica.

Il capofamiglia morì nel 1944, quando l’ultimogenito Fred era di stanza in Corsica, impegnato nel secondo conflitto mondiale. Venne sepolto nel cimitero di Norway, poco distante da Loretto. 

Nel 1919 Olga e Amedeo aprirono la Marinello Grocery, un’importante attività commerciale della città di Caspian, sempre nella contea di Dickinson: un grande magazzino che fu attivo fino al 1961. 

Giuseppe Marinello posa con la moglie Angela e i figli Amedeo, Maria, Pierina e Olga.

Di qua e di là dell’oceano

di Luisa Carniel

Giacomo Cassol nacque a Pullir di Cesiomaggiore il 18 giugno 1879, figlio di Felice e Teresa Perenzin. Verso la fine dell’Ottocento, la famiglia Cassol si trasferì nel paese di Rasai di Seren del Grappa, dove erano mezzadri; qui Giacomo conobbe Maria Domenica Corso, che sposò nel 1900. Maria era nata a Rasai il 24 febbraio 1882 e, avendo perso ambedue i genitori quando ancora era piccolissima, era stata cresciuta da una zia.

Fu Giovanni, classe 1869 e fratello maggiore di Giacomo, ad aprire la strada per gli Stati Uniti e lo fece già nel 1903, dirigendosi, assieme ad un nutrito gruppo di serenesi, a Pocahontas, West Virginia. L’anno seguente, a tre mesi di distanza l’uno dall’altro, emigrarono prima il fratello Giuseppe, nato nel 1874, e poi Giacomo, che lasciò a Rasai la moglie Maria con i tre figli, Giacomina, Antonio e Angelina. Giacomo trovò lavoro nella costruzione della ferrovia, sempre nello Stato della West Virginia e due anni dopo la moglie lo raggiunse, portando con sé la primogenita.

Vivevano in una delle baracche messe a disposizione dalle ferrovie e, per aumentare le entrate della famiglia, Maria gestiva una taverna, dove la sera faceva la cena agli operai senza famiglia al seguito, aiutata nel servizio dalla piccola Giacomina. In America nacquero altri due figli: Virginia, che deve il suo nome allo Stato che accolse i genitori, e Quinto, nato nel 1910 a Nolansburg, nel Kentucky dove si erano trasferiti.

Due anni più tardi tutta la famiglia ritornò in Italia, dove rimase però per soli due anni, perché fu di ritorno – ancora nel Kentucky – qualche mese prima dello scoppio della Grande Guerra. Nel frattempo, nel 1913 era nato Vittorio e subito dopo la madre era andata a fare la balia da latte a Milano, lasciando il piccolo presso una famiglia di Porcen. Nel 1916, in terra americana nacque Pietro e due anni dopo la famiglia rientrò definitivamente a Rasai, dove venne alla luce l’ottavo e ultimo figlio, Roberto. 

Giacomo Cassol successivamente emigrò in Libia con il figlio maggiore, entrambi furono impiegati nell’edilizia; Giacomo morì nel 1933. La moglie Maria, rimasta vedova a soli cinquant’anni, si trasferì allora a Milano per riprendere il lavoro di balia, questa volta asciutta, rimanendo nella città meneghina per più di vent’anni e facendo crescere diversi rampolli della buona società milanese; morì a Rasai all’età di settantadue anni. 

Quinto Cassol, figlio di Giacomo e Maria, ritornò a Berkley, Virginia, nel 1929; sposò una certa Helen e per molti anni non diede notizie di sé alla famiglia. 

Giacomina Cassol, primogenita di Giacomo e Maria, in Virginia conobbe Pietro Peraldo, un ingegnere originario di Biella, che sposò giovanissima e al quale diede tre figli. Il rapporto non durò molto e nel 1925 Giacomina rientrò in Italia, portando con sé i figli; si stabilì a Roma, dove faceva l’interprete.

Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, non volendo che i figli vi partecipassero, mandò i due maschi, Dante e William, dal padre in Virginia. La cattiva sorte, però, spezzò presto le loro vite: il più giovane morì per un’intossicazione alimentare mentre l’altro, William, fu vittima di un attentato a Berlino nel 1948; è sepolto nel cimitero di Arlington e gli è stata conferita una medaglia per meriti di guerra.

Pietro Cassol, penultimo figlio di Giacomo e Maria, emigrò definitivamente in Francia, mentre il fratello Roberto nel 1941 partì volontario per la campagna di Russia, morendovi però due anni più tardi.

L’emigrazione caratterizzò anche i numerosi nipoti di Giacomo e Maria, tra cui Elena: ma questa sarà un’altra storia da raccontare.

West Virginia, la famiglia Cassol.
Maria Corso, balia a Milano, assieme alla famiglia Brambilla, presso la quale lavorava.

Il massacro di Ludlow

I never will forget the look on the faces / Of the men and women that awful day / When we stood around to preach their funerals / And lay the corpses of the dead away. “Non dimenticherò mai lo sguardo sui volti / Degli uomini e delle donne quel terribile giorno / Quando ci fermammo a predicare i loro funerali / E deponemmo i cadaveri dei morti”.

È un verso della canzone Ludlow Massacre, di Woody Guthrie, canzone che ricorda il massacro di Ludlow, in Colorado, avvenuto il 20 aprile del 1914. 

It was early springtime when the strike was on, cantava Guthrie. “Era inizio primavera quando lo sciopero era in corso”. They drove us miners out of doors / Out from the houses that the Company owned, “Hanno cacciato noi minatori fuori di casa / Fuori dalle case che la Compagnia possedeva”, We moved into tents up at old Ludlow, “Ci siamo trasferiti nelle tende nella vecchia Ludlow”.

Lo scenario è questo. I minatori di Ludlow sono in sciopero. Protestano per il trattamento riservato loro dai proprietari delle miniere e dalle loro guardie private, e soprattutto per la situazione di insicurezza nella quale sono costretti a lavorare. 

… le famiglie dei lavoratori erano state sloggiate dalle case dove abitavano, di proprietà delle compagnie minerarie. Si erano rifugiate in un accampamento nonostante le temperature rigide…

«Agli inizi del Novecento – scrive Enzo Caffarelli nel Dizionario enciclopedico della migrazioni italiane nel mondo – il tasso di incidenti mortali nelle miniere del Colorado era circa il doppio della media nazionale». 

Le proteste dei lavoratori vengono represse con i metodi più brutali. Ed è così che avviene il tragico episodio ricordato nella canzone. «A causa dello sciopero – ricorda ancora Caffarelli – le famiglie dei lavoratori erano state sloggiate dalle case dove abitavano, di proprietà delle compagnie minerarie. Si erano rifugiate in un accampamento nonostante le temperature rigide, su un terreno pubblico coperto dalla neve». 

Ai proprietari (guidati dalla Colorado Fuel and Iron Company), però, non bastava aver lasciato i dipendenti in mezzo a una strada. «Con un attacco ben organizzato – riporta Caffarelli – le guardie spararono sull’accampamento e poi gli diedero fuoco, provocando la morte di venti persone, di cui dodici fra donne e bambini. I lavoratori in sciopero erano italiani, greci, slavi e messicani. Tra i cognomi italiani delle vittime: Bartolotti, Pedregon, Petrucci, Rubino». 

Nei giorni successivi, altre persone coinvolte nelle proteste furono sequestrate e assassinate.

We took some cement and walled that cave up / Where you killed these thirteen children inside / I said, “God bless the Mine Workers’ Union,” / And then I hung my head and cried. “Abbiamo preso del cemento e murato quella caverna / Dove sono stati uccisi quei bambini / Ho detto: “Dio benedica il sindacato dei minatori” / Poi ho abbassato la testa e ho pianto”.

Monumento eretto dalla United Mine Workers of America.
(By M. W.; derivative work: Ori.livneh – Ludlow_monument_2.jpg; original source: ludlow monument 2 in Flickr, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=10112105)

Un’avventura americana

I fratelli Celeste e Pietro Lorenzini costruirono la loro casa a Selva di Cadore nel 1904. Dopodiché, per guadagnare il denaro necessario a pagare le spese, decisero di partire per l’America. Il piroscafo sul quale viaggiarono li condusse a New York, dove una volta sbarcati ebbero modo di trovare solamente qualche lavoro precario, che non permetteva tuttavia di risparmiare denaro a sufficienza per il loro scopo. Per questo motivo, un giorno, scorto un manifesto in lingua italiana sul quale era scritto: «Si cercano operai italiani per la Florida», deciso di lasciare New York e partire per la loro nuova meta, attratti dalle possibilità che il manifesto sembrava offrire.

Dopo tre giorni in nave e uno in treno, giunsero sulla punta della Florida, nei pressi del Mar dei Caraibi, dove li accolse un’amara sorpresa: il lavoro in cui vennero impiegati era pressoché in condizioni di schiavitù, per questo decisero di fuggire. Attraversarono la punta della Florida a piedi e arrivarono fino a Miami, nelle vicinanze di un villaggio di pescatori. Qui scoprirono che lo Stato forniva gratuitamente degli appezzamenti di terra, i quali, una volta recintati e lavorati per tre anni, diventavano di proprietà dei coltivatori.

Con un asino e dei lavoratori neri, iniziarono a coltivare fragole. Non passò molto prima che la zona venisse “scoperta” dalla gente degli stati del Nord, e infatti di lì a poco un industriale si accinse a costruire in quell’area un albergo. Celeste e Pietro vennero così assunti come falegnami.

Con il trascorrere degli anni iniziarono a raggiungerli in America gli altri familiari, eccetto la prima moglie di Pietro, che all’epoca era incinta. La donna morì di parto e così Pietro, seguito dagli altri parenti, fu costretto a tornare in Italia, e a rinunciare quindi alla proprietà del grande terreno al centro dell’attuale Miami.

Serena Bassot

Miami, 1904. Da sinistra, Celeste e Pietro Lorenzini (i due fratelli) e il loro cognato Ermenegildo Lorenzini.

Attilio De Marco di Seren del Grappa

Thurber, 1916. Attilio De Marco, al centro con il mandolino, assieme ad alcuni amici e colleghi
Thurber, 1916. Attilio De Marco, al centro con il mandolino,
assieme ad alcuni amici e colleghi

Mio nonno, Attilio De Marco, nato a Seren del Grappa, proveniva da una famiglia di buon livello culturale ed economico che però non aveva saputo gestire le risorse né capire il cambiamento sociale in atto. Per non perdere il benessere assaporato nell’infanzia si tuffa neII’avventura dell’emigrazione. Sarà ripagato con la realizzazione del suo sogno: una piccola proprietà agricola a Feltre.

Tramite conoscenti trova lavoro in una miniera di carbone: lavoropesante, pericoloso per i crolli e per gli scoppi da gas grisù. Siamo negli anni ‘10 del Novecento in America, nella città di Thurber, stato del Texas, sede della compagnia mineraria TexasPacific & Oil Company, per la quale mio nonno lavora per otto anni consecutivi tra il 1910 e il 1918. Le condizioni di lavoro sono decisamente migliorate rispetto alla fine dell’Ottocento e gli orari più ragionevoli.

Trova vitto e alloggio presso una “Farma” gestita da una famiglia toscana: sicuramente una situazione di privilegio rispetto a quanti vivono in dormitori sovraffollati.

Nel tempo libero, con amici si dedica alla caccia, alla pesca, alla musica. Quest’ultima ha anche una funzione socializzatrice e lontano da casa è più che mai importante.

Dalle foto traspare una grande classe e perfino eleganza nel gruppo. Porterà con sé in Italia la chitarra ed il mandolino che conserviamo con cura. Non conosciamo purtroppo le musiche che venivano eseguite. Si presume fossero canzoni napoletane, canti popolari, mazurke e qualche aria d’opera. Tutto aiutava a sentire vicine Patria e famiglia, a superare la malinconia e l’isolamento, a rallegrare la compagnia. La guerra mondiale li coglie all’estero. Alcuni devono interrompere il loro sogno e tornare in Italia ad arruolarsi e combattere; altri vengono ingaggiati nelle fabbriche d’armi nel paese in cui si trovano e non combattono. Mio nonno Attilio è tra questi ultimi.

Torna in patria con il vapore Regina d’Italia, scalo Azzorre e Gibilterra, velocità 143 miglia all’ora, durata del viaggio 14 giorni, il 3 settembre 1919.

Giovanna De Marco

Thurber, 1916. Attilio De Marco è quello seduto a sinistra
Thurber, 1916. Attilio De Marco è quello seduto a sinistra