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I colori della nostra primavera

Verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni. È il tricolore italiano, la bandiera della Repubblica, come sancito dall’articolo 12 della nostra Costituzione. Un simbolo che, soprattutto per i milioni di connazionali sparsi in giro per il mondo, richiama immediatamente l’idea di appartenenza, il concetto di casa. 

Il “nostro” tricolore nacque ai tempi della Campagna d’Italia di Napoleone (1796-1797) con il blu del vessillo d’oltralpe che fu sostituito dal verde. Sebbene i tre colori non avessero un significato specifico, ad essi fu attribuito presto un valore simbolico: il verde rappresentava la speranza di un’Italia liberata e unificata, il bianco la fede nel raggiungimento dell’obiettivo indipendentista e il rosso l’amore e il sangue versato per la libertà.

I tre colori fecero la loro comparsa nella bandiera della Repubblica Cispadana (1796-1797) e successivamente in quella della Repubblica Cisalpina (1797-1802). Inizialmente la disposizione delle bande era orizzontale. Dall’11 marzo 1798 un decreto della Repubblica Cisalpina ne stabilì la disposizione verticale.

«Abbracciate questa bandiera tricolore che pel valor vostro sventola sul Paese e giurate di non lasciarvela strappare mai più».

Cinquant’anni più tardi, nel marzo del 1848, dopo le famose Cinque giornate di Milano (peraltro caratterizzate da una notevole presenza di bandiere e coccarde tricolori) e l’abbandono della città da parte delle truppe austriache, il 22 marzo il Governo provvisorio appena insediatosi emise un proclama che affermava: «Facciamola finita una volta con qualunque dominazione straniera in Italia. Abbracciate questa bandiera tricolore che pel valor vostro sventola sul Paese e giurate di non lasciarvela strappare mai più».

Il giorno seguente, 23 marzo 1848, dichiarata la Prima Guerra d’Indipendenza all’Austria-Ungheria, Carlo Alberto re di Sardegna proclamò il tricolore, con al centro l’emblema dei Savoia, bandiera ufficiale del suo Stato. Essa fu mantenuta dalla legge n° 4671 del 17 marzo 1861 che proclamò il Regno d’Italia.

Lo stemma di casa Savoia sparì dopo il referendum del 2 giugno 1946 che sancì la caduta della monarchia e la nascita della Repubblica. La nuova nazione italiana adottò il tricolore tramite il decreto legislativo del Presidente della Repubblica del 19 giugno 1946, atto confermato dall’Assemblea Costituente il 24 marzo 1947 con l’inserimento del citato articolo 12 nella Carta costituzionale: «La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni».

Urussanga

Gli emigranti del Longaronese, assieme ad altri delle zone circostanti, hanno dato i natali al comune di Urussanga, nello stato di Santa Catarina, in Brasile, nel lontano 1878 (la data ufficiale è il 26 maggio 1878). Vi giunsero dopo un esodo difficile e penoso, con un lungo trasferimento in Europa fino al porto d’imbarco ed una traversata in mare durata una quarantina di giorni fino alle coste brasiliane. 

Famiglie intere lasciarono i nostri paesi, fuggendo anni di fame e privazioni dovute a una terra arida di risorse e a una situazione politico-economica in lento sviluppo, ma lontana da un esito di sicurezza e stabilità. Essi furono indirizzati dalle autorità brasiliane in una zona lottizzata già dal 1877 dall’ing. Joaquim Vieira Ferreira alla confluenza tra il rio America e il rio Urussanga.

Sorsero così Urussanga Sede (attuale città), Rancho dos Bugres (quattordici famiglie), Rio Maior (diciannove, in massima parte oriunde da Casso), Linha Rio Maior (sei) e São Pedro (dieci). In Urussanga Sede rimasero le famiglie di Pietro Bez Batti, Giovanni Damian, Bonaventura De Bona, Francesco, Domenico e Jacintho De Bridda e Antonio De Cesero.

Durante anni di duro lavoro e sacrifici, la zona è stata trasformata da foresta e boscaglie in fertili campagne ove primeggia la coltivazione della vite (Urussanga è considerata la patria del buon vino). 

Il popolo di Urussanga realizza diverse feste durante l’anno, che attraggono visitatori da tutta la regione. La più tradizionale è la Festa del Vino, realizzata negli anni pari e sempre nella prima quindicina del mese di agosto. Negli anni dispari c’è la Festa del Ritorno alle Origini, sempre nell’ultima settimana di maggio, clou della festa il giorno 26 che è la data di fondazione del comune.

In questa stessa data si commemora lo scambio socio-culturale ed economico (gemellaggio) con Longarone. La comunità dimostra sempre più la coscienza dell’importanza di preservare le sue origini etniche tradizionali, contribuendo significativamente con le manifestazioni culturali promosse dalle numerose associazioni italo-brasiliane nel comune.

(Testo tratto da Longarone Urussanga, gemellaggio; a cura di Arrigo Galli, 2011)

Famiglia Fontanella, emigrati da Longarone a Urussanga. In piedi, da sinistra: Ângelo, Egídio, Isidoro, Jacomo, Hercílio, Adelino, Enrico. Seduti, da sinistra: Elvira, Helena, Joana, João Battista, Maria Bez Fontana Fontanella, Hermínia, Henriqueta.
(Per gentile concessione di Fernando Luigi Padoin Fontanella)

Un tetto alle migrazioni

Chiudere la frontiera a soggetti “indesiderati”. E preservare «l’omogeneità culturale e razziale della popolazione americana». Era l’obiettivo dell’Emergency Quota Act, una legge federale statunitense introdotta il 19 maggio 1921 per limitare gli ingressi nel Paese di emigranti provenienti dall’Europa.

Una norma che, come si evince dal nome, nacque da una situazione di emergenza (vera o presunta) provocata dal crescente approdo in terra americana di persone in fuga dalle difficoltà economiche di un’Europa risvegliatasi a pezzi dall’incubo della Prima guerra mondiale.

In realtà il dibattito da cui prese spunto il “Quota Act” era in corso già da tempo e si basava sulla convinzione che una completa integrazione da parte di migranti provenienti da contesti non anglosassoni fosse impossibile. Da qui la necessità (ancora una volta, vera o presunta) di restringere i flussi soprattutto dall’area mediterranea del Vecchio continente. 

Prima della legge del 19 maggio 1921, un provvedimento analogo era stato assunto nel 1917: l’Immigration Act, che aveva introdotto un test d’ingresso – il Literacy Test – con cui verificare il possesso di requisiti minimi di alfabetizzazione per ottenere il visto d’ingresso negli Stati Uniti. 

Il Quota Act del ’21 stabilì una tetto massimo agli arrivi negli States, un contingente annuo calcolato in base alla quota del 3% di ciascuna nazionalità già presente nel Paese. 

L’applicazione pratica consentì la migrazione in America, nel 1922 – primo anno di effettiva validità -, a 357.000 persone, di cui circa 175.000 di origine nord europea o anglosassone, e circa altrettante dall’Europa meridionale, con una netta diminuzione (voluta) rispetto ai dati degli anni precedenti, quando la media di arrivi era di circa 600.000 emigranti.

Ancora più restrittivo il successivo National Origins Act del 1924, che portò le quote di ingresso dal 3 al 2%.

Gli effetti sugli italiani furono numericamente molto evidenti. Il Quota Act aveva ammesso circa 42 mila italiani. Con il National Origins il loro numero non andò oltre i 5.500. 

Nel 1927 un’ulteriore modifica al ribasso, che portò a 150.000 gli ingressi complessivi, favorendo quasi esclusivamente britannici, irlandesi e tedeschi.

Informazioni tratte da Dizionario enciclopedico delle migrazioni italiane nel mondo.

Sbarco a Ellis Island
Fonte: commons.wikimedia.org

Buon compleanno MiM

Quanti sono gli italiani emigrati nel secolo scorso? Perché sono emigrati? Quali sono le caratteristiche dell’emigrazione bellunese? Quali sono le aspirazioni delle migliaia di giovani che ancora oggi continuano a cercare opportunità all’estero? Come vivono e come si trovano gli immigrati che attualmente arrivano nel nostro Paese?

A tutte queste domande cerca di rispondere il MiM Belluno, il museo interattivo delle migrazioni, un museo che in modo non convenzionale apre una finestra sul mondo delle migrazioni. Quelle storiche, e quelle dei giorni nostri. Per comprendere in modo obiettivo i tanti perché di un fenomeno universale e perpetuo, che da sempre fa parte della storia dell’umanità e che sta segnando in modo profondo l’attualità.

Il Museo è organizzato in forma multimediale, con pannelli esplicativi, fotografie, filmati e numerose video interviste ai protagonisti delle vicende dell’emigrazione e dell’immigrazione. Oltre alle visite “classiche”, il museo propone anche due percorsi (30 e 60 minuti) con le guide virtuali, grazie alle quali è possibile vivere l’esperienza del MiM in totale autonomia, ma senza rinunciare alle informazioni e ai consigli che potrebbe fornire l’accompagnamento di una guida in carne ed ossa.

Il MiM rappresenta inoltre uno spazio di collegamento con le scuole di tutta Italia, dove gli studenti, attraverso percorsi didattici mirati e la possibilità di scegliere tra una serie di laboratori monografici, possono conoscere più da vicino la tematica delle migrazioni.

Le memorie dal sottosuolo di Amedeo Grillo

Una frase che fa impressione. E che permette di comprendere quanto terribile potesse essere la vita del minatore. «C’era un collega toscano. Malediva i suoi genitori per averlo fatto nascere perché lavorava in miniera». A pronunciarla è Amedeo Grillo, ricordando gli anni trascorsi in Belgio. Otto ore al giorno, tutti i giorni, nelle viscere della terra. 

Oggi Amedeo, partito da Alano di Piave per faticare e respirare polvere nel sottosuolo del Pays Noir, non c’è più. Se n’è andato già da qualche anno ma, per fortuna, ha lasciato la sua testimonianza, ritratto del sacrificio di centinaia di bellunesi e di migliaia di italiani che, come lui, sono stati protagonisti di quella pagina della nostra emigrazione significativamente ribattezzata “Uomini in cambio di carbone”.

Lui era uno di quegli uomini che il protocollo tra Italia e Belgio del 1946 spedì proprio a cavar carbone. Giù, con «un grande ascensore», fino a settecentocinquanta metri di profondità. «Mi hanno consegnato a un altro minatore che aveva esperienza e mi hanno fatto fare due-tre giorni di tirocinio, dopodiché ho cominciato». Il primo giorno di “mina” è un’esperienza che non si dimentica facilmente.

«Quando ho iniziato è stato brutto perché mi hanno portato in una galleria con un polacco con il quale non riuscivo a parlare. Mi ha accompagnato in questa galleria solo per farmela vedere, e mi sembrava che a battere sarebbe cascato tutto». 
In miniera, il rischio è sopra la testa, è tutto intorno, ma guai a pensarci. «Se pensi ai pericoli – assicura Amedeo – non entri più». 

«Ho avuto tanta paura perché credevo di non uscirne più. Un’altra volta è franato tutto e mi sono fatto male, tre vertebre fratturate».

Lui di spavento ne ha preso un bel po’. «Il sole non arriva mai laggiù, è sempre buio. La lampada è come un fiammifero e bisogna vedere con cosa si lavora. Ho lavorato un mese su un filone alto venti centimetri, cose che uno non ci crede se non lo vede. La lampada non stava in piedi e bisognava lavorare con una mano sola. Una volta sono venuti giù dei pezzi di roccia, da sopra, che pesavano tre o quattro chili.

Ero buttato giù, con la pancia di sotto, perché bisognava lavorare così. Si sono staccati questi blocchi di roccia e non potevo andare né avanti né indietro. Ho chiesto aiuto e un polacco che era lì vicino è venuto con un pezzo di legno a liberarmi. Ho avuto tanta paura perché credevo di non uscirne più. Un’altra volta è franato tutto e mi sono fatto male, tre vertebre fratturate». 

Amedeo lavorava a Boussu, non troppo distante da Charleroi. L’8 agosto del 1956 andò a vedere ciò che era accaduto a Marcinelle. «Ma non si poteva pensare a quanto successo, perché altrimenti non ci vai più a lavorare. Ovviamente c’era tanto pericolo e bisognava sempre avere la testa sulle spalle. Si contava ogni minuto, perché a volte finivi dopo le otto ore, altre volte finivi presto e dovevi aspettare il resto del tempo». 

La miniera di La sentinelle, dove Amedeo lavorava

Addirittura, in qualche modo si è sentito fortunato. «Nella mina dove ho lavorato io mi pare ci siano stati due morti in cinque anni, mentre nelle altre ce n’erano tanti di più».

Dopo cinque anni di Belgio, il ritorno in Italia, per poi ripartire di nuovo. «Un amico mi ha chiesto se volevo andare in Svizzera. Abbiamo fatto un contratto e in due mesi sono andato, per rimanere undici anni. Ho trovato un lavoro da tessitore, facevo tappeti in una fabbrica». 

Là – ricorda Amedeo – non era pericoloso. Però anche in terra elvetica le cose non erano semplici. Qualche guaio c’era. «La vita in Belgio era meglio che in Svizzera, perché tra gli svizzeri non ho trovato tanti amici. In Belgio si facevano delle feste fenomenali, ad esempio per Santa Barbara, mentre in Svizzera, i primi tempi, non si poteva andare neanche al bar, si andava solo in quelli con gli altri italiani».

Meglio evitare, insomma, l’ostilità xenofoba che in quegli anni prendeva di mira gli immigrati italiani, quelli che – diceva qualche svizzero, aizzato dalla ben nota propaganda politica nazionalista – “rubavano il lavoro” alla gente del posto.

Ritornando con la mente al Belgio, Amedeo ricorda perfettamente il motivo per cui era emigrato. E soprattuto la necessità di accettare un mestiere particolarmente difficile. «Sapevo già che sarei andato a lavorare in miniera, perché avevo dai cugini là, anche loro lavoravano in miniera. Mi avevano spiegato che il lavoro era brutto e pericoloso, ma a quei tempi bisognava adattarsi». 

Amedeo Grillo alla fine del suo turno