Una chiacchierata tra nonna e nipote

di Sara Balcon

Per molto tempo, le partenze dal Bellunese verso paesi esteri sono state una strada che i giovani, quasi inevitabilmente, erano costretti a percorrere. Una strada, quella che porta a lasciare la propria terra natia, che ancora oggi è intrapresa da tanti giovani italiani, per trovare lavoro.

Secondo il report redatto da Fondazione Nord Est e dall’associazione Talented Italians in the UK, che ha elaborato i dati Eurostat, l’Italia ha perso 1,3 milioni di persone andate a lavorare e vivere all’estero negli ultimi dieci anni. Un fenomeno paragonabile a quanto succedeva negli anni Cinquanta del secolo scorso, quando però chi se ne andava dal nostro Paese aveva un basso livello di scolarizzazione, mentre oggi si stima che un emigrante su tre sia laureato.

Come tanti miei coetanei laureati e specializzati in materie umanistiche e in ambito culturale, mi pongo dei quesiti sul mio futuro e sulle opportunità offerte dalla mia terra e dal mio Paese. Così in un pomeriggio di pioggia, seduta al tavolo della cucina, ho pensato di confrontarmi con mia nonna. Proprio quella nonna che, negli anni Cinquanta, aveva dovuto prendere la valigia di cartone e con le lacrime agli occhi, posizionarsi sulla banchina dei binari della stazione di Belluno e aspettare il treno che l’avrebbe portata in un posto dove avrebbe trovato lavoro: la Svizzera.

Nonna, come mai sei emigrata proprio in Svizzera?
Qui a Belluno tante donne sapevano che in Svizzera c’era la possibilità di trovare lavoro, ma non un lavoro qualsiasi… il lavoro nelle fabbriche. Una delle mie sorelle maggiori era già emigrata proprio in Svizzera, a Berna, e io l’ho dovuta seguire. In Svizzera ho trovato un lavoro sicuro in un fabbrica di filati. Eravamo tante italiane e soprattutto tante bellunesi e trevigiane.

Quanti anni avevi?
Avevo 21 anni. Sono stata a Berna dal 1951 al 1955. La mia famiglia era molto numerosa. Ero la decima di ben tredici fratelli. Ognuno di noi doveva darsi da fare per aiutare la famiglia. Alcune delle mie sorelle erano rimaste a Belluno per lavorare i campi e aiutare i miei genitori, mentre altre erano andate nelle grandi città come Milano e Roma a “servire”. Io sono partita per la Svizzera. Quello che ognuna di noi guadagnava lo dava ai nostri genitori per la famiglia.

Com’era il lavoro, cosa facevi?
Si lavorava bene… eravamo tutte di noi. La mia responsabile era di Belluno e siamo rimaste amiche. Era un lavoro di attenzione. Io controllavo due macchine, lunghe circa dieci metri l’una, che producevano le spagnolette. Bisognava stare molto attente che il filo non si spezzasse altrimenti era un disastro. Bisognava correre come un treno da una parte all’altra. Quando cambiava il tempo, pioveva o c’era umido, il filo rischiava di rompersi più facilmente. Dalle bobine di filo più grosso, si dividevano fili più sottili che permettevano di fare la singola spagnoletta. Stavo a Berna tutto l’anno, tornavo a casa per le ferie d’estate e, una volta a Belluno, aiutavo la mia famiglia nei campi.

E dove vivevi?
La fabbrica mi dava l’alloggio. Vivevo in un convitto, dalle suore… erano molto severe. La sera non potevamo uscire e, se si usciva, bisognava uscire con loro. Non si poteva fare molto. Qualche giro a Berna l’ho comunque fatto. Mi piaceva come cittadina. Pian piano ho imparato a conoscerla… quasi come Belluno.

La Svizzera ti ha accolta bene?
Sì, non ho mai avuto problemi. Quando si arrivava alla frontiera c’erano tutti i controlli da fare. Ecco… quelli medici non erano sempre facili. Durante la visita ci spogliavano e ci lasciavano avvolte solamente da una coperta. Io ho sempre passato i controlli medici. Sempre sana come un pesce. Non mi hanno mai mandato indietro. Mia sorella, invece, una volta non l’hanno fatta entrare, perché non stava molto bene. Ma succedeva. Ho visto tornare indietro tante persone, perché non erano ritenute sane. Il viaggio da Belluno alla Svizzera non era tanto breve all’epoca. Partivo dalla stazione di Belluno con la mia valigia di cartone. La prima tratta era Belluno-Padova. A Padova cambiavo treno fino a Milano. A Milano bisognava tenere le orecchie a pennello perché dicevano il numero del binario per il treno diretto in Svizzera. Mi ricordo ancora quando dovevamo correre per cambiare binario. Ma ero brava, non ho mai perso un treno.

Poi però sei rientrata in Italia…
Sì, poi sono tornata a Belluno e sono andata a lavorare come stiratrice in un hotel di lusso di Cortina. Quelli sono anni che ricordo con piacere. È stato un bel momento. Ero vicina a casa, quando potevo tornavo a Belluno. Eravamo una bella squadra di donne in stireria. Ho dovuto imparare tutto da zero. Ho imparato a stirare i cappelli dei cuochi. Sai, dovevano stare dritti, in piedi da soli. Per stirare le lenzuola si usava una grande macchina, il mangano. I vestiti di velluto, invece, venivano stirati con il vapore, mettendo gli appendini sopra grandi tinozze di acqua bollente. Pensa che ho stirato anche i vestiti di Gina Lollobrigida e di Sofia Loren.

Sei riuscita a vivere un po’ le bellezze di Cortina?
Per fortuna sì. Quando si poteva andavamo a camminare e la sera a volte anche a ballare. L’hotel in cui lavoravo non era in centro. Con le scarpe con il tacco e la neve, con le mie colleghe, a piedi, andavamo in centro. C’era un locale in cui potevamo andare noi dipendenti dell’hotel.

Nonna, ma se tornassi indietro emigreresti di nuovo?
Non si poteva fare altro, perché non c’era altro. Sono stata via per pochi anni, ma penso proprio non lo rifarei. Ho fatto tanti sacrifici. Ogni volta che dovevo tornate in Svizzera piangevo, perché non volevo lasciare la mia casa… ho fatto fatica. Ero tanto legata ai miei genitori e alle mie sorelle, anche se stare in Svizzera mi ha fatto crescere e mi ha fatto conoscere persone nuove. Dopo così tanti anni, mi sento ancora con la mia amica di Milano, con cui lavoravo a Berna. Devo dire che sono stata contenta di essere tornata in Italia. Lavorare a Cortina, mi ha permesso di stare più vicina alle mie sorelle, di conoscere il nonno e di creare la mia famiglia.

Dopo questa chiacchierata, forse le lacrime che scendono dagli occhi di mia nonna, ogni volta che le dico che devo lasciare Belluno per un periodo, riesco a comprenderle sotto un’ottica differente. Forse ho appreso proprio da lei il valore della famiglia e l’amore per Belluno.

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