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Centodue anni dopo

di Aurimar Antonio Demenech – Vila Velha, Espírito Santo, Brasile

Ho sempre avuto un profondo interesse a scoprire le radici dei miei antenati della famiglia Demenech di Sananduva (Rio Grande do Sul). 

La storia della famiglia inizia il 1° aprile 1842, con la nascita, a Sedico, del mio bisnonno, Francesco Antonio De Menech. 

Francesco sposò Luigia Peloso, nata il 28 luglio 1838. Ebbero tre figli: Antônia (nata il 19 febbraio 1870), Annunziata Gioseffa (nata il 18 aprile 1872) e Luís Antonio (nato il 19 luglio 1877), mio nonno. 

Lauro Antonio Demenech, figlio di Luís, e mia madre, Vidalvina Picolotto Demenech, continuarono la linea paterna della famiglia.

Del ramo materno della nostra famiglia, discendente delle famiglie Picolotto e Andreola, si hanno notizie più dettagliate. 

La storia dei Demenech di Sananduva presentava invece delle lacune, perché i nostri bisnonni e nonni avevano lasciato pochi documenti, a eccezione di un passaporto italiano rilasciato durante il regno di Umberto I. Non ci sono registrazioni dettagliate di viaggi o eventi.

Come descritto nel passaporto italiano della famiglia De Menech, Francesco e i suoi famigliari emigrarono nel novembre 1891. Partirono da Sedico, in treno, fino al porto di Genova, dove si imbarcarono sul piroscafo “Duca di Galliera”. Si presume che viaggiassero in condizioni precarie, su una nave sovraffollata, in terza classe, senza assistenza medica e con un’alimentazione scarsa, dormendo sul pavimento. Arrivarono a Rio de Janeiro nel dicembre 1891 e rimasero in quarantena sull’Ilha das Flores, prima di dirigersi verso il Rio Grande do Sul.

La famiglia arrivò a Caxias do Sul alla fine di dicembre del 1891 e poi si trasferì a Nova Pádua. Non ci sono tracce delle attività familiari nel periodo tra il 1891 e il 1910. Nel 1910, Luís e sua madre, Luigia Peloso, arrivarono a Sananduva. Luís lavorò all’apertura di strade, acquisendo beni con i soldi guadagnati. Sposò Hermenegilda Salomoni Gasparini nel 1921, dalla quale ebbe quattro figli, tra cui mio padre, Lauro Demenech. Aprì una selleria nel centro della città.

Il mio interesse per le origini italiane della nostra famiglia è sempre stato grande, ma fino al 1988 avevo scoperto poco. Ha suscitato la mia curiosità una segnalazione sull’ottenimento della cittadinanza italiana per gli “oriundi”. Nostro padre parlava poco della sua infanzia e, anche quando gli veniva chiesto, non rispondeva. Mosso da questa segnalazione, ho cercato maggiori informazioni, consultando giornali ed esperti in materia. A quel tempo, vivendo già a Vila Velha, città natale di mia moglie, ho visitato il Vice Consolato italiano a Vitória, con i miei documenti personali e una copia del passaporto italiano dei miei bisnonni.

Ho seguito le istruzioni ricevute e ho iniziato a raccogliere la documentazione necessaria, come certificati di nascita, di morte, di matrimonio e atti parrocchiali. Dopo aver tradotto i documenti in italiano, ho richiesto la cittadinanza italiana presso il Consolato di Vitória, sulla base di una copia del passaporto di Francesco Antonio Demenech. Il 23 febbraio 1990 abbiamo ottenuto la cittadinanza italiana per tutti i componenti della famiglia di Lauro.

Nel 1993 ho inviato una lettera al Comune di Sedico, chiedendo informazioni su possibili parenti discendenti dalla nostra famiglia. Tre mesi dopo ho ricevuto risposta con i nomi e gli indirizzi dei discendenti del fratello del mio bisnonno Francesco. La risposta includeva un albero genealogico compilato a mano, riportante tutti i discendenti del padre del mio bisnonno, Giovanni Battista De Menech, e di suo fratello, Giovanni F. De Menech, che diedero origine ai rami dei De Menech che ora risiedono in Italia e in Svizzera.

È stato un grande incontro, sospeso nella memoria del tempo per centodue anni…

Nel 1993 esisteva un unico De Menech, discendente collaterale diretto, residente a Sedico. Dopo aver ricevuto l’informazione, gli ho scritto, condividendo la nostra storia e la documentazione ottenuta, sperando di scambiare maggiori informazioni. Lui ha inoltrato la mia lettera alla nipote, residente in un’altra provincia italiana. Nell’agosto del 1993, ho ricevuto una sua risposta, comprendente le fotografie di tutta la sua famiglia. Ha espresso sorpresa e interesse per la nostra storia condivisa.

La lettera riportava:

«Ho saputo, tramite mio zio, delle ricerche che stai facendo sulle generazioni della famiglia De Menech. Sono rimasta stupita dal fatto che parte di questa famiglia viva in Brasile, fatto di cui non ero a conoscenza. Il tuo interesse è anche il mio interesse, ma nelle mie mani non ho documentazione. Tuttavia, con la tua lettera, posso iniziare la mia ricerca».

Dalla risposta nella lettera inviata da Francesca, sembrava che ci conoscessimo da molto tempo, anche se né lei né io sapevamo dell’esistenza di questi personaggi delle famiglie De Menech dall’Italia e Demenech dal Brasile.

La nostra corrispondenza è stata tradotta manualmente, dato che abbiamo scritto in diverse lingue. Nel settembre 1993 ho viaggiato in Europa e ho visitato diversi paesi, tra cui l’Italia. A Sedico ho conosciuto il parente collaterale De Menech, in un incontro caloroso e gioioso. È interessante notare che era un falegname in pensione, proprio come mio padre. Nel 1994 venne a trovarci nell’Espírito Santo con due amici.

Poi sono andato in treno a trovare la famiglia della nipote che viveva in un’altra provincia e quando sono arrivato alla stazione, lei mi aspettava con suo marito.

Quando ci siamo incontrati, ci siamo abbracciati con grande gioia. Avevamo l’impressione che i fratelli perduti si fossero ritrovati. È stato un grande incontro, sospeso nella memoria del tempo per centodue anni…

Il 1993 è stato l’anno in cui mi sono ricongiunto con parte della mia famiglia Demenech rimasta in Italia. Fino ad allora, loro non avevano idea dell’esistenza del ramo Demenech di Sananduva, e nemmeno noi avevamo idea dell’esistenza del ramo De Menech di Sedico.

A casa, sono stato accolto dai suoi genitori e dal fratello. Sembrava che ci conoscessimo da una vita. Io parlavo poco l’italiano, in parte parlavo in dialetto veneto. Il padre di Francesca rideva ogni volta che pronunciavo una parola in dialetto, diceva che i suoi figli non lo conoscevano e che ormai in pochi lo parlavano ancora.

Da allora siamo rimasti in contatto tramite telefono e messaggi. Nel 2014 sono tornato a trovarli e ancora una volta sono stato accolto molto bene.

Attualmente il nostro albero genealogico fa risalire le informazioni del ramo della famiglia De Menech all’anno 1800.

Nel settembre del 1993, la gioia di aver trovato persone che condividono il mio sangue e la mia storia è stata un sentimento forte. Era come se un pezzo del puzzle della vita familiare dei Demenech finalmente andasse al suo posto. È stato un momento di grande appagamento e soddisfazione, perché ho imparato di più sul mio passato e su quello della mia famiglia. Voglio ricordare che anche i miei parenti italiani hanno provato queste stesse emozioni. 

Il viaggio del 1993 ha riunito la famiglia Demenech, separata tra Brasile e Italia, collegandoci attraverso la nostra storia comune.

Quattro generazioni di emigranti – Parte due

di Ivana Dalla Piazza

Per leggere la prima parte, clicca QUI.

L’emigrazione è nel destino di tutta la famiglia: un fratello di mio nonno Fiorino morì in Belgio alla fine degli anni Trenta, folgorato sul lavoro; un altro fratello si “accontentò” di andare in Piemonte. 

Dei quattro figli di Fiorino: Alfonso si stabilì nella zona di Düsseldorf (Germania), Mario lavorò a Kariba, nell’ex Rhodesia, ora Zimbabwe, per partecipare alla costruzione della diga sul fiume Zambesi; la figlia minore emigrò prima in Svizzera, poi in Germania.

Dopo la Seconda guerra mondiale, venne stipulato il famoso Accordo italo-belga per cui l’Italia avrebbe ricevuto carbone a prezzo agevolato in cambio di italiani disposti a emigra e lavorare in miniera. Mio padre Anacleto fece parte di questo scambio. 

All’arrivo dei convogli alla stazione di Liegi le varie società minerarie mandavano i loro camion per prendere gli uomini richiesti. Li alloggiavano nelle cantine, costruzioni con camerate, cucina con cuciniere (cuoco è troppo) e refettorio, il tutto molto spartano.

… un paesano ci vide e urlò a mio padre: «Ehi Anacleto, ghe ne quà la to femena». Immaginarsi le facce!

Mio padre, con altri queresi, andò vicino a Herve. Un anno dopo preparò l’espatrio della moglie Armida, ma lei non aspettò “il via libera”: lasciò Quero senza conoscere una parola di francese, con una valigia e me, di due anni, in mano solo un indirizzo e le istruzioni per raggiungere la stazione ferroviaria finale. 

Arrivata, scese dal treno e si avviò a piedi verso la miniera. A gesti qualcuno le indicò la strada. Quando, stanca, si sedette sul gradino di una casa, una signora belga uscì e le porse una tazza di latte caldo indicandomi (persone di buon cuore ci sono sempre, cerchiamo di esserlo anche noi). Noi due ci presentammo ai cancelli all’ora di uscita degli operai, un paesano ci vide e urlò a mio padre: «Ehi Anacleto, ghe ne quà la to femena». Immaginarsi le facce!

Raggiunta la pensione, mio padre volle tornare al paese, fra i suoi campi e la sua gente, la partita a Tressette e le bocce.

E dunque anch’io, nel mio piccolo, sono stata emigrante al seguito dei miei genitori. Fortunatamente non ho dovuto sopportare i loro sacrifici e ho potuto cogliere molti aspetti positivi: frequentare la scuola superiore che è gratuita, libri compresi; essere amica di coetanei belgi e di altre nazionalità, figli di ex prigionieri di guerra rimasti lì; approfittare di leccornie rare nel Bellunese, come banane, cioccolata, Chewing gum e, quando rientravo per le ferie, rimpinzarmi di angurie, pesche e uva bonoriva, frutta all’epoca quasi inesistente al Nord Europa.

Malgrado i sacrifici e le fatiche, ancora oggi conserviamo un buon ricordo di quegli anni. 

Xhawirs Xhendelesse (Liegi), 1947. Anacleto Dalla Piazza, Ivana e Armida. 
(Per gentile concessione di Ivana Dalla Piazza)

Quattro generazioni di emigranti – Parte uno

di Ivana Dalla Piazza

Seguendo le migrazioni di tanti popoli che fuggono da guerre e povertà, penso a quando anche la mia famiglia materna dovette emigrare per la grande miseria che regnava nelle nostre montagne.

Iniziò mio bisnonno Domenico Mazzocco, che andò in Svizzera all’inizio del secolo scorso, dove lo raggiunse il figlio quattordicenne Fiorino, mio nonno (Quero 1899 – 1949). Rientrarono prima dello scoppio della Grande Guerra e Fiorino fu tra i “Ragazzi del ‘99” che vi parteciparono.

Tornata la pace, mio nonno Fiorino si sposò e nacque il primo figlio. Nuovo espatrio nel ’23, destinazione Belgio. Era via da poche settimane quando il bambino, di otto mesi, morì improvvisamente. Allora mia nonna Maddalena lo raggiunse e si stabilirono nella zona di Charleroi.

Vivevano in mezzo vagone ferroviario (penso messo a disposizione dal datore di lavoro) mentre l’altra metà era abitata da una famiglia di Breganze. In quella “casa” nacque mia madre Armida. Era la metà degli anni Venti e dovettero rientrare in Italia a causa di problemi di salute di Fiorino. 

In Belgio, per adeguarsi all’abbigliamento delle altre donne, mia nonna aveva acquistato un cappello, ma al ritorno lo lasciò sotto il sedile del treno a Padova perché si vergognava a presentarsi fra la sua povera gente con il «capel in testa come le siore».

Doveva aver guadagnato abbastanza bene, perché in un porto franco sul Canale di Suez fece acquisti extra, tra cui coperte e un servizio da caffè da dodici in porcellana, un vero lusso per mia nonna. 

La famiglia aumentò, le necessità pure: nuova partenza di mio nonno, a lavorare alla costruzione della diga sul fiume Orca, a Ceresole Reale, Piemonte. In seguito raggiunse la zona di Metz, in Francia, dal ‘30 al ‘33. Breve rimpatrio e nuova partenza: questa volta per l’Africa, Etiopia, dove l’Italia doveva fondare il Grande Impero e Fiorino fu tra gli operai che costruirono la galleria “Mussolini” al passo Termaber, a Nord-Est di Addis Abeba.

Ci rimase dal ’36 al ’38. Doveva aver guadagnato abbastanza bene, perché in un porto franco sul Canale di Suez fece acquisti extra, tra cui coperte e un servizio da caffè da dodici in porcellana, un vero lusso per mia nonna. 

Ripartì per la Germania, ma nuovamente si avvicinò la guerra. Per contratto, non poteva tornare a casa se non per gravi motivi. Sfruttando un’occasionale visita medica della figlia Armida presso il sanatorio di Feltre, fece “calcare” la mano al medico nel redigere il referto e ricevutolo (su carta intestata con impressa la doppia croce rossa simbolo della TBC) poté rimpatriare.

La sua ultima valigia la preparò per andare a lavorare sul lago di Braies. Morì pochi anni dopo per la silicosi, contratta nelle gallerie e nelle miniere. Da quel poco che so, doveva occuparsi dell’installazione e brillamento delle mine usate per spaccare la roccia.

E durante le sue peregrinazioni, la moglie a casa doveva accudire i figli e occuparsi di quella poca terra e qualche bestia che con tanti sacrifici erano riusciti ad acquistare. Vita grama anche per lei, ma non si lamentava mai, andava a prendere l’acqua potabile in piazza, con secchi e bigol: l’unico svago era poter leggere quel che capitava vicino alla lampada a petrolio.

Continua…

Addis Abeba, Passo Termaber, lavori di costruzione della galleria “Mussolini”, imbocco lato Est, anno 1937.
(Per gentile concessione di Ivana Dalla Piazza)

In memoria di Antonio D’Incau

di Marta Mazzucato Emidi

Mai come quest’anno, nel programmare le mie vacanze a Zorzoi, ho sentito il desiderio di trovare una collocazione nel territorio di Sovramonte – al fine di evitare che le stesse possano essere dimenticate o addirittura smarrite – di alcune lettere inviate dall’America tra il 1910 e il 1918 da mio nonno Antonio D’Incau, morto sotto il crollo di una miniera di carbone. 

Sono lettere inviate soprattutto alla sorella che si prendeva cura della figlioletta orfana di madre dall’età di quattro anni. Quella bambina diventerà poi mia madre.

A Sovramonte non esiste una struttura idonea a tale scopo, ma con mia grande sorpresa ho scoperto che a Belluno esiste l’Associazione Bellunesi nel Mondo, che da oltre cinquanta anni raccoglie documenti, fotografie, lettere di emigranti, in una sede con un Centro studi sull’emigrazione denominato “Aletheia”, dotato di archivio, biblioteca, sala proiezioni e la pubblicazione di una rivista mensile “Bellunesi nel mondo”, diffusa in molti paesi, con lo scopo di mantenere vivi sia la memoria del passato sia il legame con i futuri discendenti.

Molto interessato alla conservazione e al recupero di tali documenti, vivace promotore di iniziative volte alla diffusione della memoria, il direttore dell’Associazione, Marco Crepaz, è venuto a Zorzoi per la prima volta. Mi ha fatto conoscere il presidente dell’Abm di Roma, Vittoriano Speranza, bellunese, figlio di emigranti. Anche lui per la prima volta ha visitato Zorzoi in una bella domenica di agosto, godendo di un panorama spettacolare dalla chiesa di San Zenone, con la famiglia.

Mi sono iscritta all’Associazione, ho accolto con entusiasmo la notizia di una probabile, futura istituzione di una sede sull’emigrazione a Sovramonte. Ho la speranza che molti sovramontini possano, un giorno, affidare al museo (il MiM Belluno) foto, lettere dei loro cari, destinate forse all’oblio.

Quale migliore riconoscenza, per una vita di fatiche e di rinunce, che tramandare alla memoria futura il ricordo di tanti sacrifici?

Ma il fatto più straordinario della mia permanenza a Zorzoi è stata la conoscenza casuale di Michela Zannini, una feltrina trasferitasi a Boston, che mi ha aiutato a scoprire il luogo di sepoltura del nonno, il quale, dopo la morte, sembrava sparito nel nulla. Per anni ho cercato sue notizie ma, a causa soprattutto della diversa trascrizione del suo nome e cognome (in alcuni documenti, ad esempio, appare Antoney D’Inko), ogni ricerca risultava vana.

Non so se tutta questa serie di scoperte sia casuale ma, in alcuni momenti, ho avuto la sensazione che fosse lo spirito del nonno a guidare questo percorso.

Grazie alla passione di Michela, impegnata a ricostruire la storia dei suoi antenati, i Dalla Valle, originari di Zorzoi (alcuni dei quali emigrati in America), abbiamo scoperto che Costanza Dalla Valle, nella seconda metà dell’Ottocento sposò Cirillo D’Incau, padre di Antonio, mio nonno. Due vecchie lapidi sul muro di cinta del dismesso cimitero della chiesa di San Zenone a Zorzoi ne testimoniano ancora il ricordo.

Da questo matrimonio potrebbe derivare, forse, il passaggio di proprietà del cosiddetto palazzo Dalla Valle alla famiglia D’Incau.

Abbiamo recuperato gli elenchi degli emigranti imbarcati dal 1910 al 1918 dal porto francese di Le Havre e sbarcati a New York, tra cui molti sovramontini, compreso il nonno.

Fortuna vuole che Michela abbia una cugina vissuta a New Derry, località mineraria della Pennsylvania, dove lavorarono i nostri emigranti. Dai registri della locale chiesa di San Martino, risultano i nominativi dei minatori morti sotto il crollo della miniera nel 1918, sepolti nel cimitero adiacente. Abbiamo recuperato anche il certificato di morte del nonno.

Non so se tutta questa serie di scoperte sia casuale ma, in alcuni momenti, ho avuto la sensazione che fosse lo spirito del nonno a guidare questo percorso. Da poco avevo trovato l’unica sua fotografia e inserito nelle mie preghiere la sua anima, sicuramente dimenticata da tutti e, ancora oggi, mi chiedo se proprio lui abbia voluto far rinascere la sua memoria, ricostruendo un legame con i suoi cari, attraverso la scoperta del luogo della sua sepoltura, che anche l’oceano aveva contribuito ad allontanare.

Non posso dilungarmi oltre, anche se tante altre notizie potrei raccontare! Allo stesso modo, il contenuto delle lettere meriterebbe un “capitolo” a parte.

Zorzoi, piccola frazione di Sovramonte, quasi a ricordare la sua passata grandezza, ha dato le origini a grandi famiglie, sparse in tutto il mondo, alcune delle quali si sono affermate per il loro spirito imprenditoriale.

Della famiglia Dalla Valle, tra le altre, spicca la figura di Benedetto Dalla Valle, grande possidente terriero e allevatore di bestiame, nato nel 1829 e morto nel 1898 a Zorzoi, grande benefattore del paese, come dimostrano le lapidi erette in suo onore nella chiesa della Madonna di Pompei e nel cimitero della chiesa di San Zenone. Quest’ultima, che andrebbe restaurata, recita: 

BENEDETTO DALLA VALLE
MORTO
A LXIX ANNI
IL DI’ 15 APRILE
1898
ZORZOI RICONOSCENTE
POSE

Da Rocca Pietore al Sudafrica

Nel marzo del 1947, dopo aver lavorato per circa due anni all’ospedale di Feltre, sono andata in Svizzera. Avevo 18 anni. Lo stesso anno ho conosciuto Adelio De Vallier. Nel 1948 ci siamo sposati e nel 1949 è nata la nostra prima figlia, Diana. Dopo due anni è nato Walter. Poi, visto che la famiglia contava già quattro persone, avevamo deciso di fermarci.

Mio marito un giorno arrivò a casa con un libro che aveva acquistato: lo lesse, lo rilesse, lo studiò molto attentamente. Si intitolava “Cosa fare per avere o non avere figli”. Morale della favola, ne sono nati altri due!
Tornando alla Svizzera, ricordo con una certa rabbia e tanta umiliazione la visita cui ci sottoposero appena giunti a Chiasso: tutte noi donne nude in un grande stanzone per la disinfestazione!

Dopo alcuni anni in Svizzera, mio marito vide sul giornale che una ditta del Sudafrica cercava operai. Incerto sul futuro dell’Europa – temeva lo scoppio di un’altra guerra – inviò una lettera a Pretoria chiedendo un contratto di lavoro. Gli fu risposto che erano spiacenti, ma non avevano più disponibilità di posti di lavoro.
Dopo non molto venne a trovarci un nostro amico, emigrato in Australia, che ci consigliò di scrivere un’altra lettera, questa volta in inglese, cosa che Delio fece immediatamente con il suo aiuto.

Con la prospettiva di trasferirsi in Sudafrica, mio marito cominciò a studiare l’inglese, per essere pronto ad affrontare questa nuova realtà. Il tempo passava e non si otteneva risposta. Dopo un anno, finalmente, arrivò la lettera che lo informava che il contratto di lavoro era pronto. Io ero incinta del terzo figlio, per cui Delio partì da solo: io l’avrei raggiunto in seguito con tutta la famiglia.

Gianni nacque nel luglio del 1958. Il settembre successivo lasciammo Neuchatel e arrivammo ad Amsterdam, dove avevamo l’albergo prenotato (Delio aveva pensato a tutto!). Era proprio un albergo lussuoso, l’Hotel Regina, con una stanza meravigliosa. Il giorno seguente, un taxi ci portò al porto e la sera ci imbarcammo sulla nave Duncan. Era il 26 settembre 1958.

Diana e Walter salutano la vecchia Europa

Devo dire che gli inglesi furono proprio gentili con me. Appena videro che avevo tre bambini, il più piccolo di appena due mesi, mi aiutarono in tutti i modi possibili, sbrigando in fretta le formalità doganali, facendomi salire per prima (la coda di chi si imbarcava era interminabile), accompagnandomi e facendomi sistemare nella nostra cabina. Dopo aver fatto scalo a Las Palmas, proseguimmo verso Sud.

Delio lavorava dodici ore al giorno, io restavo a casa ad accudire i figli. In un anno abbiamo pagato tutti i mobili, metà spese del viaggio e il terreno per fabbricare.

Quanto mal di mare ho sofferto… E mentre io me ne stavo rinchiusa in cabina, Diana e Walter scorrazzavano felici per tutta la nave. Non solo stavo male, ma ero anche preoccupata che capitasse loro qualcosa. Fortunatamente, tutto andò liscio.
Arrivammo a Città del Capo il 13 ottobre. Da lì ci aspettavano altri due giorni di treno per raggiungere Vanderbijl Park, dove si trovava Delio.

Sulla nave, Walter col fratellino Gianni


Avevamo a disposizione un intero vagone ferroviario, quasi un appartamento, con i letti e i pasti serviti, visto che avevo il piccolo cui badare, mentre i due grandi venivano accompagnati al vagone ristorante.
Delio mi aveva scritto che la ditta gli aveva dato in affitto una bella casa con il giardino e siccome a me piaceva tanto la polenta, avevo messo nel bagaglio un bel po’ di semi di granoturco con l’idea di seminarli nel nostro giardino. Ma guardando dal finestrino del treno in corsa non vedevo altro che distese e distese di granoturco. Non sapevo che quella pianta fosse la base dell’alimentazione della popolazione di colore.

Loro, infatti, non fanno mai a meno della polenta, anche quando mangiano pastasciutta. La fanno come noi, solo che è molto più dura e sempre bianca. Fortuna che è andata così, perché quando mi recapitarono la cassa con i miei bagagli e aprii il sacchetto del granoturco, la stanza si riempì di centinaia di farfalle: il granoturco era sparito.

Così ebbe inizio la nostra vita in Sudafrica. Delio lavorava dodici ore al giorno, io restavo a casa ad accudire i figli. In un anno abbiamo pagato tutti i mobili, metà spese del viaggio (l’altra metà l’aveva pagata la ditta) e il terreno per fabbricare. Delio, infatti, aveva detto: «Sento che mi fermerò qui, perciò invece di pagare l’affitto è meglio che ci costruiamo la casa».

L’anno seguente ottenemmo un prestito dalla banca e costruimmo la nostra prima abitazione in Sudafrica. La nostra preoccupazione maggiore fu quella di far imparare l’inglese ai nostri figli e quindi li mandammo a scuola al convento delle suore. Siamo tornati per una visita a Laste dopo undici anni, nel 1969. Il viaggio costava molto, ma quella volta abbiamo preso l’aereo.

In Sudafrica siamo rimasti per quarant’anni, prima a Vanderbijl Park, poi a Johannesburg. Abbiamo passato degli anni bellissimi, con la possibilità di far studiare i figli, e tutti si sono fatti la loro strada, onestamente, con il lavoro.


Articolo di Patrizia Gabrieli, pubblicato, in versione più estesa, su “El Pais”, notiziario di Laste.