Sono anch’io un emigrante?

A primavera del 1952, con la fine della quinta classe elementare, si era conclusa quella che amo definire la mia “carriera accademica”. I primi due inverni a seguire, 1952-53 e 1953-54, frequentai un corso teoricopratico per muratori. Solo la parte teorica, tenuta da un geometra nostro paesano. In ogni caso, a dodici anni e mezzo avevo in mano un diploma di muratore.

Proprio nel giorno dell’esame finale incontrai il nostro parroco di allora, don Ernesto Ampezzan, che mi chiese se fossi disposto ad andare a Roma a lavorare nel Seminario Romano Maggiore. Sapevo di cosa si trattava perché alcuni compaesani e amici miei ci erano già stati e mi avevano informato sul tipo di lavoro, nonché sulle condizioni economiche: trecento lire al mese. Così, con la benedizione dei miei, visto che c’era bisogno e sarei stato una bocca in meno da sfamare, feci le valigie per la capitale. Mia madre venne con me fino a Belluno, acquistò il biglietto per il viaggio e aspettammo la partenza. Caso volle che quell’anno il raduno degli Alpini in congedo si tenesse proprio a Roma e così chiedemmo se era possibile viaggiare con la tradotta degli Alpini, il che mi avrebbe evitato di cambiare treno nel bel mezzo della notte. Il permesso mi venne accordato ed ecco che il 18 marzo 1954, alle ore 20:00, ci fu la partenza.

Ebbi anche l’onore di servire il cardinale Angelo Giuseppe Roncalli, più tardi Sua Santità Papa Giovanni XXIII.

Arrivammo a Roma dopo circa dodici, tredici ore, allo scalo merci di San Lorenzo perché la Stazione Termini era nuovissima e un treno carico di ex Alpini avrebbe forse creato qualche… difficoltà.
Dopo varie peripezie, con l’aiuto di due dei miei “compagni di viaggio”, arrivai a destinazione e ci rimasi per più di due anni, fino al luglio del 1956. Il mio lavoro consisteva nel fare le pulizie di tutto il seminario. C’erano allora un centinaio di seminaristi, mentre noi eravamo una squadra di ragazzi più o meno della mia età, tutti della provincia di Belluno, in gran parte agordini e zoldani. Un ulteriore nostro ruolo era quello di camerieri. Ai pasti avevamo l’incarico di servire a tavola i seminaristi e i superiori. Non di rado capitavano ospiti di riguardo, come vescovi o cardinali ex alunni del seminario. Tra questi ebbi anche l’onore di servire il cardinale Angelo Giuseppe Roncalli, più tardi Sua Santità Papa Giovanni XXIII.

Roma, 1955. Isidoro in divisa da cameriere.

Nella primavera del 1957 mi capitò l’occasione di trasferirmi a Bolzano, dove uno zio aveva una piccola impresa di pittura. Iniziai allora da apprendista la mia vera carriera. Rimasi a Bolzano per i tre anni dell’apprendistato e per un quarto da operaio, mentre nell’inverno del 1960-61 un mio paesano che da anni lavorava in Svizzera mi chiese se non avessi interesse a espatriare. Era pittore anche lui e visto che stava per cambiare ditta, dal suo vecchio capo si sarebbe liberato un posto. Fu così che a marzo del 1961 arrivai per la prima volta a Herisau, nel Canton Appenzell, dove mi trattenni per otto stagioni, fino al 1968.

Appenzell, 1967. Isidoro (sulla vespa) con il fratello Claudio (in basso a sinistra)
e due colleghi di lavoro.

A metà degli anni Sessanta a Herisau venne fondata una delle prime Famiglie Bellunesi, grazie al signor Giacomo Ponte di Lamon e ad altri collaboratori. Anch’io fui tra i soci della prima ora ed ebbi in consegna il gagliardetto della Famiglia, che portai in corteo ai raduni in varie località della Svizzera, tra San Gallo, Sciaffusa, Lugano e così via. Nel 1968 la mia famiglia al completo si trasferì a Bolzano, dove già lavoravano mio padre e due sorelle, e così decisi anch’io di rientrare dopo quasi sedici anni.

Nell’anno scolastico 1969-70 frequentai a Bolzano le scuole medie serali. Grazie al diploma di licenza media – e a una discreta conoscenza della lingua tedesca acquisita negli anni in Svizzera – qualche tempo dopo ebbi la possibilità di entrare alle dipendenze dell’amministrazione provinciale di Bolzano in qualità di assistente ai servizi agrari. Vi rimasi per quasi vent’anni, fino al pensionamento. Nel frattempo mi sposai (nel 1974), ebbi due figlie e ora ho anche due nipoti. Fino al suo scioglimento, fui socio della Famiglia Bellunese dell’Alto Adige.

Anche se non ho visto né l’Australia né le Americhe, sessantasette anni li ho passati fuori dalla provincia di Belluno

Dopo il pensionamento, per un po’ ripresi la vecchia carriera dell’imbianchino, ma da un paio d’anni mi dedico solo alla famiglia: moglie, figlie e nipotini. Un po’ mi vergogno ad autodefinirmi emigrante. Ma in fondo, anche se non ho visto né l’Australia né le Americhe, sessantasette anni li ho passati fuori dalla provincia di Belluno, e continuo a farlo. Con ciò penso di potermi dire “migrante” anch’io.

Isidoro Nardi

Donna schiava

Al mattino mi venne detto che mi sarei dovuto recare a Tebidaba per la manutenzione di routine. Assieme a me ci sarebbe stato Christopher, il futuro caporeparto nigeriano, che mi venne affiancato per fare esperienza. Io e Christopher ci conoscevamo da tanto tempo e tra noi c’era stima reciproca. Io lo apprezzavo per la sua umiltà e disponibilità, e lui ricambiava per le stesse ragioni. Inoltre, sapeva che in qualsiasi circostanza poteva contare sulle mie capacità.

Il viaggio da Brass a Tebidaba, quando tutto andava bene, durava circa quattro ore. Partimmo il giorno dopo verso le otto del mattino. Attraversammo un largo braccio del fiume Niger, uno dei tanti del suo delta e, giunti alla sponda opposta, ci inserimmo in uno dei piccoli canali. L’influenza della marea si faceva sentire, la navigazione lungo questi canali non era mai monotona.

Finalmente arrivammo alla flow station di Tebidaba. Ormai era mezzogiorno passato e pensavamo che il cuoco ci avesse preparato il pranzo. Purtroppo, però, come succedeva spesso, era rimasto senza viveri. Conoscendo la situazione, avevamo portato la scorta per alcuni giorni. Sistemate le nostre cose negli alloggi, ci recammo all’impianto per farci un’idea di quanto lavoro ci sarebbe spettato. Ritornando verso la mensa Christopher mi fermò e mi disse: «Vedi quella donna con il contenitore dell’acqua che sta salendo sulla canoa? Mi sembra di conoscerla, assomiglia a una ragazza scomparsa dal mio villaggio due o tre anni fa. Probabile che mi sbagli e che semplicemente sia una che le assomiglia fortemente. Al villaggio i familiari la piangono come se fosse morta».

Nelle poche parole scambiate con Christopher, gli disse che era stata rapita e venduta, e lo pregò di aiutarla a scappare.

Della cosa non parlammo più fino al mattino seguente, quando la donna venne ad attingere acqua al nostro rubinetto. Appena vide Christopher, con discrezione gli fece cenno di avvicinarsi. Gli disse chi era, e aggiunse che aveva paura, perché l’uomo con cui viveva era molto sospettoso. Se l’avesse vista parlare con qualcuno del campo l’avrebbe fatta fuori. In fretta riempì la tanica dell’acqua e ritornò alla sua capanna. Nelle poche parole scambiate con Christopher, gli disse che era stata rapita e venduta, e lo pregò di aiutarla a scappare.

Christopher venne da me e mi chiese consiglio su come farla fuggire. Riflettemmo un po’, poi decidemmo che sarebbe stato opportuno aspettare il giorno seguente. Nel frattempo, mettemmo al corrente della situazione il capitano responsabile dei trasporti, che saputo della situazione ci assicurò che avrebbe mandato quanto prima un Sea Truck per l’emergenza. Ci raccomandammo con il comandante del motoscafo di non fermarsi in nessun posto fino al Brass terminal, là ci sarebbe stato il capitano ad attendere la passeggera.

Il motoscafo partì subito. Il più era fatto, ma rimanemmo in ansia ad aspettare la chiamata del capitano. Finalmente verso le due del pomeriggio ci chiamò, dicendoci che la donna era arrivata sana e salva. Il giorno seguente, a metà pomeriggio arrivò alla capanna il rapitore. Lo vedemmo cercare affannosamente la donna, non trovandola, caricò le sue cose sulla canoa, incendiò la capanna e partì sul delta del Niger. Dissi a Christopher: «Tutto è bene quel che finisce bene».

Giacomo Alpagotti

A sinistra, Giacomo Alpagotti

Una famiglia di gelatieri

Oltre a guardare avanti e dare sempre il meglio di noi stessi, credo sia importante guardare anche indietro e conservare il nostro passato, o meglio quello dei nostri genitori, nonni, bisnonni. Mantenere viva la memoria, come un fuoco che arde di continuo, senza mai fermarsi. Dare voce a una parte del nostro essere, per ricordare chi sono stati i nostri avi e raccontare un po’ della loro vita.

I gelati, come gli occhiali, sono sempre stati i simboli del Bellunese, della nostra cultura, della nostra gente, e hanno dato lavoro a tantissime persone che hanno fatto conoscere all’estero l’aria e il profumo delle nostre montagne. La freschezza dei gelati riportava ai rigidi inverni e il sorriso dei gelatieri, che servivano i coni pieni di crema, rimandavano alla bellezza delle cime infuocate dai tramonti.

Nelle fredde città della Germania, lungo le vie percorse da grandi palazzi ottocenteschi e dal viavai dei tedeschi che camminavano guardinghi con un giornale in mano per i marciapiedi, si vedeva una specie di negozio, con un’insegna scritta in tedesco che riportava i nomi delle nostre montagne, come “Pelmo”, “Cristallo”, e cognomi bellunesi come “De Lorenzo” o ”De Pellegrin”, o ancora nomi come “Freddi Desideri”. Ma non erano negozi, erano le gelaterie dei nostri avi, gelaterie che davano un senso di amicizia, fratellanza e dove si ritrovavano i tedeschi di qualsiasi età per gustare la bontà dei gelati, con un’infinità di gusti a disposizione.

Anche io sono nipote di gelatieri. Il mio prozio Wiliam da giovane andò in Germania, assieme a una sorella, a fare i gelati. Lavoravano nella stessa gelateria. Poi, una volta tornato a Feltre, imparò il mestiere del barbiere da un certo Pietro, che aveva il negozio in piazza Isola, e quando non aveva ancora la macchina si faceva tutto il tragitto in bicicletta da Fonzaso a Feltre, nove chilometri andata e ritorno ogni giorno e con qualsiasi tempo. Fino a quando, presa la macchina e fatta un po’ di esperienza, si aprì un suo negozio a Feltre, vicino alla stazione, dove ancora oggi i figli portano avanti il suo lavoro.

Si può dire che tutta la sua famiglia è formata da gelatieri. Mia nonna (sua sorella), un altro fratello e altre sorelle, tutti presero la via dei gelatieri. All’inizio, quando avevano quattordici anni, partivano con delle famiglie zoldane, da Forno, e andavano a fare le stagioni nelle gelaterie in Germania o a pochi chilometri dall’Olanda, e se ne stavano lontani da casa da fine febbraio a inizio ottobre, quando iniziava l’inverno.

Mia nonna mi raccontava che i suoi quindici anni li compì proprio in Germania. Di sera la padrona la portava in giro per Francoforte, con tutti i negozi chiusi e un silenzio assordante. Era l’unico momento libero che aveva perché nel resto del tempo era impegnata a lavorare in gelateria.

Un’altra cosa che mi diceva era che la padrona la obbligava a tagliarsi i capelli, perché per quel mestiere non dovevano essere lunghi, e che il giorno prima di partire per la Germania andava a dormire nella casa dei padroni a Forno di Zoldo e vedeva il Pelmo, che si mostrava con tutta la sua maestosità e bellezza sopra il paese. Il ricordo di questa montagna ce l’ha sempre avuto nel cuore, e ancora oggi ne parla con fierezza e ammirazione.

Matteo Pizzeghello

La famiglia Isoton

Generino Isoton ha ottantuno anni e risiede a Capela São Francisco della 6ª Légua, Caxias do Sul, in Brasile. È discendente di Liberal Isotton (nato nel 1860) e Joana Dal Pont (nata nel 1859), bellunesi. Jordana Marchioro Isoton ha raccolto per noi la sua storia

Generino mi racconta che i quattro fratelli Isotton scelsero di imbarcarsi per il Brasile intorno al 1880. Vennero infatti a sapere che il governo brasiliano stava offrendo strumenti per costruire e terra da coltivare alle famiglie intenzionate a emigrare alla ricerca di una nuova opportunità di vita.

All’epoca l’Italia stava affrontando una guerra politica che aveva portato con sé mancanza di lavoro e fame. Anche in Brasile all’inizio fu difficile. Tutto era una grande foresta fitta nella quale si doveva lavorare. Per non morire di fame, l’alimentazione si basava sulla selvaggina e sui frutti della zona, fortunatamente abbondanti. L’agricoltura, invece, era ancora scarsa poiché la terra doveva essere preparata per la semina. Il governo aveva messo a disposizione solo gli strumenti e le sementi, la manodopera era a carico delle famiglie.

Joana e Liberal

I suoi nonni, Liberal e Joana, si sposarono nella città di Caxias do Sul nel 1882 ed ebbero dodici figli, sette femmine e cinque maschi: José, Tereza, Elena, Antônia, Cristiano, Bernardo, Jacomina, Josephina, Antônio, Colastica, Liberal (Velino) e Corona. La loro casa venne costruita in argilla e pietre e divisa, per sicurezza, in due costruzioni, una per la cucina e un’altra per le stanze da letto, poiché il fuoco utilizzato per cucinare veniva acceso per terra e mantenuto in vita tutto il giorno. Generino spiega che attaccavano al tetto una catena, chiamata in dialetto “cadena”, o “segosta”, e all’altra estremità la pentola.

Per comunicare tra loro utilizzavano il dialetto del paese di origine, chiamato anche dialetto Feltrin

La vita quotidiana della famiglia era segnata dal lavoro nell’agricoltura. Gli Isotton possedevano terreni coltivati non solo a Caxias Do Sul, ma anche in altre zone del Brasile. Queste erano le loro risorse principali per guadagnare e sostenersi. Per comunicare tra loro utilizzavano il dialetto del paese di origine, chiamato anche dialetto Feltrin, dato che la comunità era composta quasi totalmente da immigrati italiani. Il portoghese fu introdotto come lingua attraverso le scuole all’inizio del XX secolo, costringendo le persone a parlare la lingua ufficiale nazionale. Questa introduzione aveva però anche un’altra finalità, quella di ridurre l’attrito tra nazionalità diverse provocato dalle guerre, visto che molti degli immigrati erano stati costretti a tornare in Europa per combattere.
In quel periodo le scuole non avevano una specifica divisione tra livelli educativi. C’era un’unica classe e il professore era una persona con spiccate conoscenze, ma non necessariamente un laureato.

La famiglia Isoton

Generino è il figlio minore di Bernardo Isoton e Maria Forner. Da bambino, verso i nove anni, ha iniziato a lavorare insieme alla famiglia nella coltivazione di mais, fagioli, grano e riso. Ricorda che le mattine erano dedicate agli studi e i pomeriggi al lavoro nell’agricoltura. Nei fine settimana i bambini si divertivano a giocare con la fionda, a calcio – con il pallone di stoffa – e con una specie di go kart fatto di legno. La domenica pomeriggio i membri della comunità si incontravano in chiesa per recitare il rosario. Dopo aver pregato, lui e gli altri ragazzi giocavano insieme.
La comunità di Capela São Francisco da 6ª Légua aveva costruito la sua prima chiesa nel 1887 con l’aiuto delle famiglie Isotton, Rigon, Comiotto, Francischetti e Dal Piccoli.

Ha trovato interessante il fatto che siano riusciti a parlarsi con lo stesso dialetto, anche se nel periodo della scuola la professoressa obbligava gli studenti a parlare solo il portoghese.

Oggi, mi dice Generino, il contatto con la famiglia Isoton in Italia è stato perso completamente, però lui ha avuto l’opportunità di conoscere persone di Belluno nella festa della Famiglia Comiotto, svoltasi nella Parrocchia di Capela São Francisco da 6ª Légua. Lì ha approfittato del momento per chiacchierare sul passato, chiedere dell’emigrazione dall’Italia e confermare le storie raccontate dai suoi nonni. Ha trovato interessante il fatto che siano riusciti a parlarsi con lo stesso dialetto, anche se nel periodo della scuola la professoressa obbligava gli studenti a parlare solo il portoghese. Non è stato facile, spiega Generino, imparare tutte e due le lingue contemporaneamente, perché a casa i suoi genitori parlavano solo il dialetto veneto.

A proposito di lavoro, lui ha seguito la professione di famiglia nell’agricoltura, riuscendo a crescere tre figli ai quali ha trasmesso le sue competenze. A casa la produzione di vino, pasta, ragù, brodo è ancora la stessa imparata dai nonni. Purtroppo l’industrializzazione, insieme alla crescita demografica, poco a poco ha introdotto altri metodi e professioni e l’essenza della cultura italiana del passato è stata persa. Se ne possono vedere delle rievocazioni attraverso il cinema, gli spettacoli teatrali, i cori in lingua italiana e la gastronomia, che attualmente muove il turismo nella regione della Serra Gaucha.

Jordana Marchioro Isoton

Tra Soccher e l’Argentina. Storia di un legame mai interrotto

Sergio Pierobon nacque nel 1931 a Montereale Valcellina, in provincia di Pordenone, dove il papà Angelo – che lavorava come capo cantiere per un’impresa di costruzioni – si era trasferito con la famiglia. 

La famiglia di Sergio, però, era originaria di Soccher, e seguì Angelo nei suoi vari spostamenti in Italia fino alla fine della Seconda guerra mondiale. Angelo venne colpito a un occhio da una grave malattia che non gli permise di continuare nel suo lavoro. Giunti a questo punto della storia, bisogna fare una breve premessa.

La storia di emigrazione della famiglia Pierobon da Soccher ebbe inizio nel 1915, quando Vittore, il nonno di Sergio, decise di andare in Argentina, allora terra veramente promessa, per poter fare fortuna. Nel 1922 lo raggiunse il figlio Giovanni e nel 1923 partì anche la moglie Anna con la figlia Pia, appena nata. Anna viaggiò con la nave “Principessa Mafalda”, tristemente nota perché in una traversata successiva verso il Sud America naufragò al largo di Rio de Janeiro con centinaia di vittime.

In quegli anni di miseria in Italia, l’Argentina era ancora in piena espansione economica

E ora riprendiamo da dove ci eravamo interrotti. Terminata la guerra, Angelo si operò l’occhio ma, una volta guarito, nel dicembre 1948 decise ugualmente di raggiungere il padre e il fratello lasciando a casa la moglie Rosina e i suoi tre figli. In quegli anni di miseria in Italia, l’Argentina era ancora in piena espansione economica e presentava infinite possibilità di cominciare una nuova vita.

Con i primi guadagni, Angelo decise di farsi raggiungere dalla famiglia. E così il 31 marzo 1950 Rosina e i due figli più piccoli – Sergio di diciannove anni e Vanna di sei – si imbarcano a Genova sulla motonave “Conte Grande”, con destinazione Buenos Aires. In Italia rimase la figlia maggiore Milena, che nel frattempo si era sposata. 

Il viaggio fu alquanto disagiato. Rosina e Vanna dovettero dividere la cabina con altre persone mentre Sergio dovette dormire in un «casermone» (sono le sue parole) con circa cinquecento altri uomini. Arrivarono a Buenos Aires il 16 aprile. 

Sergio raccontava che all’inizio la vita fu molto difficile, per la diversità della lingua, per i problemi con i documenti e per la mancanza di una propria abitazione: nei primi tempi dovettero infatti convivere con lo zio Giovanni. 

Il padre Angelo lavorava come capo cantiere edile e così, dopo un po’, anche Sergio iniziò a lavorare nel ramo delle costruzioni. Era una vita di sacrifici, ma con i primi risparmi decise di acquistare un terreno in una “quadra” di Bernal, sobborgo allora al limite Sud di Buenos Aires, per costruirsi una propria casa.

A quell’epoca era usanza che tutti gli italiani immigrati si aiutassero a vicenda per costruire le loro case, mettendosi a disposizione nelle giornate di sabato e di domenica. Fu così che Angelo e Sergio poterono terminare la loro abitazione in Calle Maipù 32. In questa casa Sergio visse tutta la propria vita.

Nei primi anni di emigrazione Sergio lavorò con il padre e si iscrisse a una scuola serale dove conseguì il diploma di Geometra. 
Nel 1956 sposò Dorina, anche lei emigrata, da Altamura, in Puglia, con la famiglia. Dalla loro unione nacquero due figli, Mario e Laura. 

In Argentina, già da diversi anni la situazione politica ed economica si era fatta caotica e burrascosa, al punto di far desiderare il ritorno di tutta la famiglia in Italia.

Nei primi anni i contatti con la sorella rimasta in Italia furono solamente epistolari. Poi, con la possibilità delle comunicazioni intercontinentali, anche telefonici. Solo nel 1964 il papà Angelo, Rosina e Vanna ritornarono per la prima volta in Italia, ritrovandola in pieno boom economico. In Argentina, invece, già da diversi anni la situazione politica ed economica si era fatta caotica e burrascosa, al punto di far desiderare il ritorno di tutta la famiglia in Italia. Ma nonostante la nostalgia per Soccher fosse sempre forte, decisero di rimanere a Bernal. 

Sempre nel 1964, Sergio decise di lasciare il lavoro con il padre e venne assunto da un’impresa italo-argentina, la Techint, per la quale lavorò fino alla pensione. Questa nuova occupazione lo portò anche a girare il mondo (Cile, Indonesia, Venezuela e Colombia, a volte accompagnato dalla famiglia, altre volte da solo), sempre come capo cantiere, e a condurre lavori di grandi complessità.

Raggiunta infine la pensione, dagli anni Novanta lo zio cominciò a viaggiare non più per lavoro, e tornò regolarmente in Italia con la moglie Dorina, mantenendo così i rapporti con la famiglia di origine, che ricambiò le visite. Anche io nel 2008 finalmente ho potuto andare con mia moglie Patrizia a riabbracciare gli zii e i cugini. A questo primo viaggio ne sono seguiti altri. Durante le nostre permanenze, Sergio ha sempre voluto conoscere le novità del suo paese, di cui ricordava aneddoti, fatti e persone, a dimostrazione di un profondo e immutato legame tenuto vivo nonostante la lontananza.

Nel 2014 Sergio venne colpito da una grave ischemia che ne compromise fortemente la salute. Ha lottato per sette anni, aiutato dai famigliari, fino a domenica 24 gennaio 2021, quando all’età di ottantanove anni si è spento, lasciando in Argentina e in Italia un vuoto che potrà essere colmato solamente attraverso il legame che lui ha costruito tra i due continenti.

Il nipote, Eligio Pison

Al centro Eligio e Patrizia con i famigliari Sergio, Dorina, Vanna ed Edoardo, davanti alla casa di Bernal.