Cròmere e Nèrte: donne da soma

Cromera

La chiamavano Mariéta Pasànega (1).
Mariéta era il diminutivo dialettale di Maria, Pasànega il soprannome che, un tempo, veniva spesso appiccicato o sostituito al cognome anagrafico per distinguere una famiglia da un’altra, data la frequente omonimia che caratterizzava gli abitanti dei piccoli borghi di montagna e non solo. Questi soprannomi potevano derivare dal nome proprio del fondatore della famiglia, dal mestiere esercitato, da una caratteristica fisica o di costume, dal toponimo del luogo di provenienza e così via.

Mariéta era una donna piccola e, all’apparenza, gracile; figura che celava però una forza e una tenacia non comuni, tipiche delle montanare. Rimasta vedova, per mantenere la famiglia esercitava il mestiere di Cròmera (2). Partiva a inizio settimana caricandosi sulla schiena la cassèla (3) piena di articoli di varia merceria che non è azzardato dire pesasse quanto lei, e si inoltrava a piedi in direzione della vallata agordina. Faceva ritorno nel fine settimana; nel frattempo, i figli erano custoditi e accuditi dalla loro sorella maggiore poco più che dodicenne.

Mariéta, verso la quale chi scrive ha un legame di “affinità” (4), è lo spunto per tratteggiare due figure femminili (sebbene il genere non sia esclusivo), la Cròmera, appunto, e la Nèrta (5), unite da un comune percorso di dura peregrinazione.

Il secco titolo del libro “Furono sempre le donne a portare” (6) appare eccessivo, ma è indubbio che la donna abbia dovuto caricarsi sulle spalle, in senso non solo metaforico, pesi assai ardui da sostenere. Basti pensare al sistema di trasporto imposto dalla morfologia del nostro territorio, dove a dominare erano il pendio e la carenza di strade rotabili e toccava quindi a schiena e spalle portare la dhèrla (7), la crazh (8), la fièrcla (9) per vincere la forza di gravità, calpestando un suolo spesso accidentato e infido. E cominciavano da giovani, troppo giovani, a portare carichi eccessivi, che non di rado lasciavano segni duraturi sui fragili fisici ancora in formazione (gambe storte, scoliosi, deformazione del bacino).

Ci occupiamo qui solo di Cròmere e Nèrte in quanto figure emblematiche di una singolare forma di emigrazione, in genere a breve raggio (ma non sempre) e temporalmente contenuta (ma non sempre), che potremmo definire “fuoriporta”. Non si tratta di un’emigrazione “minore”, perché ogni forma si porta appresso il proprio stigma, le proprie spine, ed è dettata da una comune motivazione di fondo che ha le sue radici in una condizione socioeconomica inadeguata. L’emigrare è un’opzione, sia che nasca da una necessità, com’è per lo più avvenuto, sia che punti a un traguardo di auto-affermazione.

Il fenomeno in questione, nato dall’esigenza di integrare il magro reddito dell’agricoltura locale, assunse prevalentemente il carattere della stagionalità. Non sono mancati, tuttavia, casi in cui i protagonisti, in questo caso maschi, hanno raggiunto traguardi importanti, soprattutto all’estero, divenendo titolari di negozi e attività commerciali di rilievo.
Si tratta di un fenomeno endemico delle valli alpine, dove il terreno coltivabile era insufficiente in termini di estensione, fertilità e condizioni climatiche, ad assicurare il necessario per vivere e quindi, quando anche la pastorizia transumante andò in crisi in seguito ai crescenti divieti a far svernare le greggi in pianura, bisognò escogitare qualcosa di nuovo, di alternativo.

Una rapida disamina dell’”ambulantato” commerciale del Triveneto ci fa conoscere la geografia e la specificità del fenomeno. Citiamo qualche esempio. Nel Tesino, la riconversione portò gli abitanti, in questo caso quasi esclusivamente maschi, a commercializzare dapprima le pietre focaie (soprattutto per gli archibugi) e poi le stampe sacre e profane dei Remondini di Bassano.

Nel confinante altopiano di Lamon l’attività cominciò con la vendita delle penne d’oca per proseguire con l’attività di cròmer e cròmere. In Carnia, il fenomeno dei venditori ambulanti (Cramars) ha radici antiche. Iniziato in forma stagionale per poterlo conciliare con i lavori agro-silvo-pastorali, è andato via via consolidandosi, espandendosi nell’oltralpe (Austria) e nella Mitteleuropa, assumendo non di rado carattere di stanzialità (negozi e ambulantato locale) (10).

Nella zona di Erto e Casso e nella Valcellina, sono in prevalenza le donne (Nèrte) a svolgere l’attività di venditrici itineranti, proponendo attrezzi per la casa confezionati dai vecchi e dai giovani (gli adulti sono per lo più impegnati in altre forme di emigrazione) durante la stagione invernale.

Cromera

Le Cròmere.

“E lóra, par darte na idèa mi è girà, mi è patì fam, mi è patì frèd, mi è patì mói, mi è combatù coi òmeni, mi è dormi ante le fóie moie… mi le è passae tüte!” (11)

La testimonianza sopra riportata riassume efficacemente l’esperienza, molto dura e sofferta, di una Cròmera, fatta di fatica, di patimenti, di disagi e di rischi.

Il suo strumento di lavoro era la cassèla, una sorta di cassettiera portatile in cui era riposta con cura la varia mercanzia; c’era anche il modello a fisarmonica che si apriva scoprendo contemporaneamente tutti gli scomparti ed era quindi particolarmente adatto ad esporre le merci in occasione di mercati, fiere, feste patronali che, assieme al porta a porta, facevano parte dell’itinerario tradizionale della Cròmera. Vale la pena rovistare un po’ in questi contenitori per conoscere la tipologia merceologica proposta alla clientela. C’erano articoli di merceria quali spagnolette di filo, bottoni vari, elastici, fettucce, cordoni da scarpe, cinture, tiràche (bretelle), gusèle (aghi per cucire), spille da balia, “uova” di legno da rammendo, ditali ecc.; articoli di biancheria come mutande, fanèle (maglie da sotto), calzini, fazzoletti da naso e da testa, traverse ecc.; materiale per l’igiene e la cura della persona come pennelli da barba, lamette, pettini, brillantina, saponette, specchietti ecc.; oggetti vari quali articoli di bigiotteria, tabacchiere, piccole roncole a serramanico, forbici ecc. (per poter vendere occhiali e arnesi da taglio occorreva aver compiuto 21 anni e avere la fedina penale pulita) (12). Si trattava quindi di una vera e propria boteghéta viaggiante.

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Oltre al materiale che era possibile allogare all’interno, la Cròmera legava sopra la cassèla la merce più ingombrante come telerie, scampoli di stoffe e qualche semplice capo di vestiario. La cassèla così organizzata raggiungeva a pieno carico un peso ragguardevole che poteva raggiungere i 30 chilogrammi e più ed era quindi assai disagevole, non solo da portare, ma anche da caricarsi sulle spalle e da posare. Il carico, con l’ampio fardello legato sopra la cassèla, sopravanzava alquanto la testa della Cròmera alzando il baricentro dell’insieme e rendendo instabile e difficoltoso l’incedere, specie se il terreno era accidentato. Gli spallacci, di canapa o di cuoio, provocavano sulla convessità mediale delle spalle un solco profondo, solo in parte attenuato dallo spesso bustino di stoffa o di pelle di pecora che, a guisa di piccolo scapolare (13) aperto anteriormente, veniva a tal fine indossato; all’inizio era dura, poi finivano col farci il callo.

Altro indispensabile strumento di lavoro della Cròmera era l’ombrello, che doveva essere particolarmente ampio da riparare sia lei che la cassèla, e soprattutto col manico robusto dovendo fungere anche da bastone di appoggio. Il suo abbigliamento, quale si deduce dalle foto che la ritraggono, era essenziale e votato alla praticità: abito per lo più scuro, traversa, scialle, fazzoletto annodato sulla nuca, scarpe robuste o scarpét a seconda della stagione; in un apposito fagotto teneva l’unico cambio che si portava appresso per alternarlo.

Alla fatica di dover affrontare lunghi percorsi a piedi con il pesante carico sulle spalle per raggiungere le case sparse, specialmente quelle più distanti dai centri abitati forniti di negozi che costituivano la clientela potenzialmente più propensa ad avvalersi del suo servizio, si aggiungevano i disagi di natura logistica e climatica (mi è patì fam, mi è patì frèd, mi è patì mói). I problemi maggiori che la Cròmera doveva affrontare erano quelli dell’alimentazione, del proteggersi dalle avversità atmosferiche e del trovare un posto in cui pernottare. Per alimentarsi doveva spesso affidarsi al buon cuore di qualche famiglia che la ristorava con quello che aveva, una fetta di polenta, un piatto di minestra o poco altro (dalle case dei contadini nessuno usciva a mani vuote) e le permetteva di trascorrere la notte, a seconda della stagione, nella stalla o sul fienile. La Cròmera, per gratitudine e per orgoglio, non mancava di compensare il suo temporaneo anfitrione con qualche oggetto del suo piccolo bazar itinerante.

Il passaggio, citato in apertura, che recita “mi è combatù coi òmeni”, sottintende le insidie che una donna, specie se da sola, poteva incontrare da parte di qualche malintenzionato, sia per quanto riguarda la sua integrità fisica, sia per quanto concerne l’essere derubata del denaro guadagnato o della merce trasportata.

Cromere

Fra la Cròmera e la sua clientela si instaurava un rapporto di fidelizzazione che la vedeva passare con puntualità “calendariale” presso le stesse famiglie, cui non solo vendeva la merce che si portava appresso, ma raccoglieva anche ordini e desiderata che si premurava di evadere al passaggio successivo, non solo per interesse, ma anche per il gusto di accontentare l’acquirente (a volte, cessata l’attività, la Cròmera continuava a intrattenere un rapporto epistolare con le famiglie a cui si era affezionata). Solitamente le Cròmere non si facevano concorrenza sleale, esisteva una sorta di tacito accordo in cui ciascuna aveva la propria zona di operazione e non invadeva quella altrui.

Il percorso delle Cròmere poteva essere del tipo “fuoriporta” come nel caso di Marieta Pasànega, ovvero limitato a itinerari brevi nel circondario che permettevano frequenti rientri, sia per non stare per troppo tempo lontane dalla famiglia, sia per approvvigionarsi di merce per il viaggio successivo, oppure di lunga durata quando affrontavano percorsi molto distanti da casa. L’ambito in cui svolgevano il proprio lavoro era comunque per lo più circoscritto all’area delle Tre Venezie, anche se non mancarono Cròmere che, in tempi più recenti (inizio ʼ900), si diressero verso la Svizzera, avendo come punto di riferimento emigranti lamonesi che fin dall’800 vi si erano insediati avviando una fiorente attività commerciale. Qui accorsero un buon numero di giovani Cròmere, che, d’intesa con i compaesani presso cui si approvvigionavano e spesso alloggiavano, formarono una rete di distribuzione capillare sul territorio che si rivelò proficua. Il fenomeno si protrasse fin verso gli anni ʼ70 del secolo scorso coinvolgendo, com’era avvenuto per altre figure dell’emigrazione femminile bellunese (ciòde e balie), altri soggetti dell’area parentale e amicale (14).

Cromera

Le Nèrte.
Il lavoro della Nèrta ha molti punti in comune con quello della Cròmera, tipici di questa peculiare forma di emigrazione itinerante: le motivazioni, la tipologia di lavoro, la mobilità, la cultura.

La Nèrta era, come la Cròmera, una venditrice ambulante che si muoveva a piedi e al posto della cassèla indossava la dhèrla (la differenza non è così netta al punto che le due figure tendevano spesso a sovrapporsi, sia come mezzo di trasporto merci utilizzato, sia come merceologia trattata).
Questa figura di venditrice girovaga ha preso il nome dal luogo di origine, il Comune di Erto Casso, ma la si ritrovava anche in altri centri della Valcellina come Claut e Cimolais.

La Nèrta era, per tradizione, la venditrice di utensili di legno da uso domestico. L’ambito territoriale cui qui ci riferiamo è indicativamente quello della provincia di Belluno; anche se le Valli del Vajont e del Cellina insistono geograficamente su territorio friulano, è indubbio che gravitino in maniera rilevante, ancor prima della costruzione della strada di collegamento, sul versante di Longarone e della Valle del Piave. L’altopiano di Lamon, terra di Cròmere, e quello più angusto di Erto e Casso, patria delle Nèrte, presentano entrambi le caratteristiche orografiche dei paesi prealpini e le problematiche che ne conseguono.

Le motivazioni di base che muovevano la Nèrta erano le stesse della Cròmera: necessità di trovare forme di integrazione del reddito che i piccoli e magri appezzamenti, assieme al minuto allevamento, non erano in grado di assicurare alla famiglia. Le Nèrte più giovani puntavano anche a guadagnare il necessario per farsi il corredo da sposa.

Le coraggiose e dinamiche donne di quella landa del Friuli Nord-occidentale non esitarono perciò a caricarsi sulle spalle la pesante dhèrla, colma di oggetti di legno che gli uomini non emigrati, assieme ai vecchi, ai ragazzi più grandi e talvolta alle donne stesse, realizzavano durante il lungo inverno. L’ambiente di lavoro era per lo più la stalla, maleodorante e male illuminata; gli attrezzi usati erano accette, coltelli a petto, pialle, scalpelli, trivelle, roncole e, importantissimo, il tornio, del tipo a balestra o a pedale. L’artigianato del legno, specie come utensileria, vantava in zona una consolidata tradizione; se ne ha notizia anche in un’istanza che quei villaggi hanno inviato al Senato veneto per essere esonerati da “gravezze” difficilmente sostenibili (15). Anche le Nèrte hanno avuto, in tempi più recenti, chi si è occupato della loro condizione. Il Sindaco di Erto Casso perorò la loro causa presso il Prefetto di Udine (1927), chiedendo una riduzione della cauzione da versare per l’esercizio dell’attività in quanto ritenuta troppo onerosa; successivamente, nel 1930, si rivolse alla Confederazione Nazionale Sindacati Fascisti del Commercio di Udine per chiedere un contributo a favore dei “girovaghi” del suo Comune (16).

Quella delle Nèrte era una vita grama; dovevano girare per case e mercati, con qualsiasi tempo, cercando di vendere la modesta mercanzia di cui era riempita la capace e pesante gerla che gravava sulle loro spalle lasciandovi, nonostante la dopéssa (17), segni incalliti. Solo con il miglioramento della viabilità poterono, a volte, disporre di un carretto, trainato quasi sempre a braccia (avvalersi di un asinello era privilegio di poche): viaggiavano solitamente in due o più, chi tirava e chi spingeva (18).

Rovistando dentro la gerla della Nèrta troviamo un ampio assortimento di oggetti di legno. Utensili da cucina, quali posate e stoviglie di legno, forchettoni e cucchiaioni per mescolare i cibi durante la cottura, mestoli da polenta, mattarelli, martelli a punte piramidali per battere la carne, portasale, mortai pestasale, portauova, sessole, taglieri di varie forme e dimensioni, stampi per burro; altri articoli per la casa come battipanni in canna d’india, spine, cannelle e tappi per le )botti, uova di legno da rammendo, zoccoli, fusi per filare, canói (19) – da cui il nome di Canolàre con cui erano note nel Veneto Sud-Occidentale (20). Quelle che disponevano del carretto vi caricavano anche merce più ingombrante come móneghe (21), botticelle, appendiabiti, portafiori in giunco, assi da bucato, sgabelli, poggiapiedi, seggiole ecc.

Per le donne di Erto l’andare in giro con il carico in spalla era un fatto naturale, accettato, e, per talune, addirittura preferito all’attività agricola. Non per tutte però. Un’anziana donna ertana confessa di aver detestato questo tipo di lavoro, al punto che, una volta cessata l’attività, bruciò la cassèla per non vederla più (22).

La tipologia del lavoro ricalcava quello delle Cròmere. Gli itinerari delle Nèrte comprendevano il Cadore, il Bellunese, l’Agordino, la Carnia con il resto del Friuli, la Lombardia e anche regioni più lontane; all’estero le loro mete erano l’Austria e la Svizzera. Ultimamente avevano esteso il commercio alla merceria e alla maglieria; armate quindi di cassèla e cesta o valigia, prendevano il treno a Longarone per raggiungere lidi più lontani.
L’esercizio dell’emigrazione itinerante ha indubbiamente contribuito al processo di emancipazione della “Nèrta”, pur permanendo forte il legame da essa conservato con il proprio paese e il patrimonio di tradizioni di cui è depositario.

La condizione di donna migrante, comune a Cròmera e Nèrta, ha indubbiamente inciso sulla sua mentalità e i suoi valori, le ha permesso di conoscere il mondo esterno, di venire a contatto con realtà diverse, di assorbire il contagio di altre culture che ne hanno sviluppato la capacità critica e l’hanno resa indipendente. Un ideale gemellaggio unisce Cròmere e Nèrte, protagoniste di una vera epopea in cui la donna, in questo caso la montanara, ha saputo ridisegnare, con tenacia e determinazione, la sua vera immagine, ben diversa da quella stereotipata che la voleva marginale e rassegnata. Anche l’emigrazione femminile itinerante, tipica della micro-mobilità alpina, ha quindi contribuito, al pari di altre forme, al processo di affermazione e autodeterminazione della donna.

Il lavoro di Cròmere e Nèrte resterà parte viva del nostro patrimonio di cultura immateriale, della nostra storia e della nostra peculiarità montanara.

Di Lois Bernard

Cromera

NOTE

1 Al secolo Maria Da Rold.


2 Cròmera – Venditrice ambulate porta a porta di mercerie e chincaglierie varie. Varianti al nome erano Krumern (Valle dei Mocheni – TN) e Cramar (Friuli), Mersàra (Merciaia – Veneto Sud-Occidentale).


3 Cassèla – Mezzo di trasporto da indossare a guisa di basto, fornito di cassetti o di apertura a fisarmonica, in cui era contenuto il materiale da vendere.


4 Nonna della moglie dell’autore.


5 Nèrta – Venditrice ambulante porta a porta di utensili di legno (Taglieri, mestoli, cucchiai, battipanni ecc.) fatti dagli uomini di casa durante l’inverno. Era chiamata anche Mestolaia (venditrice di mestoli), Sedonèra (Friuli) e Canolàra (Veneto Sud-Occidentale).


6 Brolati Paola, Furono sempre le donne a portare, Edizioni Fuoriposto, Mestre-Venezia, 2016.


7 Dhèrla – Gerla. Contenitore troncoconico di vimini, di varie fattezze e dimensioni, munito di spallacci e indossato a guisa di zaino, usato per portare le merci più disparate.


8 Crazh (detta anche rèfa, barcèla, fartòla) – Sorta di basto costituito da un telaio rettangolare di legno munito di un piano di appoggio e dotato di spallacci, anch’esso indossato a guisa di zaino. Usata per trasporti nei quali non era indicato l’impiego della dhèrla e dai careghéte per portarsi appresso i ferri del mestiere.


9 Fièrcla – Simile alla crazh, reca, in luogo del piano di appoggio, due aste incurvate che si sviluppano verso l’alto aprendosi e dando origine a uno scheletro che riprende vagamente la forma della dhèrla. Si presta al trasporto di mannelli di cereali, fascine di legna, tronchetti di legname di piccolo calibro ecc.


10 Molfetta Domenico, I cramars in viaggio, in Ferigo Giorgio, Fornasin Alessio (a cura di), Cramars. Atti del convegno internazionale di studi Cramars. Emigrazione, mobilità, mestieri ambulanti dalla Carnia in età moderna, Arti Grafiche Friulane, Udine, 1997.


11 Facchin Stefano, A sbolognar la maroca… I Cròmer di Lamon, nomadi per mestiere, in Francesco Padovani (a cura di), Con la valigia in mano. L’emigrazione nel Feltrino dalla fine dell’Ottocento al 1970, Libreria Editrice Agorà, Feltre (BL), 2004.


12 Facchin Stefano, A sbolognar la maroca… cit.
13 Lo scapolare è una sorta di sopravveste, usata dai monaci, costituita da una striscia di stoffa, con un’apertura per la testa, che ricade sul petto e sulle spalle.


14 Facchin Stefano, A sbolognar la maroca… cit.


15 Cantarutti Novella, Emigrazione femminile e cultura tradizionale a Erto, in Atti dell’Accademia di scienze lettere e arti di Udine, v. 76, 1983.


16 Boz Nadia, Grossutti Javier, Protagoniste o comparse? L’emigrazione femminile dal Friuli, in Verrocchio Ariella, Tessitori Paola (a cura di), Il lavoro femminile tra vecchie e nuove migrazioni. Il caso del Friuli Venezia Giulia, Ediesse, Roma, 2009.


17 Dopéssa – Coprispalle per la gerla (Claut, Valcellina), vd. Pirona Giulio Andrea, Carletti Ercole, Corgnali Giovanni Battista, Il Nuovo Pirona. Vocabolario Friulano, Società Filologica Friulana, Udine, 2020.


18 Peressi Lucio, Folclore della Valcellina. Portatrici di ieri e di oggi, in Sot la nape, a.12, n. 3-4, 1960.


19 Canói – bacchette forate in cui inserire i ferri da maglia.


20 Frigotto Pier Paolo, Di casa in casa. I vecchi mestieri ambulanti nel Veneto, Cierre Edizioni, Sommacampagna (VR), 2012.


21 Mónega – scaldaletto. Incastellatura di legno atta a ospitare il braciere.


22 Cantarutti Novella, Emigrazione femminile e cultura tradizionale a Erto, cit.

È uscito il nostro notiziario

La copertina del numero di 2 di marzo 2021 della rivista del Centro Studi sulle Migrazioni "Aletheia"

Siamo arrivati al secondo numero del notiziario del Centro Studi sulle Migrazioni “Aletheia”. Grazie alla collaborazione con Antonio Cortese, ex Direttore Centrale dell’Istat – è stato docente presso la Facoltà di Economia
e Commercio di Urbino e presso la Facoltà di Economia di Roma Tre – avrete modo di venire a conoscenza dell’emigrazione veneta in tre paesi del mondo ben definiti: Ploštine, Chipilo e Grigny. Daremo inoltre spazio
a una serie di testimonianze di emigranti bellunesi di ieri e di oggi, tratteremo anche di numeri e degli Agenti di emigrazione. Buona lettura.

8 marzo 2021, Festa della donna

10 storie di emigrazione femminile

Pubblichiamo in questa occasione dieci storie di donne bellunesi che hanno conosciuto l’emigrazione: chi quella temporanea e chi quella definitiva, qualcuna muovendosi entro i confini nazionali altre invece oltre, chi a seguito del marito e dei figli, chi in prima persona. Ognuna di loro è unica, come uniche sono la dedizione di queste donne per la famiglia e il lavoro, la determinazione e la forza nel sopportare le avversità e le sofferenze della vita. 


1. Maria Corso De Nando 

Maria Corso è nata a Pian del Vescovo di Lamon il 14 marzo 1905. Ancora giovane intraprese la strada dell’emigrazione recandosi per lavoro a Milano, poi in Germania e ancora in Svizzera, a Bellinzona. Nel 1940 sposò Romano De Nando di Arsiè ed insieme si spostarono nel Canton Uri. Nel 1942 nacque la loro figlia Marie-Louise. Due anni più tardi una fatale disgrazia le portò via il marito. Si trasferì quasi subito nel Cantone di Schwyz e nel 1950 ritornò a Erstfeld. Ha sempre lavorato come cuoca nelle mense per operai, soprattutto italiani. Rimasta sempre in Svizzera, è deceduta a Schattdorf il 12 agosto 1993.


2. Maria Flora Viezzer Dall’O 

Maria Flora Viezzer nacque a Peron di Sedico nel 1893. Nel 1914 sposò a Libano Antonio Dall’O’, del quale seguì sempre il destino; egli era dipendente della ditta Domenichelli. Nella sua vita Maria ebbe modo di dedicarsi in modo esemplare non solo agli otto figli (una dei quali religiosa in Sud America), ma anche agli altri, soprattutto ai poveri e agli ammalati. Nel 1927 si trasferì con la famiglia a Padova, dove dedicò il suo tempo libero al terzo ordine francescano con l’assistenza ai meno abbienti e ai sofferenti. Trasferitasi successivamente a Verona, svolse le stesse opere caritatevoli a servizio della parrocchia di San Pancrazio in Porto. Fu donna attiva e caritatevole anche presso l’Opera “Dame della Carità”, di cui era presidente, sempre in forma discreta e tempestiva. Morì l’8 novembre 1973 a Verona. 


3. Monica Fontana

foto si Maria Fontana con il suo negozio ambulante sulle spalle

Monica Fontana è stata una donna venditrice ambulante, una cròmera. Il suo viaggio per le vie della Svizzera è cominciato subito dopo l’ultima guerra mondiale. Percorse sei Cantoni e poi si stabilì in quello di Sciaffusa dove viveva con un nipote. Di là Monica pensava a suo marito, malato, e alla figlia che risiedevano a Belluno e regolarmente mandava loro i frutti delle sue fatiche. Era una camminatrice Monica, sempre portando sulle spalle il suo negozio volante tra i casolari sparsi. E con la merce portava il sorriso e la bontà degli italiani. Si ritirò solo quando la salute non le permise di continuare: chiuso con il commercio ambulante, decise di rimpatriare e di raggiungere i suoi cari per godersi insieme a loro le sue belle montagne. Molti hanno rimpianto mamma Monica e la sua bella figura di donna modesta, che va elogiata per la sua perseveranza e abnegazione. 


4. Maddalena Selle

Maddalena Selle era originaria di Tiser di Gosaldo. Fu nominata Cavaliere di Vittorio Veneto, una delle pochissime donne che hanno avuto questa onorificenza, una donna che la Grande Guerra non l’ha solo vissuta ma anche combattuta in qualità di portamunizioni: a soli 16-17 anni, portava nella sua gerla l’occorrente per far saltare le rocce teatro di guerra. Dopo il conflitto seguì il destino di molte donne agordine ed emigrò nella zona di Milano, rimanendovi per tanti decenni e dove si è formata una famiglia. Fu socia della Famiglia Bellunese di Milano, divenendo presto la sua beniamina. 


5. Angelina Zampieri

foto di Angelina Zampieri

Angelina Zampieri nacque il 28 dicembre 1898 a Visome di Belluno, figlia di Giuseppe e Teresa Trevisson, una coppia originaria di Polentes di Limana. Angelina apparteneva ad una famiglia povera e quando aveva solo sei anni lasciò famiglia, giochi ed amicizie, per andare in Francia, ospite di parenti. Qui rimase fino ai dodici anni quando era grande abbastanza per dare una mano nei lavori di casa e tornò in famiglia; dovette però rifare ben presto la sua povera valigia e ritornare in casa d’altri, stavolta in condizione di piccola serva, una cioda, come i trentini definivano le donne bellunesi. A Pove di Trento divenne domestica del falegname settantenne Bartolo Maggioli, l’uomo che si rivelò il suo aguzzino e che non tardò a minacciare la ragazza per soddisfare i suoi istinti maschili. Lei lo respinse sempre con decisione e riuscì anche a farsi cambiare di casa, ma lui decise di ucciderla. Lo fece con quindici coltellate sul pianerottolo della casa in cui la giovane prestava servizio. Era il 24 luglio 1913. Migliaia di concittadini presero parte al suo funerale; la salma fu inizialmente tumulata presso il cimitero di Trento, poi, nel 1972, i poveri resti furono portati a Limana. Da molti è considerata la Maria Goretti del Bellunese, dato che prima di morire perdonò il suo assassino chiedendo a Dio che lo accogliesse in Cielo. 


6. Luigia Angela Sacchet

Luigia Angela Sacchet nacque a Cesiomaggiore l’8 gennaio 1899. Quando il marito dovette partire per l’America, emigrò da sola per Biella per poter mantenere i suoi figli, provvisoriamente affidati ai genitori. Era il 1932. Trovò lavoro come balia. Ebbe cinque figli, due dei quali morirono giovani, seguiti dal marito, mai più rivisto. Si riunì con i figli a Biella dove visse e trascorse gli ultimi anni circondata dai suoi cari. Aveva una straordinaria forza d’animo che la sorreggeva nei momenti di dolore e nelle fatiche. Aveva sempre un sorriso e affetto per tutti. Morì a Biella il 23 settembre 1987, andando incontro alla morte con pace e serenità. 


7. Elena Boschet De Vallier

Foto di Elena Boschet che tiene in braccio la bisnipote Elena
Elena Boschet con la bisnipote, sua omonima

Elena Boschet è originaria di Celarda di Feltre; dopo due anni di lavoro presso l’ospedale cittadino, all’età di diciotto anni decise di emigrare in Svizzera, dove conobbe quasi subito Adelio De Vallier, originario di Laste di Rocca Pietore, emigrante nella zona di Neuchatel come operaio meccanico specializzato. Era il 1947. Si sposarono dopo un anno e dopo due ebbero la loro prima figlia, Diana, a cui fece presto compagnia il secondogenito, Walter. Dopo quattro anni in terra elvetica, Adelio decise di andarsene dall’Europa e raggiungere il Sudafrica, dove ottenne quasi subito un contratto di lavoro. Elena però era incinta e quindi decise di partorire prima il terzo figlio, Gianni, e di affrontare poi il viaggio da sola, senza il marito. Nel settembre 1958 Elena si imbarcò ad Amsterdam sulla nave Duncan con i tre figli per raggiungere il marito a Vanderbijlpark, città situata nella zona nordorientale del Paese. Qui si sistemarono inizialmente in una casetta in affitto ed Elena ricorda la felicità di vivere in un clima caldo, dove i bambini potevano giocare all’aria aperta per buona parte dell’anno. Dopo alcuni anni si trasferirono a Johannesburg, dove nacque l’ultimo figlio, Patrick. Per un certo periodo, quando i ragazzi cominciarono a frequentare l’università, Elena lavorò in un supermercato, dove era a capo del personale, costituito perlopiù da uomini e donne di colore, dai quali ha sempre avuto rispetto e collaborazione. Dopo più di quarant’anni di Sudafrica, nel 1999 Adelio e Elena decisero di tornare definitivamente a Laste, pur con l’intenzione di ritornare di tanto in tanto a Johannesburg, dove risiedono Walter e Gianni con le loro famiglie; Diana invece si è stabilita a Londra e Patrick a Brisbane, Australia. Purtroppo però, poco dopo il ritorno, Adelio si ammalò di un male incurabile che lo condusse alla morte. Tuttora Elena è in Sudafrica e la pandemia non le consente il rientro nel Bellunese; si gode l’ultima bisnipote, che porta il suo stesso nome. Dolcezza, umiltà e grande spirito di adattamento sono tratti caratteristici di questa donna straordinaria, un’altra espressione di laboriosità e dedizione alla famiglia, tipica della nostra emigrazione. 


8. Caterina De Martin Rosso

Caterina De Martin Martinon era originaria di Sedico, dove era nata nel 1848. Rimasta vedova del marito Giovanni Rosso, dopo pochi mesi lasciò il suo paese e la povertà che vi regnava e con i sette figli, tutti minorenni, emigrò verso il Brasile. Era il 20 dicembre 1888. Il figlio più piccolo aveva due anni, il maggiore venti ed aveva con sé la moglie diciassettenne, originaria di Barp. Si stabilirono nella zona di Criciuma, nello Stato di Santa Caterina, che raggiunsero da Laguna grazie al treno con uno dei primi viaggi sulla neonata linea ferroviaria. Ottenne inizialmente un unico lotto per sé e per i figli: qui costruirono la loro casa e vissero coltivando la terra. A Morro Albino, Caterina morì nel 1920.


9. Maria Cason Tonet

foto di Maria Cason, forse ventenne

Maria Cason nacque a Pren di Feltre il 14 settembre 1916, decima figlia di Giuseppe e Antonietta Buttol, i quali si erano conosciuti in Svizzera a fine Ottocento, entrambi emigranti. Giuseppe e Antonietta vissero per un certo periodo a Zurigo, dove ebbero i loro primi quattro figli, poi rientrarono a Pren; tra un figlio e l’altro Giuseppe continuò ad emigrare, dapprima in Svizzera e in Francia come muratore e poi nell’Agro Pontino per le bonifiche dell’epoca fascista. Anche i figli conobbero presto l’emigrazione, chi in “Tirol”, come si diceva allora, ciodet presso i contadini trentini, chi nell’edilizia, chi a servizio di qualche famiglia facoltosa della pianura. Maria partì a diciassette anni e la sua prima destinazione fu Milano, a servizio presso una famiglia del centro città. Il lavoro era duro, cominciava presto il mattino e finiva tardi la sera; solo la domenica pomeriggio aveva qualche ora libera. Teneva qualche soldo per sé, il resto lo spediva a casa. Di solito faceva il contratti di un anno o un anno e mezzo, poi finalmente faceva ritorno a casa per riabbracciare genitori e fratelli, quelli che c’erano. Si fermava un mese circa, poi ripartiva, con un altro contratto in mano. Anche se non si trovava bene come lavoro, cercava di tener duro almeno un anno, per timore che si dicesse che non aveva voglia di lavorare. Anche a distanza di tanti anni, Maria ricordava tutti i nomi dei datori di lavoro, dei quali conservava un bel ricordo. Tutte le sue amiche del paese sono partite per andare a servizio, molte sono ritornate, qualcuna ha trovato marito là. Nel ’49 si è sposata con Antonio Tonet. Dopo qualche anno a Pren, ha seguito il marito che emigrava come muratore stagionale in Svizzera; inizialmente lavorò come cameriera in un ristorante, poi prestò servizio presso una famiglia di Zurigo, occupandosi della casa e dei due figli della coppia. Nel 1961 rientrarono definitivamente in Italia e si sistemarono nella casetta che avevano costruito con tanti sacrifici. Maria morì a Pren il 27 aprile 2017. 


10. Orsolina Zatta Cecchin

foto di Orsolina Zatta

Orsolina Zatta nacque il 6 luglio 1923 a Tomo di Feltre, figlia di Umberto e Ida Marin. Dopo la seconda guerra mondiale, sperando in un futuro migliore al di là dell’oceano, decise di emigrare in Brasile con il marito Guerrino Cecchin e la figlia Rita. Si stabilirono nel Rio Grande do Sul, dove furono agricoltori per i primi quattro anni; poi Guerrino ebbe problemi agli arti inferiori, così decisero di trasferirsi nel centro urbano di Caxias, dove Orsolina fu impiegata nella fabbrica di tavole di compensato Gethal per quindici anni. In Brasile la coppia ebbe altre due figlie, Rosalba e Rosanna. Orsolina e Guerrino seppero mantenere anche in Brasile la loro cultura italiana, specialmente per ciò che concerne la religiosità e la cucina. Ambedue speravano un giorno di poter rivedere l’Italia: “la è dentro qua tel còr” diceva Orsolina riferendosi alla sua amata Patria. Nelle ore libere amava camminare e coltivare il piccolo orto, accontentandosi delle piccole cose. Con allegria, generosità e umiltà lasciò un esempio di vita per tutti. Morì il 3 febbraio 2012. 

A cura di Luisa Carniel

Franco Zannini

Nato a Sovramonte, dopo la guerra Franco Zannini era arrivato nel nord della Francia, doveaveva sposato un’emigrata lombarda, dalla quale aveva avuto quattro figli (una ragazza è impiegata al Parlamento Europeo). Egli era personaggio dalle molteplici attività, molto amato e conosciuto a Lexy per la sua disponibilità al dialogo con tutti. Lavorava in un laminatoio e nello stesso tempo faceva il corrispondente del giornale regionale, si interessava di sport e aveva fatto anche attività sportiva. Fu l’artefice del gemellaggio Lexy -Sospirolo e dei rapporti proficui con Longarone: scambi di studenti, visite reciproche, incontri sportivi tra squadre bellunesi e francesi hanno sempre visto Zannini in prima fila. Nonostante gli oltre trenta anni di permanenza in Francia manteneva uno stretto rapporto affettivo con la terra d ‘origine. E’ deceduto a soli 56 anni per un banale incidente stradale proprio mentre stava tornando dalla stazione dove aveva appena accompagnato un gruppo di ragazzi in partenza per Longarone, nel quadro degli scambi culturali che lo aveva visto protagonista a Lexy. In questa cittadina francese egli animava anche la Famiglia Bellunese dell’Est della Francia. Nel momento dell’estremo saluto, la chiesa di Lexy, pur essendo di grande capienza, risultò essere troppo piccola per contenere tutti gli amici venuti a rendergli un ultimo omaggio, un omaggio al loro amico, uomo di grande valore morale e di eccezionale dinamismo. La notizia della sua morte immatura destò profonda costernazione non solo a Lexy, ma anche a Longarone e Sospirolo ed in tutti gli ambienti dell’emigrazione bellunese ove contava numerosi amici. Memorabile è rimasta la sua immagine, davanti all’Altare della Patria, con il casco da minatore, nel corso del raduno mondiale a Roma del ‘73. Lo vogliamo ricordare cosi, sicuri che la stessa luce del casco da minatore sia quella che Franco Zannini ci ha lasciato insegnandoci come si fa ad amare la propria terra d’origine. 

Fonte: BNM n. 3/1880

Colle Mosè, primo presidente della Famiglia Bellunese dell’Est della Francia

Il 10 luglio 1979, all’età di 90 anni, è deceduto Mosè Colle. Era nato a Lentiai il 22 settembre 1889, bellunese di vecchio stampo, partito dal suo paese nel 1921, ha coraggiosamente trascorso la maggior parte della propria vita a Lexy (Francia), cittadina stretta in gemellaggio con Sospirolo. A Lexy Mosè ha lasciato un’impronta di laboriosità e di straordinario attaccamento al lavoro in una fabbrica della Società della Providence di Rehon, dove si è saputo conquistare l’affetto e la stima dei compagni e dei datori di lavoro. Oltre a questo, va segnalato che la sua porta è sempre stata aperta a tutti, ma il più grande piacere per lui era soprattutto, la visita dei Bellunesi, ai quali voleva molto bene. Vecchio combattente della guerra mondiale 1914-1918, era padre di sette figlioli; uno lo perse prematuramente ed un secondo che si chiamava Cleto ha trovato la morte gloriosa sul campo d’onore nella guerra d’Indocina. Quattro figli hanno vissuto nella cittadina di Lexy, e tre di loro, cioè Clio, Settimio e Jean-Marie dirigono una grande società di trasporti denominata «Fratelli Colle». 

Mosè Colle è sempre stato un entusiasta sostenitore della Famiglia Bellunese dell’Est della Francia, della quale fu il primo presidente. 

Fonte: BNM n. 11/1979