Giovanni Alfonso Baiocco, maestro del ferro battuto

Giovanni Baiocco nacque a Lentiai nel 1904. Fu a Monza dove ebbe una rigorosa formazione artistica attraverso l’alternanza tra l’indispensabile esercizio pratico e regolari studi teorici; qui ottenne il diploma di maestro d’arte, per poi specializzarsi nella lavorazione del ferro sotto la guida del maestro Alessandro Mazzucotello, lo stesso che guidò al successo il feltrino Carlo Rizzarda. Poco più che ventenne si trasferì in Argentina, precisamente a Buenos Aires, dove si fece presto conoscere come “quello del ferro battuto” e dove aprì un negozio in Avenida Cordoba, che chiamò “La bottega del ferro”. Le sue opere venivano regolarmente acquistate sia dagli argentini come dai membri della collettività italiana. Nel 1970 un grande settimanale argentino gli dedicò un importante servizio giornalistico, dove si mise in luce che nella sua formazione culturale trovò ampio spazio la storia dell’arte e che quindi egli conosceva e cercava di spaziare negli stili delle diverse epoche, anche se dimostrava una particolare simpatia per il rinascimento spagnolo. 

Giovanni Alfonso Baiocco fu membro di molte istituzioni benefiche e associazioni; inoltre faceva anche parte della “Bellunese”. Morì a Buenos Aires nel 1981, dopo più di cinquant’anni di emigrazione.

Fonte: BNM n. 3/1970 e n. 3/1881

Antonio e Elvira Australia De Francesch

Antonio De Francesch e la moglie Elvira Australia Chiesura, scomparsi rispettivamente nel 1881 e nel 1882, sono stati per tanti anni la coppia più anziana e più benvoluta della zona dei Coi de Pera, in comune di Ponte nelle Alpi. Nel 1979 riuscirono persino a festeggiare le nozze di diamante. Erano persone molto conosciute e stimate, con la loro bella storia di emigrazione alle spalle. Antonio, chiamato “de Australia” in onore alla moglie, nacque nel 1892 e, con la partecipazione alla Prima Guerra Mondiale, gli fu conferito il titolo di Cavaliere di Vittorio Veneto. Fu poi emigrante per lunghi anni in Europa e in Sudamerica, con la qualifica di operaio. La moglie Elvira Australia (si dice che questo nome le sia stato dato nel ricordo dell’unico continente che il padre, emigrante, non aveva avuto modo di conoscere) era nata a Pittsburg, negli Stati Uniti, da genitori bellunesi e si era trasferita in Italia all’età di undici anni. Antonio ed Elvira ebbero otto figlie, che lei accudiva a Col di Cugnan mentre lui era all’estero per lavoro. Una di queste, Ausilia, ha seguito pure lei la via dell’emigrazione e si è trasferita in Argentina. I numerosi discendenti di Antonio e Elvira si ritrovano quasi annualmente per esprimere riconoscenza e gratitudine a questa coppia di anziani, alle figlie ed ai generi, per i valori che hanno saputo tramandare: dedizione al lavoro e alla famiglia, fede e altruismo, condivisione delle gioie e sopportazione del dolore nelle difficoltà della vita. 

Fonte: BNM n. 4/1881 e n. 4/1882

Benedetta Casanova Fuga, vedova Zannantonio

Nacque a S. Pietro di Cadore il 18 marzo 1898. Le fu concessa l’onorificenza di Cavaliere di Vittorio Veneto in qualità di “portatrice” durante il primo conflitto mondiale sul fronte dell’alto Cadore. Fu madre di cinque figli, uno dei quali, Stefano, deportato politico in Germania. Nel 1949 Benedetta lasciò la sua terra natale per raggiungere il marito e i figli in terra di Francia, esattamente ad Altkirch (Alto Reno). Nel 1956 perse il marito in un incidente stradale. 

Ogni estate passava le sue vacanze tra Casamazzagno e Costalta, ove aveva tanti ricordi e con gli amici rievocava, con invidiabile precisione, le note belle e anche quelle brutte. Al suo rientro in Francia, durante i lunghi mesi di permanenza colà, pregava il buon Dio perché la conservasse in salute e le desse la possibilità e la forza di rivedere il suo paese natale e riabbracciare parenti ed amici. 

Fonte: BNM n.5/1978

Guido Dal Farra

Nato il l° agosto del 1924 a Faverga, un sobborgo alle porte di Belluno, Guido Dal Farra era scampato al turbine della seconda guerra mondiale quasi per miracolo. Pochi giorni dopo la chiamata alle armi, nell’agosto del ’43 l’esercito italiano si sfasciò e Guido ritornò a casa; per pochi giorni, però. Per evitare il pericolo di rastrellamenti si rifugiò sulle montagne, da lui ben conosciute Dolomiti bellunesi, vivendo alla macchia, sfuggendo agli agguati del nemico della Patria, ribelle a impugnare un’arma per lottare contro i fratelli. Passata la bufera della guerra emigrò in Francia, in cerca di lavoro per le sue braccia robuste; e dalla Francia, nel 1949, emigrò in Argentina. Qui, a San Carlos de Bariloche, c’era suo padre, Vittorio, già valoroso bersagliere della prima guerra mondiale. Era giunto a Bariloche verso il 1931, epoca della crisi mondiale, seguendo le orme del pioniere e compaesano Primo Capraro. In Italia aveva la- sciato la moglie e sei figli con la promessa di chiamarli appena sistemato; la crisi però era in tutto il mondo e alla moglie e ai figli bisognava, e lui voleva, preparare un futuro decente. Quando sembrava che tutto fosse a posto, ecco la seconda guerra mondiale e tutto andò a rotoli. Nel 1949 quando Guido, con il fratello Ugo, arrivò a Bariloche, c’erano molti bellunesi ed erano molti i cognomi bellunesi: De Col, Dal Cin, Dal Pont, De Cian, De Min, De Pellegrini, Dalla Gasperina… e il dialetto veneto era famigliare anche agli argentini residenti. Guido, e anche i fratelli che lo raggiunsero fino a completare la famiglia, si climatizzò subito e, soprattutto, incominciò a lavorare sfogando così quella voglia immensa di esser utile che sempre lo attanagliò. Quando, nel 1955, si costruì la nuova sede dell’Associazione italiana di Mutuo Soccorso “Nueva Italia” lui e i fratelli erano sulla breccia, imbrattati di calce e cemento, cazzuola in mano, a tirar su pareti. Poi entrò nella ditta «Falaschi Construcciones », italiana, meritandosi un posto di fiducia e di responsabilità. Intanto si era sposato (nel 1957) e il matrimonio con la connazionale Bruna Filipuzzi, una friulana tutto cuore e spirito, fu rallegrato da una bella coppietta, ora già matura: Livio e Silvana. Con il fratello Ugo costruì pure, informa, diciamo così, individuale, un civettuolo alberghetto, il «San Marco», quasi in pieno centro de Bariloche, alberghetto che è gestito dalla signora e dalla cognata Maria. Tutto sembrava che andasse a gonfie vele quando una «sorella» che tutti temiamo e rispettiamo, entrò di sotterfugio, lo chiamò prepotentemente e lo portò via con sé. A 59 anni, se ne è andato, rapito precocemente, colpito da un infarto cardiaco. Giovane ancora, allegro, simpatico: la sera prima era stato con gli amici, in allegra compagnia, alla sede dell’Associazione Italiana, gaio e sorridente. I funerali furono una apoteosi, se così possiamo dire, di condoglianza e di dolore. Era il 19 dicembre 1883 e si sentiva già nell’aria odore di presepi e melodie di cornamuse. 

Fonte: BNM n. 3/1884

Giuseppe De Min e la medaglia al lavoro del San Gottardo

Giuseppe De Min, originario di Chies d’Alpago, quando era pressoché ventenne lavorò come minatore nel traforo della grande galleria ferroviaria del San Gottardo in Svizzera conquistandosi, in quell’”inferno”, una medaglia d’argento al valor civile. 

Il libro “Storia dei trafori del S. Gottardo”, scritto dalla ricercatrice e giornalista di origine veneta Fiorenza Venturini racconta la drammatica storia dei minatori italiani emigranti impegnati nell’esecuzione di quelle opere. Dopo discussioni che hanno impegnato Governi e finanziatori per oltre trent’anni, intorno al 1870 veniva deciso l’avvio della grande galleria della lunghezza di 15 chilometri. Rimaneva da assicurare l’enorme quantità di manodopera necessaria per l’esecuzione dei lavori: “Ce la fornirà la miseria italiana”, affermava lo svizzero Josef Zingg, come è riportato nel libro della Venturini. E nel 1872 si davano inizio ai lavori che dureranno ben dieci anni. Ventimila emigranti italiani fra i quali molti veneti e certamente molti bellunesi hanno lavorato in quei cantieri. Le loro condizioni di vita e di lavoro erano più che disumane: tenuti a distanza dalla popolazione svizzera anche per disposizione delle autorità locali, i lavoratori italiani venivano trattati da esseri inferiori, da miserabili. Lavoravanododici ore al giorno, perforando la roccia a colpi di mazza e rimuovendo tutto il materiale a forza di braccia, costretti a respirare polveri e gas prodotti dagli scoppi della dinamite, senza una sufficiente circolazione d’aria e un minimo di prevenzione. Molti di loro sono morti per incidenti da incuria e molti ancora per una epidemia chiamata “anemia dei minatori” durata parecchi anni e causata da esalazioni tossiche e dalla scarsa pulizia e igiene ambientale. Si legge ancora nel libro citato: “Soltanto ombre sarebbero rimasti i nostri lavoratori i quali, chi subito nelle viscere della montagna chi più tardi in patria, hanno sacrificato la loro vita, se uomini di cervello e di cuore non li avessero risuscitati facendo di loro non dei fantasmi da dimenticare ma degli eroi”. Ed ecco quindi la questione della medaglia, con la quale il Governo italiano si è sentito in dovere di manifestare agli eroici minatori superstiti del Gottardo un riconoscimento morale. 

Fonte: BNM n. 5/1985