La vita di Gemma Coletti, da Salce alla Svizzera

Davanti alla fabbrica di cioccolato “SPOSA”. Gemma è laseconda da sinistra

Mi chiamo Gemma Coletti, provengo da una famiglia di mezzadri che abitava a Salce. Avevo sedici anni quando iniziai a lavorare come cameriera in un albergo a Sappada. Prestai servizio per una stagione invernale e una estiva. Allora Belluno era ancora una città rurale che off riva poche opportunità lavorative. Quando un conoscente riferì a mio padre che in Svizzera cercavano dei dipendenti nella fabbrica di cioccolato SPOSA, lui decise di organizzare il trasferimento per me e mia cugina Mirella, di un anno più giovane. Così, nel settembre del 1954, a diciannove anni, partii per la Svizzera, dove trascorsi in tutto sei anni. Dopo dodici ore di treno per raggiungere la meta io e lamia compagna di viaggio ci sentivamo stanche e spaesate e una volta giunte a destinazione dovevamo percorrere ancora due chilometri a piedi per raggiungere l’abitazione che ci avevano assegnato: una casa fredda, riscaldata solo con una piccola stufa a legna. La fabbrica si trovava a Laupen, una frazione del piccolo paesino di Wald, nella periferia di Zurigo. La nostra casa, che condividevamo con altre ragazze, vi distava pochi metri. L’attività contava cinquanta dipendenti tra i quali solo cinque, comprese me e Mirella, di nazionalità italiana. Si lavora mediamente nove ore al giorno, ma durante i periodi di festività si raggiungevano anche le sedici ore. Ricordo che ad ogni pausa mangiavamo un po’ di cioccolato perché non c’era tempo di andare a comprare altro. Ovviamente, con questa cattiva abitudine mi rovinai i denti per il troppo zucchero e dovetti porre rimedio una volta tornata in Italia. All’interno della fabbrica si lavorava con grandi macchinari che davano forma e confezionavano il cioccolato. Dopo due anni ebbi un incidente sul lavoro nel quale persi i ldito medio della mano destra.

Tuttora ricordo il dolore acuto che provai in mancanza di rimedi analgesici, razionati il più possibile e somministrati solamente quando il dolore era insopportabile.

Tuttavia, i macchinari e il lavoro non ci preoccupavano: la principale difficoltà era la lingua. Riuscire a padroneggiare una lingua tanto diversa dall’italiano (e soprattutto dal nostro amato dialetto) sembrava impossibile. All’inizio non sapevo una paroladi tedesco e non c’era quasi nessuno che parlava la nostra lingua; di conseguenza, la comunicazione era ostacolata. Fortunatamente andavamo molto d’accordo con i responsabili, che erano socievoli e cercavano di coinvolgerci in ogni attività e di insegnarci la lingua, finché riuscimmo finalmente a impararla dopo circa un anno. Anche i colleghi erano molto disponibili e gentili, esclusi alcuni del posto che ci chiamavano “zingare”. Sentivamo nostalgia di casa e quasi ogni settimana scrivevamo alle nostre famiglie, ma, si sa, le corrispondenze di una volta non erano veloci come lo sono ora e le risposte ci arrivavano dopo due settimane. Passati circa tre anni in Svizzera, vennero a visitarci mia mamma e mia zia, la mamma di Mirella. Quel giorno fu una grande festa, accompagnata dalla felicità di ritrovarsi dopo così tanto tempo. Si lavorava molto, ma c’erano anche momenti di svago: i proprietari della fabbrica organizzavano spesso delle gite fuori porta per i dipendenti, era un’iniziativa che rendeva tutti felici. Alcune sere, poi, dopo il lavoro, io e Mirella andavamo a ballare in un edificio a due chilometri dalla nostra casa. Vi si giungeva percorrendo una strada sterrata che ci obbligava a indossare le ciabatte e portare lescarpe da ballo in una borsa perché non si impolverassero. Una volta arrivate a destinazione ci cambiavano. Ogni sabato sera veniva invitata un’orchestra diversa e si conoscevano nuove persone. Dopo cinque anni alla fabbrica SPOSA, mi trasferii da mia cugina Ida a San Gallo. Iniziai a lavorare stirando modelli di vestiti nella sartoria Stark, ma trascorso un anno decisi di tornare in Itali aa causa di un clima sfavorevole alla salute. Una volta rientrata a Belluno mi ripresi subito e ricominciai a lavorare. Si concluse così la mia esperienza all’estero. Mi ricordo la grande preoccupazione iniziale, la paura di non essere accettata in un mondo così diverso da quello a cui ero abituata.Mi ricordo di come queste paure si dissolsero col tempo, grazie a persone comprensive, pazienti e divertenti. Mi ricordo la difficoltà e la soddisfazione di imparare una nuova lingua che ancora oggi riesco a riconoscere.

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