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Un tragico ricordo

Riportiamo la testimonianza di una donna che nel 1965 lavorava a Mattmark, nel Canton Vallese, in Svizzera, teatro di un disastro costato la vita a ottantotto persone, di cui cinquantasei italiane e diciassette bellunesi.
Il 30 agosto, attorno alle 17:15, una parte del ghiacciaio Allalin, sotto il quale erano posizionati officine e alloggi dei lavoratori, si staccò iniziando una letale discesa che travolse tutto ciò che incontrò sulla propria strada. I bellunesi che trovarono la morte furono: Fiorenzo Ciotti, Pietro Lesana e Enzo Tabacchi di Pieve di Cadore; Giovanni Baracco, Leo Coffen, Igino Fedon, Ilio Pinazza e Rubelio Pinazza di Domegge di Cadore; Arrigo De Michiel di Lorenzago di Cadore; Silvio Da Rin di Vigo di Cadore; Celestino Da Rech, Giovanni Zasio e Mario Fabbiane di Sedico; Giancarlo Acquis di Belluno; Aldo Casal di Sospirolo; Lino D’Ambros di Seren del Grappa; Virginio Dal Borgo di Pieve d’Alpago.

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Arrivai a Mattmark, con mio marito, nel 1962. Ogni giorno seguiva la stessa routine. Noi donne, cariche di cibo caldo, ci radunavamo di buon mattino nella cucina del cantiere, pronte a distribuire i pasti agli operai che lavoravano ai piedi del ghiacciaio. 

Salivamo con la corriera, sfidando il freddo e la fatica, per servire colazioni, pranzi e cene nella “cantina”, proprio sotto la montagna di ghiaccio che incombeva su di noi. 

Eravamo un gruppo affiatato, circa una quindicina di donne, tutte impegnate a rendere meno pesante la giornata di quegli uomini che, con le mani screpolate e i volti segnati, si battevano contro la natura per costruire la diga.

Lavoravamo anche di notte, partendo verso mezzanotte per portare il cibo fino alla diga. Iniziavamo alle undici e mezza, tornando stanche ma soddisfatte di aver fatto il nostro dovere. 

Quel giorno, come tanti altri, svolgemmo il nostro lavoro. Arrivammo al cantiere di buon’ora, portammo il cibo e rimanemmo lì fino a quando l’ultimo piatto fu lavato. Poi, verso le due del pomeriggio, tornammo alle nostre baracche, pronte per riposare qualche ora prima di riprendere il lavoro serale. Ma quella sera, il destino aveva deciso diversamente.

Il cantiere era tutto un susseguirsi di sirene, un continuo viavai. Soprattuto, era un luogo di dolore...

Erano circa le cinque quando un pezzo del ghiacciaio, che avevamo imparato a conoscere e temere, si staccò dalla montagna con un fragore che riecheggiò per tutta la valle. La frana travolse tutto ciò che incontrava sul suo cammino, cancellando in pochi istanti vite e sogni. 

Per fortuna, noi donne eravamo al sicuro, lontane da quel disastro, ma il terrore ci attanagliava il cuore. Ricordo ancora la sensazione di impotenza, il freddo che penetrava non solo nel corpo, ma anche nell’anima.

Nei giorni successivi, il cantiere era tutto un susseguirsi di sirene, un continuo viavai. Soprattuto, era un luogo di dolore. Gli operai scampati alla tragedia portarono giù i corpi dei loro compagni, e io non potevo fare altro che osservare, paralizzata dallo shock. Quel che più mi colpì fu la piccola chiesetta vicino al cantiere, dove furono portati i corpi, un’immagine che ancora oggi mi tormenta.

Dopo quel giorno, il lavoro divenne insostenibile per me. Non riuscivo più a rimanere lì, a convivere con il ricordo di ciò che era accaduto. Il terrore era troppo grande, così, alla fine, presi la decisione di andarmene. 

La paura era diventata troppo grande, e sapevo che non avrei mai più potuto lavorare in quel luogo senza che il ricordo di quel disastro mi tormentasse. Lasciai il cantiere con il cuore pesante, sapendo che non sarei mai più tornata.

Il ricordo più forte che mi rimase fu il terrore di quella frana e il dolore di chi aveva perso tutto. Un ricordo che, ancora oggi, mi accompagna e mi fa rivivere quei momenti di angoscia e disperazione.

Rita Dal Pan

Rita, in ombra, nel refettorio del cantiere, sotto il ghiacciaio. La baracca è stata spazzata via il giorno della tragedia

La valanga di ghiaccio che ha travolto il cantiere

Un sorriso che illumina il mondo

di Paolo Sebben

La sua vita racconta di ostacoli superati, di coraggio per intraprendere nuove strade e di amore per il lavoro. Lui è Gianluigi Sebben, meccanico nato nel 1932 a Fonzaso.

Unico figlio maschio in una famiglia con altre tre sorelle, fin da giovane ha assunto una grande responsabilità e ha vissuto da vicino la guerra quando era adolescente. Le esperienze di quel periodo lo hanno segnato restando ancora oggi indelebili. 

Dopo aver completato la sua formazione alle scuole industriali e aver acquisito conoscenze sulle automobili in un’officina fonzasina, durante il servizio militare è stato assegnato al Corpo degli Alpini a Roma. Lì ha accumulato ulteriori esperienze in un’officina dell’esercito, esperienze che in seguito gli sono state utili nella carriera professionale. 

Dopo la “naja”, ha lavorato come autista di camion e ha rifornito di bevande bar e ristoranti nella zona feltrina. 

Dopo diverse esperienze lavorative in Italia, negli anni Cinquanta ha deciso di fare il salto in Svizzera, dove è stato dipendente in una fabbrica nel Canton Glarona. 

Il passaggio del confine per potenziali lavoratori provenienti dall’estero all’epoca era un vero e proprio controllo sanitario, durante il quale l’emigrante doveva sottoporsi a un esame medico e ai raggi X. La strana discussione con i medici elvetici su quanto fosse sufficientemente in salute per lavorare in Svizzera capitata a Gianluigi è difficile da credere oggi. 

Nonostante le difficoltà iniziali con la nuova cultura e la nuova lingua, Gianluigi si è fatto un nome come bravo professionista. Non ha riparato solo macchinari e automobili, ma anche aerei ed elicotteri all’aeroporto di Mollis. Il suo talento e la sua abilità erano molto apprezzati. Ha lavorato inoltre come meccanico nel reparto sperimentale della Netstal AG. 

Come membro dell’Associazione Bellunesi nel Mondo di Glarus si è impegnato per i bisogni della comunità bellunese e italiana

Per un periodo ha viaggiato come tecnico in tutta Europa, ricavandone numerose esperienze a volte divertenti. Il suo aneddoto sul piatto quotidiano di cervo in un lussuoso albergo francese, perché non riusciva a capire altro dal menù, è solo uno dei tanti. 

Come membro dell’Associazione Bellunesi nel Mondo di Glarus si è impegnato per i bisogni della comunità bellunese e italiana e ha ricoperto per molti anni il ruolo di vicepresidente. La sua abilità retorica è rimasta perlopiù nascosta, perché preferiva tenersi lontano dai riflettori. 

In Svizzera ha conosciuto la sua futura moglie, Maria. È un po’ ironico pensare che lei è originaria di Faller, a soli due passi da Fonzaso. 

Dopo più di quarant’anni in Svizzera, lui e Maria sono alla fine tornati a Fonzaso per trascorrere la vecchiaia. 

Anche in età avanzata il suo intelletto, il suo spirito e il suo entusiasmo per la vita sono rimasti intatti. Ma negli ultimi anni per Gianluigi ci sono stati momenti difficili. Colpito gravemente dalla pandemia di Covid-19, è stato ricoverato in Terapia intensiva e ha combattuto coraggiosamente per la propria vita. Grazie alle tempestive e professionali cure mediche in Terapia intensiva e in Pneumologia a Feltre, così come alla sua forza di volontà, ha superato la fase più difficile. Ma la situazione non si è del tutto risolta. Il ricovero nell’Ospedale di comunità di Alano e in seguito nella Geriatria di Feltre gli hanno tolto la dignità e la gioia di vivere. 

Si è trovato a soffrire in modo incredibile fino a quando è finalmente riuscito a ritrovare la vita grazie a una clinica privata a Bolzano. 

Oggi, a 92 anni, è di nuovo nella sua casa a Fonzaso, quasi sempre su una sedia a rotelle, ma con il sorriso sul volto. 

Il suo ottimismo e la sua gioia di vivere sono contagiosi. Gianluigi è un esempio per tutti noi, perché nonostante le avversità non ha mai perso il coraggio e dimostra ogni giorno che la vita, malgrado tutto, è bella.

Una chiacchierata tra nonna e nipote

di Sara Balcon

Per molto tempo, le partenze dal Bellunese verso paesi esteri sono state una strada che i giovani, quasi inevitabilmente, erano costretti a percorrere. Una strada, quella che porta a lasciare la propria terra natia, che ancora oggi è intrapresa da tanti giovani italiani, per trovare lavoro.

Secondo il report redatto da Fondazione Nord Est e dall’associazione Talented Italians in the UK, che ha elaborato i dati Eurostat, l’Italia ha perso 1,3 milioni di persone andate a lavorare e vivere all’estero negli ultimi dieci anni. Un fenomeno paragonabile a quanto succedeva negli anni Cinquanta del secolo scorso, quando però chi se ne andava dal nostro Paese aveva un basso livello di scolarizzazione, mentre oggi si stima che un emigrante su tre sia laureato.

Come tanti miei coetanei laureati e specializzati in materie umanistiche e in ambito culturale, mi pongo dei quesiti sul mio futuro e sulle opportunità offerte dalla mia terra e dal mio Paese. Così in un pomeriggio di pioggia, seduta al tavolo della cucina, ho pensato di confrontarmi con mia nonna. Proprio quella nonna che, negli anni Cinquanta, aveva dovuto prendere la valigia di cartone e con le lacrime agli occhi, posizionarsi sulla banchina dei binari della stazione di Belluno e aspettare il treno che l’avrebbe portata in un posto dove avrebbe trovato lavoro: la Svizzera.

Nonna, come mai sei emigrata proprio in Svizzera?
Qui a Belluno tante donne sapevano che in Svizzera c’era la possibilità di trovare lavoro, ma non un lavoro qualsiasi… il lavoro nelle fabbriche. Una delle mie sorelle maggiori era già emigrata proprio in Svizzera, a Berna, e io l’ho dovuta seguire. In Svizzera ho trovato un lavoro sicuro in un fabbrica di filati. Eravamo tante italiane e soprattutto tante bellunesi e trevigiane.

Quanti anni avevi?
Avevo 21 anni. Sono stata a Berna dal 1951 al 1955. La mia famiglia era molto numerosa. Ero la decima di ben tredici fratelli. Ognuno di noi doveva darsi da fare per aiutare la famiglia. Alcune delle mie sorelle erano rimaste a Belluno per lavorare i campi e aiutare i miei genitori, mentre altre erano andate nelle grandi città come Milano e Roma a “servire”. Io sono partita per la Svizzera. Quello che ognuna di noi guadagnava lo dava ai nostri genitori per la famiglia.

Com’era il lavoro, cosa facevi?
Si lavorava bene… eravamo tutte di noi. La mia responsabile era di Belluno e siamo rimaste amiche. Era un lavoro di attenzione. Io controllavo due macchine, lunghe circa dieci metri l’una, che producevano le spagnolette. Bisognava stare molto attente che il filo non si spezzasse altrimenti era un disastro. Bisognava correre come un treno da una parte all’altra. Quando cambiava il tempo, pioveva o c’era umido, il filo rischiava di rompersi più facilmente. Dalle bobine di filo più grosso, si dividevano fili più sottili che permettevano di fare la singola spagnoletta. Stavo a Berna tutto l’anno, tornavo a casa per le ferie d’estate e, una volta a Belluno, aiutavo la mia famiglia nei campi.

E dove vivevi?
La fabbrica mi dava l’alloggio. Vivevo in un convitto, dalle suore… erano molto severe. La sera non potevamo uscire e, se si usciva, bisognava uscire con loro. Non si poteva fare molto. Qualche giro a Berna l’ho comunque fatto. Mi piaceva come cittadina. Pian piano ho imparato a conoscerla… quasi come Belluno.

La Svizzera ti ha accolta bene?
Sì, non ho mai avuto problemi. Quando si arrivava alla frontiera c’erano tutti i controlli da fare. Ecco… quelli medici non erano sempre facili. Durante la visita ci spogliavano e ci lasciavano avvolte solamente da una coperta. Io ho sempre passato i controlli medici. Sempre sana come un pesce. Non mi hanno mai mandato indietro. Mia sorella, invece, una volta non l’hanno fatta entrare, perché non stava molto bene. Ma succedeva. Ho visto tornare indietro tante persone, perché non erano ritenute sane. Il viaggio da Belluno alla Svizzera non era tanto breve all’epoca. Partivo dalla stazione di Belluno con la mia valigia di cartone. La prima tratta era Belluno-Padova. A Padova cambiavo treno fino a Milano. A Milano bisognava tenere le orecchie a pennello perché dicevano il numero del binario per il treno diretto in Svizzera. Mi ricordo ancora quando dovevamo correre per cambiare binario. Ma ero brava, non ho mai perso un treno.

Poi però sei rientrata in Italia…
Sì, poi sono tornata a Belluno e sono andata a lavorare come stiratrice in un hotel di lusso di Cortina. Quelli sono anni che ricordo con piacere. È stato un bel momento. Ero vicina a casa, quando potevo tornavo a Belluno. Eravamo una bella squadra di donne in stireria. Ho dovuto imparare tutto da zero. Ho imparato a stirare i cappelli dei cuochi. Sai, dovevano stare dritti, in piedi da soli. Per stirare le lenzuola si usava una grande macchina, il mangano. I vestiti di velluto, invece, venivano stirati con il vapore, mettendo gli appendini sopra grandi tinozze di acqua bollente. Pensa che ho stirato anche i vestiti di Gina Lollobrigida e di Sofia Loren.

Sei riuscita a vivere un po’ le bellezze di Cortina?
Per fortuna sì. Quando si poteva andavamo a camminare e la sera a volte anche a ballare. L’hotel in cui lavoravo non era in centro. Con le scarpe con il tacco e la neve, con le mie colleghe, a piedi, andavamo in centro. C’era un locale in cui potevamo andare noi dipendenti dell’hotel.

Nonna, ma se tornassi indietro emigreresti di nuovo?
Non si poteva fare altro, perché non c’era altro. Sono stata via per pochi anni, ma penso proprio non lo rifarei. Ho fatto tanti sacrifici. Ogni volta che dovevo tornate in Svizzera piangevo, perché non volevo lasciare la mia casa… ho fatto fatica. Ero tanto legata ai miei genitori e alle mie sorelle, anche se stare in Svizzera mi ha fatto crescere e mi ha fatto conoscere persone nuove. Dopo così tanti anni, mi sento ancora con la mia amica di Milano, con cui lavoravo a Berna. Devo dire che sono stata contenta di essere tornata in Italia. Lavorare a Cortina, mi ha permesso di stare più vicina alle mie sorelle, di conoscere il nonno e di creare la mia famiglia.

Dopo questa chiacchierata, forse le lacrime che scendono dagli occhi di mia nonna, ogni volta che le dico che devo lasciare Belluno per un periodo, riesco a comprenderle sotto un’ottica differente. Forse ho appreso proprio da lei il valore della famiglia e l’amore per Belluno.

Diciassette morti

«“Io e il Bonetti siamo entrati in galleria da Stabiascio poco prima di mezzanotte. Il Bonetti era venuto a chiamarmi dicendo che avevano telefonato da Locarno per dire che in tre non erano usciti da Robiei. Il Bonetti mi ha anche detto che gli era stato chiesto se avevamo delle maschere antigas. “Come mai?”, gli ho chiesto, ma non mi ha saputo rispondere. Insomma siamo entrati.

Quando siamo arrivati a 600, 650 metri dall’imbocco, ho visto il Bonetti cadermi davanti. Nel mentre sono caduto anch’io. Ci siamo rialzati e siamo caduti diverse volte, fino a che sono svenuto. Mi sono svegliato dopo un’ora, più o meno, ho cercato la lampada del casco, l’ho accesa e mi sono guardato in giro. Così ho visto il Bonetti in terra, lì vicino. L’ho tirato verso di me e mi sono accorto che era morto.

Ero disorientato e non capivo più bene dove mi trovavo. Poi, per fortuna, ho pensato di guardare da che parte scorreva l’acqua nella rigòla. In quel primo tratto di galleria tornava ancora verso Stabiascio. Ho anche guardato verso l’interno della galleria di Cruina e ho visto un faro acceso, era quello del trenino con su i nove che erano già morti. L’unica cosa che potevo fare era strisciare verso l’uscita seguendo la direzione dell’acqua e tenendo la testa sopra la rigòla per avere un po’ di ossigeno. Sono arrivato fuori e ho dato l’allarme”.

Avevo registrato il ricordo di Angelo Da Dalto venticinque anni fa, per scriverne su un giornale locale, quando ne erano già trascorsi altrettanti da quello che era successo, nella notte tra il 15 e il 16 febbraio 1966, in una galleria dei cantieri idroelettrici tra l’alta Valmaggia e la Val Bedretto, nel Canton Ticino.

Non posso dire di ricordare bene quella voce; non quanto i silenzi che si allargavano tra una frase e l’altra. Quelli sì, li ricordo bene. Come passi nel vuoto, nel buio. Fino all’ultimo, col quale ci eravamo salutati.

Era stato l’unico a uscirne vivo quella notte. Diciassette altri erano morti, uccisi dal gas che ristagnava in galleria. Tutte morti evitabili, se solo…».

Sono pagine tratte da Cielo di stelle. Robiei, 15 febbraio 1966, di Erminio Ferrari (Edizioni Casagrande). Un’opera che raccoglie voci e memorie – dei minatori attivi all’epoca sul cantiere, dei dipendenti dell’Ofima (Officine Idroelettriche della Maggia), committente dell’opera, dei pompieri che intervennero sul posto, delle vedove, delle orfane – su una tragedia avvenuta nella notte tra il 15 e il 16 febbraio 1966.

Mentre sono in corso i lavori nella galleria d’adduzione dell’impianto idroelettrico tra la valle Bedretto e la val Bavona, nell’alto Canton Ticino, quindici operai italiani e due pompieri di Locarno muoiono uccisi dai gas tossici che ristagnano nel cunicolo. È l’incidente sul lavoro più grave mai avvenuto nella Svizzera italiana, uno dei molti entrati nella storia della nostra emigrazione.

Questi i nomi delle vittime:

Enrico Barilani (1947)

Antonio Bilabini (1935)

Piero Bonetti (1935)

Giancarlo Butti (1942)

Domenico Caputo (1931)

Valerio Chenet (1914)

Angelo Casanova (1921)

Giovanni Domenighini (1941)

Aldo Falconi (1934)

Bruno Lazzarotto (1929)

Silvio Maglia (1935)

Luigi Nordera (1937)

Giovanni Pasinetti (1938)

Luigi Ranza (1926)

Gianfranco Rima (1941)

Renato Roncoroni (1928)

Elpidio Vettori (1942).

Una vita al di là delle Alpi

Pietro Cossalter ha 71 anni ed è un ex emigrante che ha vissuto per gran parte della sua vita in Svizzera.

Nel 1969, a soli 17 anni, decise di fare le valigie, con l’obiettivo di trovare un buon lavoro. Partito da Sedico, si trasferì a Pfungen, nel Canton Zurigo, dove erano già presenti i suoi fratelli. 

Nonostante oggi ami la Svizzera, racconta che all’epoca lasciare l’Italia per trasferirsi al di là delle Alpi fu davvero molto difficile. Era giovane, e per la prima volta si trovava lontano dai suoi cari. Una delle difficoltà incontrate all’inizio fu la lingua, visto che non conosceva il tedesco. Riuscì però a imparare il necessario grazie al suo lavoro e alle nuove amicizie.

Grande aiuto lo ricevette anche dai fratelli, soprattutto ai primi tempi. Alla fine, malgrado gli ostacoli iniziali, l’esperienza elvetica fu molto positiva e oggi Pietro si dice contentissimo di quegli anni.

Nel 1971, dopo tre anni dalla partenza, rientrò in Italia per il servizio militare. Assolto il suo dovere, nel 1973 espatriò nuovamente, restando in Svizzera fino al 2016. Lavorò come operaio addetto al carico-scarico merci in due diverse aziende: prima la Keller AG Ziegeleien, una fabbrica di mattoni e tegole. Poi, dal 2001, per la Maag Recycling, azienda di riciclaggio, con la quale raggiunse la pensione nel 2016. 

Ogni anno riusciva a tornare in visita in Italia, per trascorrere del tempo con la fidanzata e aiutare i genitori. Nel 1978, mentre si trovava a Sedico, sposò Carla Rosso, sua compaesana. Dopo il matrimonio i due si trasferirono insieme a Pfungen e nel 1980 nacque il loro figlio Claudio. Claudio che nel 2008 e nel 2011 regalò loro i nipoti Ivan e Davide, grandi appassionati di calcio.

Durante la sua vita in Svizzera, per circa trent’anni Pietro svolse anche attività di volontariato presso la Colonia Libera di Embrach, aiutando altri emigranti con i documenti e con l’approccio al tedesco. Ogni tanto, oltre a questioni burocratiche e di inserimento nel nuovo contesto, con la Colonia riuscivano a organizzare anche qualche festa, per distrarsi e socializzare.

L’affetto e il senso di appartenenza che Pietro prova per la sua terra natia lo hanno riportato qui, per godersi gli anni della pensione nel luogo dove ha vissuto la sua infanzia. Dal 2016, infatti, Pietro vive con la moglie a Sedico. Ma quando si presenta l’occasione, torna in Svizzera da figlio, nipoti e amici. 

Se lasciare l’Italia per trasferirsi in Svizzera fu complicato, anche lasciare la Svizzera per tornare in Italia non fu da meno. In entrambi i casi, ricorda, la cosa più difficile è stare lontano dai propri cari: genitori e fidanzata prima, figlio e nipoti ora. 

Storia raccolta da Alessia Guolla