Tag con la parola “svizzera”

Diciassette morti

«“Io e il Bonetti siamo entrati in galleria da Stabiascio poco prima di mezzanotte. Il Bonetti era venuto a chiamarmi dicendo che avevano telefonato da Locarno per dire che in tre non erano usciti da Robiei. Il Bonetti mi ha anche detto che gli era stato chiesto se avevamo delle maschere antigas. “Come mai?”, gli ho chiesto, ma non mi ha saputo rispondere. Insomma siamo entrati.

Quando siamo arrivati a 600, 650 metri dall’imbocco, ho visto il Bonetti cadermi davanti. Nel mentre sono caduto anch’io. Ci siamo rialzati e siamo caduti diverse volte, fino a che sono svenuto. Mi sono svegliato dopo un’ora, più o meno, ho cercato la lampada del casco, l’ho accesa e mi sono guardato in giro. Così ho visto il Bonetti in terra, lì vicino. L’ho tirato verso di me e mi sono accorto che era morto.

Ero disorientato e non capivo più bene dove mi trovavo. Poi, per fortuna, ho pensato di guardare da che parte scorreva l’acqua nella rigòla. In quel primo tratto di galleria tornava ancora verso Stabiascio. Ho anche guardato verso l’interno della galleria di Cruina e ho visto un faro acceso, era quello del trenino con su i nove che erano già morti. L’unica cosa che potevo fare era strisciare verso l’uscita seguendo la direzione dell’acqua e tenendo la testa sopra la rigòla per avere un po’ di ossigeno. Sono arrivato fuori e ho dato l’allarme”.

Avevo registrato il ricordo di Angelo Da Dalto venticinque anni fa, per scriverne su un giornale locale, quando ne erano già trascorsi altrettanti da quello che era successo, nella notte tra il 15 e il 16 febbraio 1966, in una galleria dei cantieri idroelettrici tra l’alta Valmaggia e la Val Bedretto, nel Canton Ticino.

Non posso dire di ricordare bene quella voce; non quanto i silenzi che si allargavano tra una frase e l’altra. Quelli sì, li ricordo bene. Come passi nel vuoto, nel buio. Fino all’ultimo, col quale ci eravamo salutati.

Era stato l’unico a uscirne vivo quella notte. Diciassette altri erano morti, uccisi dal gas che ristagnava in galleria. Tutte morti evitabili, se solo…».

Sono pagine tratte da Cielo di stelle. Robiei, 15 febbraio 1966, di Erminio Ferrari (Edizioni Casagrande). Un’opera che raccoglie voci e memorie – dei minatori attivi all’epoca sul cantiere, dei dipendenti dell’Ofima (Officine Idroelettriche della Maggia), committente dell’opera, dei pompieri che intervennero sul posto, delle vedove, delle orfane – su una tragedia avvenuta nella notte tra il 15 e il 16 febbraio 1966.

Mentre sono in corso i lavori nella galleria d’adduzione dell’impianto idroelettrico tra la valle Bedretto e la val Bavona, nell’alto Canton Ticino, quindici operai italiani e due pompieri di Locarno muoiono uccisi dai gas tossici che ristagnano nel cunicolo. È l’incidente sul lavoro più grave mai avvenuto nella Svizzera italiana, uno dei molti entrati nella storia della nostra emigrazione.

Questi i nomi delle vittime:

Enrico Barilani (1947)

Antonio Bilabini (1935)

Piero Bonetti (1935)

Giancarlo Butti (1942)

Domenico Caputo (1931)

Valerio Chenet (1914)

Angelo Casanova (1921)

Giovanni Domenighini (1941)

Aldo Falconi (1934)

Bruno Lazzarotto (1929)

Silvio Maglia (1935)

Luigi Nordera (1937)

Giovanni Pasinetti (1938)

Luigi Ranza (1926)

Gianfranco Rima (1941)

Renato Roncoroni (1928)

Elpidio Vettori (1942).

Una vita al di là delle Alpi

Pietro Cossalter ha 71 anni ed è un ex emigrante che ha vissuto per gran parte della sua vita in Svizzera.

Nel 1969, a soli 17 anni, decise di fare le valigie, con l’obiettivo di trovare un buon lavoro. Partito da Sedico, si trasferì a Pfungen, nel Canton Zurigo, dove erano già presenti i suoi fratelli. 

Nonostante oggi ami la Svizzera, racconta che all’epoca lasciare l’Italia per trasferirsi al di là delle Alpi fu davvero molto difficile. Era giovane, e per la prima volta si trovava lontano dai suoi cari. Una delle difficoltà incontrate all’inizio fu la lingua, visto che non conosceva il tedesco. Riuscì però a imparare il necessario grazie al suo lavoro e alle nuove amicizie.

Grande aiuto lo ricevette anche dai fratelli, soprattutto ai primi tempi. Alla fine, malgrado gli ostacoli iniziali, l’esperienza elvetica fu molto positiva e oggi Pietro si dice contentissimo di quegli anni.

Nel 1971, dopo tre anni dalla partenza, rientrò in Italia per il servizio militare. Assolto il suo dovere, nel 1973 espatriò nuovamente, restando in Svizzera fino al 2016. Lavorò come operaio addetto al carico-scarico merci in due diverse aziende: prima la Keller AG Ziegeleien, una fabbrica di mattoni e tegole. Poi, dal 2001, per la Maag Recycling, azienda di riciclaggio, con la quale raggiunse la pensione nel 2016. 

Ogni anno riusciva a tornare in visita in Italia, per trascorrere del tempo con la fidanzata e aiutare i genitori. Nel 1978, mentre si trovava a Sedico, sposò Carla Rosso, sua compaesana. Dopo il matrimonio i due si trasferirono insieme a Pfungen e nel 1980 nacque il loro figlio Claudio. Claudio che nel 2008 e nel 2011 regalò loro i nipoti Ivan e Davide, grandi appassionati di calcio.

Durante la sua vita in Svizzera, per circa trent’anni Pietro svolse anche attività di volontariato presso la Colonia Libera di Embrach, aiutando altri emigranti con i documenti e con l’approccio al tedesco. Ogni tanto, oltre a questioni burocratiche e di inserimento nel nuovo contesto, con la Colonia riuscivano a organizzare anche qualche festa, per distrarsi e socializzare.

L’affetto e il senso di appartenenza che Pietro prova per la sua terra natia lo hanno riportato qui, per godersi gli anni della pensione nel luogo dove ha vissuto la sua infanzia. Dal 2016, infatti, Pietro vive con la moglie a Sedico. Ma quando si presenta l’occasione, torna in Svizzera da figlio, nipoti e amici. 

Se lasciare l’Italia per trasferirsi in Svizzera fu complicato, anche lasciare la Svizzera per tornare in Italia non fu da meno. In entrambi i casi, ricorda, la cosa più difficile è stare lontano dai propri cari: genitori e fidanzata prima, figlio e nipoti ora. 

Storia raccolta da Alessia Guolla

Mattmark. Sdegno e amarezza

Così si pronunciò il Consiglio Comunale di Feltre dopo la sentenza emessa al processo di appello per la tragedia di Mattmark: 

«Il Consiglio comunale di Feltre appresa la notizia riportata dai giornali della sentenza del Tribunale di Sion in Isvizzera dove si è tenuto il processo di secondo grado contro i presunti responsabili della sciagura di Mattmark; 

constatato che detto Tribunale ha confermato l’assoluzione degli imputati per “imprevedibilità del caso”; 

che il Tribunale, superando ogni ragionevole aspettativa dei familiari, i quali si attendevano, non tanto una esemplare condanna, quanto il riconoscimento del loro diritto al risarcimento del danno morale e materiale nei confronti di coloro che omettendo di attuare forme di protezione del lavoro in zone pericolose come il cantiere posto alla base del ghiacciaio Allalin, hanno indirettamente aperto la strada alla sciagura, ha addirittura addebitato con la sentenza le spese processuali ai familiari delle vittime, già provati, oltre che sul piano morale e degli affetti, anche su quello economico per la morte del familiare che in molti casi era l’unica fonte di sostentamento; 

manifesta lo sdegno di tutti i cittadini per questa sentenza che oltre a lasciare impuniti i responsabili, introduce un principio punitivo e scoraggiante per chi ricorre alla Magistratura per far valere i propri diritti umani e civili; 

protesta per le conseguenze che detta sentenza provocherà tra i nostri connazionali che lavorano all’estero in condizioni di costante pericolo, essendo sancito dalla sentenza che i responsabili di cantieri non possono prevedere fatti eccezionali come una frana. 

Invita le autorità del Governo Centrale e di quello Regionale a fare i passi necessari per tutelare e i diritti dei familiari delle vittime e la sicurezza dei lavoratori italiani occupati nei cantieri della Svizzera. 

Feltre, 7 ottobre 1972».

Fonte: Archivio di Stato di Belluno, Prefettura di Belluno, fascicolo: “Sciagura di Mattmark. Assistenza ai familiari delle vittime”.

Clicca QUI per leggere il precedente articolo sul processo di appello.

Mattmark. La beffa

«Un uomo non ha il cartellino del prezzo. Adesso tutto mi sembra addirittura pazzesco. Ho perso un fratello ed ora devo pagare la sua morte. Mai sentita una cosa del genere. Ha il sapore di una crudele buffonata». 
Così un bellunese esprimeva ad un giornalista del Corriere della Sera la propria incredulità e rabbia dopo la sentenza del processo di appello per la catastrofe di Mattmark. Era il 6 ottobre 1972, sette anni dopo quel tragico 30 agosto, e il tribunale cantonale di Sion aveva emesso il suo verdetto. 

Assoluzione di tutti gli imputati, confermando quanto stabilito in primo grado. In più, spese processuali per metà a carico del fisco elvetico e per metà dei parenti delle vittime. Una mazzata inattesa che andava ad aggiungersi all’amarezza per la riconferma che non era possibile avere giustizia. 

Il processo iniziò il 27 settembre. Gli imputati (impresari, tecnici, funzionari federali e della cassa infortuni elvetica, ispettori della sicurezza) erano diciassette, accusati di omicidio “per negligenza”. Come sei mesi prima (il processo di primo grado si era svolto a fine febbraio), il p.m. Antoine Lanwer pronunciò una requisitoria severa contro gli accusati, per poi limitarsi a chiedere semplici pene pecuniarie. Da mille a duemila franchi (circa 150-300 mila lire). 

Gli avvocati di parte civile rinnovarono la loro richiesta di una condanna per il reato di omicidio colposo. La controparte sostenne invece che nessuno avrebbe potuto prevedere la catastrofe. «Per garantire l’incolumità degli operai occupati nei cantieri di Mattmark – affermò uno degli avvocati – sarebbe stato necessario vietare i lavori. Sarebbe stata l’unica garanzia». 

I dibattimenti si conclusero il 29 settembre, e il 5 ottobre arrivò la sentenza, che suscitò reazioni di costernazione e sconcerto in Italia e tra i numerosi lavoratori italiani in Svizzera. I giornali elvetici quasi ignorarono la vicenda, mentre quelli italiani si fecero interpreti del sentimento dell’opinione pubblica, scossa dalla decisione. 

L’Unità titolava: «Per Mattmark nessun colpevole: i familiari pagheranno le spese», La Stampa definiva la sentenza «triste e iniqua», Il Popolo, organo ufficiale della DC, «scandalosa e offensiva». 

Anche tra i parlamentari trapelò irritazione. Il capogruppo socialdemocratico alla Camera, Cariglia, sollecitando il Ministro degli Esteri, Medici, ad un intervento immediato presso il governo svizzero, rilevò come il verdetto costituisse «un ennesimo episodio che confermerebbe l’esistenza di una mentalità preconcetta nei confronti degli emigrati italiani». 

La federazione unitaria degli edili aderenti a Cgil, Cisl e Uil espresse «stupore e indignazione per una vergognosa e inverosimile sentenza che trasforma le vittime in colpevoli, premia gli imputati e indica assoluta mancanza di obiettività e indipendenza rispetto agli interessi della classe imprenditoriale». 

L’inviato speciale del Corriere della Sera a Briga, Vittorio Notarnicola, concludeva amaramente il suo reportage: «Dev’essere proprio vero: i ghiacciai qualche volta cadono e, se qualcuno si trova sotto, la colpa è sua. Peggio per chi muore così, senza aver chiesto il permesso».

(continua)

Clicca QUI per leggere il precedente articolo sul processo di primo grado.

Corriere della Sera, 6 ottobre 1972

Corriere della Sera, 7 ottobre 1972

Mattmark. Il processo

«Il bilancio è a favore della Elektrowatt. Nella costruzione della diga di Mattmark sono morte complessivamente centosei persone, ottantotto nella sciagura del 30 agosto 1965 e diciotto nel corso dei lavori. Nella realizzazione della diga della Grande Dixence, i lavori durati quindici anni, nei quali sono stati impegnati complessivamente duemila uomini, si sono avuti centododici morti. Nessuno ha parlato allora, non si sono fatti scandali, non ci sono stati processi. Non capisco le ragioni del clamore che si è creato attorno a questo processo».

Sono parole pronunciate dall’avvocato Taugwalder, di Zermatt, difensore dei tre maggiori imputati nel primo processo per la tragedia di Mattmark. Era il 25 febbraio del 1972 e con questo confronto che – ricordano i giornali dell’epoca – provocò eloquenti mormorii di disapprovazione tra i presenti in aula, si chiudeva l’ultima udienza del dibattimento processuale iniziato il 22 febbraio a Visp, nel Canton Vallese. 

Gli imputati erano diciassette, tra impresari, funzionari federali e della cassa infortuni elvetica, tecnici delle imprese, ispettori dell’ufficio sulla sicurezza del lavoro, accusati di omicidio “per negligenza”. Il procuratore straordinario dell’Alto Vallese, Anton Lanwer, il pubblico accusatore, pur pronunciando una requisitoria netta in cui affermava la colpevolezza degli imputati, alla fine chiese pene irrisorie. Un’ammenda tra i mille e i duemila franchi, non più di 300 mila lire. 

Il processo, per le modalità con cui si svolse, fu giudicato in Italia una farsa. Il Codice di procedura penale del Canton Vallese non consentiva un dibattimento aperto. Non era previsto che le parti potessero chiamare in causa direttamente sul pretorio quanti con la loro testimonianza avrebbero permesso di chiarire veramente al Tribunale e all’opinione pubblica la presenza o meno di responsabilità tra gli accusati.

La difesa affermò l’«imprevedibilità» di quanto accaduto, barricandosi dietro la perizia d’ufficio prodotta dai professori Libourty di Grenoble, Baurst di Muenster, Muller di Monaco di Baviera e Hoinkes di Innsbruck. L’accusa non ebbe il tempo di presentare una contro perizia e rinunciò, poiché correva il rischio di superare i termini per la prescrizione del reato.

Parte della stampa svizzera bollò il processo come una questione di denaro e il difensore degli assicuratori, l’avvocato Ambord, fece proprie queste posizioni, sostenendo che le famiglie avevano già avuto il loro risarcimento e pertanto una sentenza di condanna sarebbe stata solamente una «vendetta» con cui colpire «persone che hanno tanti meriti». 

L’Unità, 25 febbraio 1972

Alla fine, il 2 marzo arrivò la sentenza di assoluzione per tutti gli imputati, nonostante l’avvocato Perrig avesse citato una testimonianza resa in istruttoria da una guida alpina che pochi giorni prima del 30 agosto 1965 aveva notato e segnalato una fenditura di un centinaio di metri nello spiovente del ghiacciaio. 

Nonostante sempre Perrig avesse ricordato come un ingegnere delle imprese costruttrici fosse stato esplicito nelle sue dichiarazioni ai magistrati affermando: «Che ci fosse pericolo lo si sapeva, ma spostare il cantiere avrebbe comportato un costo molto elevato». 

Nonostante il prof. Amnahein di Losanna avesse percorso nel 1963 il ghiacciaio lanciando un allarme. 

Nonostante il geologo Kester, l’esperto geologo dell’Elektrowatt, avesse sostenuto che a lui non erano stati chiesti pareri su dove piazzare i cantieri. 

Nonostante l’avvocato Stein avesse dato lettura delle dimissioni motivate con cui prima della tragedia l’imputato Vouillod aveva lasciato il suo impiego presso l’Elekrowat, allarmato dal precario equilibrio del ghiacciaio. 

Nonostante importanti valanghe si fossero già verificate nel 1949, nel 1951, nel 1953 e nel 1963. E nonostante anche il giorno stesso della tragedia – in base alle deposizioni di alcuni testimoni scampati al disastro e citate al processo dall’avvocato italiano Arcadini – qualche ora prima della fatale caduta della lingua di ghiaccio una piccola nube bianca pare si fosse sollevata dall’Allalin, accompagnata dalla caduta di alcuni blocchi di ghiaccio vicino alle baracche. 

Le parti civili ricorsero in appello.

(continua)

Clicca QUI per leggere l’articolo precedente sulla tragedia di Mattmark.

Il Gazzettino, 3 marzo 1972

L’Unità, 3 marzo 1972