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Clough Creek – Benny Boye

Noi che eravamo effettivi alla base di Brass Terminal dovevamo spesso intervenire per riparazioni nelle varie flow station della società. Si trattava quasi sempre di emergenze e anche quella mattina, con un preavviso di un’ora, ci dissero che dovevamo attivarci con la massima urgenza. Un elicottero ci avrebbe prelevati e portati a Clough Creek. Poi, il giorno dopo, visto che era domenica e non c’erano elicotteri, ci saremmo mossi via fiume con il motoscafo fino a Benny Boye. Come di consueto, eravamo io e l’amico Fittaroli.

Lungo la rotta del nostro volo, il delta del Niger sembrava una palude immensa e abbondante, dove qua e là comparivano dei villaggi e, in mezzo alle foreste di mangrovie, spuntava qualche capanna.
Arrivati a Clough Creek, ci sbarcarono in tutta fretta, ci consegnarono la nostra borsa e ci indicarono la piattaforma in cui ci aspettava il problema da risolvere.

Passò circa una mezzora prima che riuscissimo ad arrivare ai generatori. Riparammo il guasto e a mezzogiorno, per quanto ci riguardava, il nostro lavoro era concluso. Convinti di ripartire nell’immediato pomeriggio per Benny Boye, constatammo invece che il Sea truck che doveva essere a nostra disposizione non era ancora arrivato. Anzi, non era neppure partito, e probabilmente sarebbe arrivato il giorno dopo. Ci mettemmo il cuore in pace, tanto ormai eravamo abituati a questi contrattempi.

Finalmente, nella tarda mattinata del giorno seguente, il nostro motoscafo arrivò. Chiedemmo al capitano se saremmo riusciti ad arrivare a Benny Boye prima del buio. Sapevamo, infatti, che viaggiare sul fiume di notte poteva essere molto pericoloso. Il capitano ci rispose affermativamente e ci fidammo. Partimmo prima del previsto e dopo un paio d’ore giungemmo all’entrata dello Swake River.

Privi di visuale, navigavamo completamente al buio, in una situazione molto pericolosa. In quel tratto non c’erano villaggi e se fossimo naufragati nessuno se ne sarebbe accorto.

Tutto sembrava procedere al meglio, senonché dopo qualche minuto di navigazione trovammo la via sbarrata da un’interminabile scia di tronchi. Tentammo in tutti i modi di superarli, ma quando rischiammo di restare bloccati decidemmo di svincolarci e giungemmo in un canale più largo. Dovevamo decidere se continuare o fare ritorno al punto di partenza. Il capitano disse che era meglio proseguire e, di nuovo, ci fidammo.

Il tempo passava e i canali si facevano via via sempre più stretti. Stava calando l’oscurità. Di lì a poco si sarebbe fatta notte e noi non eravamo provvisti di alcun lume. Privi di visuale, navigavamo completamente al buio, in una situazione molto pericolosa. In quel tratto non c’erano villaggi e se fossimo naufragati nessuno se ne sarebbe accorto.

Con questi pensieri in testa, e con qualche preghiera, avanzammo cercando di intuire la nostra posizione. Il capitano disse che secondo lui eravamo vicini all’entrata del grande canale che porta alla città di Warri, dunque in prossimità della meta. In una mezz’ora che sembrò eterna il motoscafo fece il suo ingresso nel canale più grande, dove nonostante l’oscurità potevamo comunque intravvedere qualcosa.

Dopo un’ora cominciarono finalmente a spuntare le luci della piccola insenatura in cui sorgeva il campo di Benny Boye. Ormai erano le dieci, ma per fortuna era andato tutto bene. E un’altra odissea era finita.

Giacomo Alpagotti

Giacomo Alpagotti

Il caregheta vagabondo

A lavorare iniziai a tredici anni, facevo il contadino, ma siccome mio padre si teneva tutti i soldi, dopo due anni dissi basta. Venne a casa mia una persona di Gosaldo e mi chiese se volessi andare con lui a fare il caregheta. Gli risposi subito di sì. Mio padre firmò il contratto e andai via per cinque mesi.

Il caregheta mi pagò il doppio rispetto a quanto pattuito, perché ero stato bravo. Rimasi un po’ a casa e poi ottenni il contratto per andare in Francia, a fare ancora il caregheta, questa volta con mio fratello, vent’anni più vecchio di me. Dopo due anni di lavoro gli chiesi un aumento della paga, ma lui replicò che mi dava il salario degli stranieri: «Non se ne parla di aumenti», fu la sua risposta.  

Mio fratello venne a sapere che ero lì e mi mandò i gendarmi, così dovetti far ritorno a casa.  

Allora rientrai in Italia, raccolsi i miei attrezzi e tornai in Francia a fare il caregheta per conto mio. Lavorai tre anni nel Département de l’Aveyron. Dopo un po’, però, mio fratello venne a sapere che ero lì e mi mandò i gendarmi, così dovetti far ritorno a casa.  

Rimasi un’estate, poi in autunno mio cugino mi chiese di accompagnarlo in Toscana, a Castellina in Chianti.  
Il vino era buonissimo e mandavo le lettere a mia moglie timbrandole con il bicchiere.  
Restammo per quatto o cinque mesi. In una famiglia costruimmo dodici sedie. Quando videro quelle che avevo fatto io rimasero colpiti. C’erano due fratelli, presero una sedia ciascuno e girarono tutto il paese per farle vedere, da quanto erano belle. E così tutti iniziarono a volerle. 

Poi mi venne offerto un lavoro in galleria a Belluno e così per due anni andai a fare il minatore. 
Successivamente mi trasferii in Svizzera, nel Canton Vallese, sempre in galleria. Ma questa era piena d’acqua e gli stivali che mi diedero erano tutti bucati. Cambiai lavoro. 

Qualche sedia l’ho fatta ancora, soprattutto da mandare in Svizzera.

Andai a Neuchâtel a cercare impiego come muratore, visto che di sera avevo frequentato la scuola per muratori.  
Trovai occupazione e rimasi due o tre anni. Stavo bene. Al termine del contratto, rientrai in Italia per un po’ di tempo, per poi tornare nel Vallese, sempre a fare il muratore, per altri tre anni.

Lavorai anche a Milano e a Lodi, per cinque anni, e al Brennero a costruire l’autostrada. Lassù mi trovai benissimo, anche se sgobbavo dodici ore di notte.  

Poi la salute mi impose di tornare a casa e fare domanda di pensione. Ma qualche sedia l’ho fatta ancora, soprattutto da mandare in Svizzera. E quelle che ho fatto per me, dopo sessant’anni sono ancora perfette.

Giovanni Stramare

Giovanni Stramare
Giovanni in posa con una sedia da lui realizzata

Sono anch’io un emigrante?

A primavera del 1952, con la fine della quinta classe elementare, si era conclusa quella che amo definire la mia “carriera accademica”. I primi due inverni a seguire, 1952-53 e 1953-54, frequentai un corso teoricopratico per muratori. Solo la parte teorica, tenuta da un geometra nostro paesano. In ogni caso, a dodici anni e mezzo avevo in mano un diploma di muratore.

Proprio nel giorno dell’esame finale incontrai il nostro parroco di allora, don Ernesto Ampezzan, che mi chiese se fossi disposto ad andare a Roma a lavorare nel Seminario Romano Maggiore. Sapevo di cosa si trattava perché alcuni compaesani e amici miei ci erano già stati e mi avevano informato sul tipo di lavoro, nonché sulle condizioni economiche: trecento lire al mese. Così, con la benedizione dei miei, visto che c’era bisogno e sarei stato una bocca in meno da sfamare, feci le valigie per la capitale. Mia madre venne con me fino a Belluno, acquistò il biglietto per il viaggio e aspettammo la partenza. Caso volle che quell’anno il raduno degli Alpini in congedo si tenesse proprio a Roma e così chiedemmo se era possibile viaggiare con la tradotta degli Alpini, il che mi avrebbe evitato di cambiare treno nel bel mezzo della notte. Il permesso mi venne accordato ed ecco che il 18 marzo 1954, alle ore 20:00, ci fu la partenza.

Ebbi anche l’onore di servire il cardinale Angelo Giuseppe Roncalli, più tardi Sua Santità Papa Giovanni XXIII.

Arrivammo a Roma dopo circa dodici, tredici ore, allo scalo merci di San Lorenzo perché la Stazione Termini era nuovissima e un treno carico di ex Alpini avrebbe forse creato qualche… difficoltà.
Dopo varie peripezie, con l’aiuto di due dei miei “compagni di viaggio”, arrivai a destinazione e ci rimasi per più di due anni, fino al luglio del 1956. Il mio lavoro consisteva nel fare le pulizie di tutto il seminario. C’erano allora un centinaio di seminaristi, mentre noi eravamo una squadra di ragazzi più o meno della mia età, tutti della provincia di Belluno, in gran parte agordini e zoldani. Un ulteriore nostro ruolo era quello di camerieri. Ai pasti avevamo l’incarico di servire a tavola i seminaristi e i superiori. Non di rado capitavano ospiti di riguardo, come vescovi o cardinali ex alunni del seminario. Tra questi ebbi anche l’onore di servire il cardinale Angelo Giuseppe Roncalli, più tardi Sua Santità Papa Giovanni XXIII.

Roma, 1955. Isidoro in divisa da cameriere.

Nella primavera del 1957 mi capitò l’occasione di trasferirmi a Bolzano, dove uno zio aveva una piccola impresa di pittura. Iniziai allora da apprendista la mia vera carriera. Rimasi a Bolzano per i tre anni dell’apprendistato e per un quarto da operaio, mentre nell’inverno del 1960-61 un mio paesano che da anni lavorava in Svizzera mi chiese se non avessi interesse a espatriare. Era pittore anche lui e visto che stava per cambiare ditta, dal suo vecchio capo si sarebbe liberato un posto. Fu così che a marzo del 1961 arrivai per la prima volta a Herisau, nel Canton Appenzell, dove mi trattenni per otto stagioni, fino al 1968.

Appenzell, 1967. Isidoro (sulla vespa) con il fratello Claudio (in basso a sinistra)
e due colleghi di lavoro.

A metà degli anni Sessanta a Herisau venne fondata una delle prime Famiglie Bellunesi, grazie al signor Giacomo Ponte di Lamon e ad altri collaboratori. Anch’io fui tra i soci della prima ora ed ebbi in consegna il gagliardetto della Famiglia, che portai in corteo ai raduni in varie località della Svizzera, tra San Gallo, Sciaffusa, Lugano e così via. Nel 1968 la mia famiglia al completo si trasferì a Bolzano, dove già lavoravano mio padre e due sorelle, e così decisi anch’io di rientrare dopo quasi sedici anni.

Nell’anno scolastico 1969-70 frequentai a Bolzano le scuole medie serali. Grazie al diploma di licenza media – e a una discreta conoscenza della lingua tedesca acquisita negli anni in Svizzera – qualche tempo dopo ebbi la possibilità di entrare alle dipendenze dell’amministrazione provinciale di Bolzano in qualità di assistente ai servizi agrari. Vi rimasi per quasi vent’anni, fino al pensionamento. Nel frattempo mi sposai (nel 1974), ebbi due figlie e ora ho anche due nipoti. Fino al suo scioglimento, fui socio della Famiglia Bellunese dell’Alto Adige.

Anche se non ho visto né l’Australia né le Americhe, sessantasette anni li ho passati fuori dalla provincia di Belluno

Dopo il pensionamento, per un po’ ripresi la vecchia carriera dell’imbianchino, ma da un paio d’anni mi dedico solo alla famiglia: moglie, figlie e nipotini. Un po’ mi vergogno ad autodefinirmi emigrante. Ma in fondo, anche se non ho visto né l’Australia né le Americhe, sessantasette anni li ho passati fuori dalla provincia di Belluno, e continuo a farlo. Con ciò penso di potermi dire “migrante” anch’io.

Isidoro Nardi

Orazio Zanolla

Orazio Zanolla

“Nell’inverno del 1937 i miei genitori decisero di fare un nuovo viaggio in Italia. Per questo bisognava andare tutti a Saint Pierre d’Entremont dove c’era la corriera fino a Echelles (Savoia), poi prendere la coincidenza fino a Chambery. Ma come fare per andare e di buon mattino sulla strada coperta di neve e camminare per cinque chilometri fino a Saint Pierre d’Entremont, soprattutto con tre bimbi di cui io, il maggiore, di appena dieci anni? Tutto però andrà bene con il pagamento di un supplemento: l’autista della corriera accetta di venire a casa a prenderci.

Eccoci sul marciapiede della stazione di Chambery aspettando il treno Bordeaux-Milano. E’ incredibile, ma in questo periodo esisteva un treno che collegava le due città.  Penso che questa relazione ferroviaria fosse dovuta al fatto che, dopo la prima guerra mondiale, il governo francese aveva chiamato certe popolazioni italiane, fra le altre anche venete, a venire a lavorare nel sud-ovest francese a cui mancava mano d’opera (…). Alla nostra discesa dal treno, all’arrivo nella capitale lombarda, faccio la scoperta dell’immensa stazione tutta recente, che era, e che è sempre, bisogna riconoscerlo, degna d’interesse per le dimensioni dell’edificio, l’altezza della vetrata, il gran numero di binari, la moltitudine di viaggiatori, l’immensità della tettoia con le botteghe e soprattutto, esposto in una vetrina, il modello illuminato del transatlantico italiano “ Rex “, che da poco tempo aveva conquistato il nastro azzurro della traversata dell’Atlantico.

Il tragitto seguente fu abbastanza breve dal momento che ci fermavano a Verona per fare visita a zia Sofia Zerbato che abitava in questa città dove mio zio lavorava in un ufficio. Allorché uscimmo della stazione, il cielo di Verona era illuminato dai bagliori rossi di un incendio. Era un’ importante segheria che bruciava nella periferia della città (…). Verona, Padova, poi Santa Giustina Bellunese: il percorso fu abbastanza breve. Nel pomeriggio arrivammo a Marsiai per ritrovarci nella gioia degli abbracci. C’era mia nonna paterna e mia zia Giovanna che ci aspettavano sulla soglia della casa paterna. Nell’ alloggio di fronte, mia nonna materna, mio zio Giorgio e la sua giovane sposa Olga erano ugualmente pronti a salutarci (…).

Nella camera che m’era stata assegnata e che era quella dello zio Ernesto ritrovai con gioia sotto il grande letto la provvista abituale di frutti e di uva secca che mi aveva fatto molto piacere due anni prima durante il viaggio precedente . Ancora oggi ho in memoria il ricordo delle serate passate nella stalla. Era inverno, in questo periodo dell’anno i giorni erano brevi, di più faceva molto freddo. A Marsiai si aveva l’abitudine di ritrovarci tra vicini, dopo la cena della sera, nella stalla per passare la serata approfittando così del calore del bestiame. Gli adulti chiacchieravano, i bambini giocavano nel fieno o negli angolini scuri. La serata finiva sempre con la recita del rosario o delle litanie. Era mio zio Giorgio che conduceva la preghiera iniziando solo con “Pater Noster” o “Ave Maria”; il resto dell’assemblea rispondeva in coro la seconda parte della preghiera; tutto questo in un profondo silenzio e un grande fervore.

Di questo viaggio del febbraio 1937 alcuni aneddoti mi sono rimasti in mente. In particolare un leggero equivoco fra mio padre e mia nonna durante una conversazione sul nostro viaggio. Mio padre ha parlato della città di Chambery, ma con il suo accento italiano si capiva “Sanberi”, e mia nonna che conosceva tutti i santi italiani ci domandava “Ma chi è questo santo che non conosciamo qui in Italia ?”.

Orazio Zanolla

Valdis Garbini

“Ora a Cesana non c’è più tanta giovinezza”. Valdis è a sinistra, a cavallo.
“Ora a Cesana non c’è più tanta giovinezza”. Valdis è a sinistra, a cavallo.

“Sono nato a Cesana di Lentiai il 4 dicembre 1930. Nel 1942 lascio la scuola e vado con mio zio in montagna a pascolare le vacche; sono rimasto al suo servizio quattro anni, lavorando un po’ qua e un po’ là. Nel ’51 parto militare per il 6° CAR di Pesaro, dove sono rimasto come istruttore fino all’aprile ’52, naia che mi ha servito molto nella vita e nel lavoro. Nel ’54 parto per la Svizzera dove mi sono trovato bene nel lavoro e dove ho incontrato Lidia, mia moglie. Nel ’56 ho deciso di venire in Francia con l’impresa dell’ing. Augusto Mione, chiamato da mio fratello. Sposandomi, avrei avuto un alloggio per la famiglia. Così ho deciso di partire. Il padrone, dopo esserci messi d’accordo, mi ha augurato buona fortuna, dicendomi che se avessi avuto dei problemi avrei comunque avuto sempre il mio posto. Ero l’unico giovane che aveva un permesso speciale da fine gennaio, e non da fine marzo come lo avevano gli altri. E’ stata veramente una grande soddisfazione! Lidia è venuta in Francia a fine anno e così il 5 gennaio 1957 ci siamo sposati a Lentiai e a Negrar (VR) Siamo insieme da 56 anni, con due figlie e quattro nipoti, tutti con un buon lavoro e felici. Qui, in Francia, ho la mia casa costruita con le mie braccia, e dove passo la mia vita da pensionato, sperando che il Signore mi dia ancora qualche anno di vita con la mia cara Lidia, e un po’ di salute della quale abbiamo sempre bisogno. Oggi è San Bernardo, festa a Cesana, e questo mi dà un po’ di nostalgia. Gli anni scorsi eravamo sempre là, facendo la festa nel cortile di casa, invitando amici e paesani. Ora la sola speranza è di poter tornare ancora una volta per poter riempirmi gli occhi e il cuore di questa magnifica vallata che tanto amo, ritornare per ringraziare il Piave che per noi era tutto; quando era in brentana lo sentivo anche a letto. Quante volte con i gomiti sul parapetto del ponte, facevo progetti di andare a lavorare lontano! Ricordo con nostalgia quando lasciavo i genitori con un nodo in gola che si scioglieva solo dopo Alano e Quero o dopo la galleria di Arsié.

Un caro e cordiale saluto a tutti voi, ringraziando tutti i collaboratori del giornale che leggo con molto piacere”.

Valdis Garbini – Bouc Bel Air – Francia