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Mattmark. Sdegno e amarezza

Così si pronunciò il Consiglio Comunale di Feltre dopo la sentenza emessa al processo di appello per la tragedia di Mattmark: 

«Il Consiglio comunale di Feltre appresa la notizia riportata dai giornali della sentenza del Tribunale di Sion in Isvizzera dove si è tenuto il processo di secondo grado contro i presunti responsabili della sciagura di Mattmark; 

constatato che detto Tribunale ha confermato l’assoluzione degli imputati per “imprevedibilità del caso”; 

che il Tribunale, superando ogni ragionevole aspettativa dei familiari, i quali si attendevano, non tanto una esemplare condanna, quanto il riconoscimento del loro diritto al risarcimento del danno morale e materiale nei confronti di coloro che omettendo di attuare forme di protezione del lavoro in zone pericolose come il cantiere posto alla base del ghiacciaio Allalin, hanno indirettamente aperto la strada alla sciagura, ha addirittura addebitato con la sentenza le spese processuali ai familiari delle vittime, già provati, oltre che sul piano morale e degli affetti, anche su quello economico per la morte del familiare che in molti casi era l’unica fonte di sostentamento; 

manifesta lo sdegno di tutti i cittadini per questa sentenza che oltre a lasciare impuniti i responsabili, introduce un principio punitivo e scoraggiante per chi ricorre alla Magistratura per far valere i propri diritti umani e civili; 

protesta per le conseguenze che detta sentenza provocherà tra i nostri connazionali che lavorano all’estero in condizioni di costante pericolo, essendo sancito dalla sentenza che i responsabili di cantieri non possono prevedere fatti eccezionali come una frana. 

Invita le autorità del Governo Centrale e di quello Regionale a fare i passi necessari per tutelare e i diritti dei familiari delle vittime e la sicurezza dei lavoratori italiani occupati nei cantieri della Svizzera. 

Feltre, 7 ottobre 1972».

Fonte: Archivio di Stato di Belluno, Prefettura di Belluno, fascicolo: “Sciagura di Mattmark. Assistenza ai familiari delle vittime”.

Clicca QUI per leggere il precedente articolo sul processo di appello.

La lettera di un altro

Gian Stefano Guerriero nacque a Pedavena il 26 giugno 1932. Cominciò a lavorare all’età di dodici anni, aiutando la nonna nel mulino di famiglia, dove in seguito iniziò a svolgere l’attività di carrettiere, andando a raccogliere grano e a consegnare la farina ai clienti. 

Successivamente divenne meccanico di biciclette, frequentando contemporaneamente l’Istituto Tecnico serale a Feltre. L’ultima stagione invernale in Italia la trascorse lavorando in una segheria. Trovandosi poi senza lavoro, fu il primo della sua numerosa famiglia a emigrare verso la Svizzera. La storia della partenza è legata a una casualità: il signor Guerriero, infatti, partì grazie a una lettera di assunzione. E fin qui nulla di strano. Solo che la lettera era indirizzata a un’altra persona.

Il compaesano Antonio Rech, il vero destinatario, era da qualche tempo emigrato in Australia, cosicché la madre di quest’ultimo, sapendo che Gian Stefano era disoccupato, gli indicò la possibilità di andare a lavorare per l’azienda che richiamava il figlio, precedentemente emigrato in Svizzera nel periodo tra le due guerre. Ebbe così inizio, il 10 luglio del 1951, la storia di emigrazione del signor Guerriero. 

Negli anni seguenti lo raggiunsero, per un’intera vita lavorativa in terra elvetica, i fratelli Maurizio, Pier Giorgio e Quinto, così come i genitori e gli altri fratelli che rimasero però solo per brevi periodi, svolgendo lavori stagionali. 

Arrivato in Svizzera, nella pensione in cui alloggiava, Gian Stefano trovò un amico di famiglia partito un paio di anni prima da Mugnai. Questo amico gli diede una mano ad ambientarsi e a superare le difficoltà iniziali. Per i primi cinque anni il signor Guerriero lavorò con contratti stagionali, riuscendo poi a ottenere un visto annuale. La fortuna che gli permise di partire lo seguì anche all’estero. I proprietari della casa in cui alloggiava – un italiano della Val Camonica e la moglie svizzera, del Canton Nidwalden – col tempo divennero i suoi suoceri.

Negli ultimi diciotto anni lavorò come elettricista presso la Pilatus, una fabbrica di aerei di Stans, nel Canton Nidwalden. Andò in pensione nel 1997, dopo quarantadue anni di lavoro, rimanendo a vivere in Svizzera dove le tre figlie hanno messo su famiglia regalandogli cinque nipoti.

Una partenza in treno.

Camillo Cason, ragazzo del ’99

Primo piano dell'emigrante Camillo Cason

Fiero del suo cappello alpino e delle medaglie al petto, Camillo Arnoldo Cason, che qui vediamo nella foto, è uno dei tanti esempi bellunesi del binomio emigrante-combattente. 

Camillo nacque a Zurigo il 12 gennaio 1899, secondogenito di Giuseppe Cason e Antonietta Buttol, i quali erano emigrati per lavoro in Svizzera, dove si erano conosciuti qualche anno prima e dove erano tornati dopo il matrimonio, avvenuto nel 1896 ad Agordo, paese di origine della sposa. Giuseppe invece era nativo di Pren di Feltre e qui egli rientrò da Zurigo con la famiglia agli inizi del 1900; Camillo visse dunque la sua infanzia nella frazione feltrina, dove frequentò le scuole e temprò il suo carattere deciso ma buono, presto avezzo alle difficoltà della vita di allora. A diciotto anni Camillo venne arruolato e nei primi mesi di servizio militare fu a Belluno, nel magazzino del Battaglione Feltre. Venne poi mandato sul campo: divenne caporale maggiore del 3° Reggimento Alpini, Battaglione Val Cenischia. Nel 1924 gli venne concessa la croce al merito dal Ministero della guerra, a cui fece seguito quella di Cavaliere di Vittorio Veneto. Tra il ’20 e il ’30, Camillo emigrò per diversi periodi lavorativi stagionali in Francia, impiegato nel settore edile in compagnia del padre e del fratello Silvio. Si trasferì poi a Milano, dove lavorò alle dipendenze dell’Istituto per bisognosi Cardinal Ferrari. Era il 1927 quando si recò a Somma Lombardo, in provincia di Varese, per presenziare al matrimonio di un suo amico, un certo Miglioranza, anch’egli feltrino; qui conobbe la sua futura sposa, Antonietta Casolo. Un anno dopo venne celebrato il matrimonio, da cui nacquero due figli, Enrica e Giuseppe. Nel piccolo centro varesino Camillo faceva inizialmente lavori di diverso tipo, finchè il suocero chiese al suo datore di lavoro se aveva un posto per lui nella sua fabbrica tessile. Camillo venne assunto subito e vi rimase fino all’età della pensione. Ogni anno tornava al suo paese, ai piedi del Paffagai, dove amava ritrovare gli amici di infanzia e i numerosi fratelli e sorelle, che sempre ha aiutato nei momenti di bisogno. Persona molto generosa e altruista, aveva uno spirito gioviale, aperto all’amicizia e all’allegria. Due sono stati i suoi ideali di vita: la famiglia e l’amore per la Patria; finchè le condizioni di salute glielo hanno permesso, ha sempre partecipato alle annuali sfilate degli Alpini. Si è spento nel 1979. 

Fonte: BNM n 10/2015