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Tra Belgio e California

di Giuseppe Carrera

La storia siamo noi, l’incipit di una famosa canzone ci offre lo spunto per una riflessione: la Storia del nostro passato è il risultato delle tante piccole storie minori di persone comuni che, con le loro esperienze di vita, i sacrifici, la resilienza, le delusioni, i successi, i sogni, compongono il disegno finale di un paesaggio complesso e articolato.
Una di queste ci porta a Gosaldo, il 4 giugno del 1931.

È la data di nascita di Delfino Alberto Bressan che, come tanti bambini della sua età, trascorse un’esistenza semplice, segnata dalla dura realtà della vita rurale e montana, con il lavoro fisico unico mezzo per sostenere la famiglia. Crescendo, Delfino imparò presto quei valori di fatica e determinazione che lo avrebbero accompagnato per tutta la vita.

Visse gli anni della fanciullezza e della gioventù in un periodo storico difficile e controverso, caratterizzato dal ventennio fascista e dalla Seconda guerra mondiale. Nel suo percorso incrociò situazioni particolari e drammatiche e divenne testimone, diretto e indiretto, di diverse tragedie che caratterizzarono gli anni Cinquanta e Sessanta.

All’età di 26 anni, nel 1957, era già un uomo maturo e, viste le scarse opportunità di lavoro, come tanti agordini e bellunesi fu costretto a lasciare la propria terra e i propri affetti per cercare un futuro migliore all’estero, più precisamente in Belgio, nella Vallonia nota per le miniere di carbone, attratto – come tanti altri italiani – dalle promesse del famigerato “manifesto rosa”. Partì nonostante l’anno prima, l’8 agosto del 1956, duecentosessantadue minatori avessero perso la vita nel drammatico incidente al Bois du Cazier di Marcinelle.

Malgrado la consapevolezza del pericolo, la decisione era presa e per circa due anni, dal 1957 al 1959, lavorò in una miniera vicino a Liegi. Di quel periodo rimangono alcune fotografie che lo ritraggono in vari momenti di lavoro, da solo o con i colleghi. In alcune immagini lo si vede a fine turno con il viso e la tuta completamente neri per il carbone. Con un buon bagno tornava pulito, ma i suoi polmoni ogni giorno respiravano quella maledetta e insidiosa polvere che nel tempo sarebbe stata letale.

Ans, provincia di Liegi, 28 gennaio 1957. Delfino è l’ultimo a destra

Prima di iniziare il turno di lavoro
A fine turno

Intanto, nel suo paese natio, più precisamente a Vallalta, nella località denominata California, si stavano creando nuove situazioni che avrebbero cambiato il suo futuro.

Nel 1957 la Società Mineraria Vallalta, del gruppo Montedison, elaborò un progetto per la rinascita del sito minerario di Vallalta: da indagini e studi sul territorio emersero importanti potenzialità del giacimento. Vennero quindi messe in campo diverse attività preliminari per iniziare le attività di ricerca e coltivazione dei giacimenti. La vecchia mulattiera venne resa transitabile, si portò la linea elettrica a 380 V, vennero ripristinate vecchie gallerie, la O’Connor e Todros, e scavati nuovi pozzi fino alla profondità di centosessanta metri.

Delfino, probabilmente informato da parenti e paesani, ne venne a conoscenza e si candidò come minatore alla Società Vallalta, che accettò la sua richiesta. Delfino fu entusiasta di poter abbandonare le miniere di carbone in un Paese senza luce e di poter tornare al suo paese di origine, nella sua verde e soleggiata vallata, vicino ai propri cari.

Nelle miniere di Vallalta prestò servizio per alcuni anni tra il 1960 e il 1962. Si recava al lavoro a piedi, scendendo da casa sua giù per la valle fino alla California dove, insieme ai suoi compagni di turno, raggiungeva la miniera. Lavorava otto ore al giorno per sei giorni la settimana, forando la roccia, caricando l’esplosivo e facendolo brillare. Il mercurio si presentava allo stato liquido e in grande quantità.

Dopo la fase di ricerca e individuazione del minerale, si procedeva su altri settori, con altri scavi. Questa attività di ricerca avrebbe poi portato, nella seconda fase, alla produzione e coltivazione vera e propria.

Si creò un buon rapporto tra dirigenti e maestranze, senza scioperi e proteste e con una bassa incidenza di infortuni, nonostante il contesto lavorativo di particolare pericolosità. Nel gennaio del 1962, però, ecco i primi segnali di ciò che avrebbe posto fine ai sogni e alle aspettative: infiltrazioni d’acqua nelle gallerie che sembravano inizialmente di poco conto si rivelarono in poco tempo fatali.

Per l’intera comunità questa terribile sciagura rimase per molto tempo una ferita aperta.

Delfino raccontò che il pomeriggio del 19 gennaio, verso le 19:00, mentre stava per ultimare una fase del suo lavoro di perforazione, lui e il suo compagno di turno improvvisamente vennero investiti da un forte getto d’acqua che allagò velocemente la galleria.

A stento riuscirono a uscire e a dare l’allarme, ma nel frattempo tre colleghi erano scesi nel pozzo per il loro consueto turno di notte. La mattina seguente, alle 7:10, l’arganista Angelo Pollazzon, dopo aver sentito il segnale di salita, mise in azione l’argano che subito si bloccò.

Si sporse alla bocca del pozzo per capire la causa e rimase sconvolto da quanto vide: dal condotto, impetuosa, risaliva una colonna d’acqua. Rimase colpito e interdetto e, compresa la gravità della situazione, lanciò l’allarme. Nelle gallerie scavate in precedenza e non segnalate nelle mappe erano entrate copiose quantità d’acqua che avevano saturato gli spazi vuoti.

Con l’alta pressione creatasi, arrivò la rottura del sottile diaframma tra le vecchie coltivazioni e i nuovi avanzamenti e il conseguente allagamento dell’intera struttura. Per le maestranze in superficie furono momenti drammatici al pensiero dei tre sfortunati colleghi scesi la sera prima nel pozzo.

Il giovane perito minerario Vito De Cassan, di La Valle, e i minatori Bruno Bedont, di Tiser, e Antonio Carrera, di Carrera, si trovavano lungo il pozzo a centotrenta metri di profondità, senza alcuna via di fuga. Il loro destino era segnato.

Vani i tentativi di vigili del fuoco, militari, carabinieri e maestranze per portare loro soccorso. Solo dopo dieci giorni le salme vennero recuperate con grande difficoltà, dato il continuo innalzamento del livello dell’acqua.

Il 30 gennaio 1962, nella chiesetta di California, il vescovo Gioacchino Muccin celebrò il funerale e una folla immensa si strinse intorno a parenti e amici delle tre vittime. Per l’intera comunità questa terribile sciagura rimase per molto tempo una ferita aperta.

Inevitabilmente, il tragico evento rappresentò una battuta d’arresto per la società Vallalta, costretta ad abbandonare il progetto e a trovare nuovi siti minerari. Oltre al lutto, ci fu un impatto negativo per l’economia locale e per l’occupazione. Delfino e i suoi colleghi furono costretti a cercare un altro posto di lavoro nella vallata, oppure a emigrare.

Gli anni successivi furono caratterizzati da eventi naturali drammatici che sconvolsero e misero in ginocchio la provincia di Belluno e la vallata agordina. Nell’ottobre del 1963, l’immane tragedia del Vajont. Nel 1966, l’alluvione che interessò gran parte dell’Italia. Il 4 novembre del 1966, il colpo di grazia per la comunità di Gosaldo: la California fu spazzata via dalle acque impetuose dei due torrenti alla cui confluenza si trovava il paese.

La California e le miniere di Vallalta vennero negli anni dimenticate e del vecchio insediamento rimasero solo alcuni ruderi, via via fagocitati dalla vegetazione. La comunità seppe comunque reagire e trovare nuove idee ed energie per riprogrammare il futuro.

Ciò che rimane oggi del vecchio sito minerario di Vallalta

Delfino non abbandonò mai il suo paese e la sua casa natale e, per il forte attaccamento alle proprie radici, non emigrò più, trovando impiego nella Forestale. Gli anni passati in miniera insidiarono però il suo fisico. Si ammalò di silicosi, e fu costretto per anni a respirare a fatica e con l’ausilio dell’ossigeno.

Dopo tanta sofferenza, con il conforto della moglie e dei suoi cari, Delfino, detto Giando, esalò il suo ultimo respiro l’11 febbraio del 1993, all’età di 62 anni.

Le informazioni contenute in questa storia ci sono state gentilmente fornite da Barbara Bressan, figlia di Delfino.

Vita nomade – seconda parte

La prima parte della storia è disponibile QUI.

Assuefarsi a una vita nomade non è cosa di poco conto, ma io devo ammettere di essere stato doppiamente fortunato nella prima esperienza perché trovai comprensione sia da parte del padrone che da parte della gente. Mio padre aveva saputo consegnarmi a mani fidate: quel compaesano era un vero signore nell’animo e mi trattò come un suo figlio. Mi insegnava con grande passione mettendo sempre in risalto i miei piccoli miglioramenti: diceva che il seggiolaio non deve ridursi a bestia da soma ma che deve concedersi anche qualche ora di riposo. Si dimostrò sempre soddisfatto del mio rendimento.

A Umbertide e nei paesi circostanti la gente costumava dare vitto e alloggio ai seggiolai, pertanto durante la mia prima “campagna” ebbi sempre il conforto di dormire a letto. Siccome in tante zone ciò non avveniva, il letto per il seggiolaio era un lusso. Noi, ogni giorno, mangiavamo e dormivamo nella famiglia in cui avevamo lavorato. Su quelle tavole pane, vino e cibi ce n’erano a sufficienza. Aiutavo il padrone nei lavori che non richiedevano particolare abilità: andavo in cerca di lavoro, bagnavo la paglia alla fontana, impagliavo e squadravo il legno con l’accetta. C’erano delle famiglie che ordinavano sedie nuove affidandoci anche il compito di abbattere nel loro podere la pianta adatta per ricavare il legno necessario alla costruzione. Dopo due mesi di tirocinio ero in grado di impagliare discretamente bene cinque, sei sedie al giorno. Si diceva che la sedia, prima di farla, bisogna imparare a impagliarla. Io, la prima sedia, da solo, la costruii all’età di 18 anni: è un lavoro, questo, che esige abilità e accorgimenti particolari.

Nel 1920 a Umbertide una sedia nuova ce la pagavano 3, 4 lire, mentre la sola impagliatura valeva la metà; ma, come ho già riferito, i committenti ci offrivano vitto e alloggio oltre che il legno.

Nelle zone in cui i seggiolai dovevano provvedere da sé a vitto e alloggio, i prezzi del lavoro erano un po’ più elevati. In quei casi, però, dovevano dormire accucciati nel fieno dei fienili, oppure nelle stalle sopra la paglia. In certe situazioni i seggiolai dovettero dormire sotto i ponti e nelle piazze.

Quell’anno tornai a casa il 7 giugno: la mia presenza in famiglia, in quella stagione, si rendeva molto utile essendo il periodo della fienagione il più faticoso dell’anno. Bisognava falciare tutto con la falce e trasportare i fasci di fieno sulla testa; durante le altre stagioni le donne s’arrangiavano da sole a svolgere i lavori campestri, ma durante l’estate dovevano essere coadiuvate dalle braccia vigorose dei loro uomini.

Un gruppo di seggiolai agordini.

Le “campagne” immediatamente successive alla prima le svolsi con mio padre o con altri familiari. Quando mi resi indipendente, anch’io assunsi dei garzoni: il primo lo trovai ad Avoscan, il secondo e il terzo a Sovramonte. Trovare garzoni a Gosaldo non sempre era possibile dato che tanti seguivano il padre, i fratelli oppure i parenti. Bisognava ricorrere spesso agli altri paesi dell’Agordino e anche altrove. Ci furono seggiolai che ebbero garzoni di Cencenighe, Sospirolo e Santa Giustina.

Dopo che imparai il mestiere, da solo in un giorno riuscivo a costruire quattro sedie, con l’aiuto di un garzone invece ne costruivo sei. A impagliare una sedia impiegavo circa un’ora. Per l’impagliatura usavamo la paglia palustre. Se negli anni Venti il seggiolaio guadagnava poco in proporzione alle ore lavorative che svolgeva, gli anni Trenta, a causa della crisi mondiale a tutti nota, furono ancora peggiori. C’era miseria e la gente disponeva di poco denaro.

Negli anni che seguirono la Seconda guerra mondiale le cose migliorarono anche per i seggiolai: lavoro ce n’era a bizzeffe ed era discretamente retribuito, ma moltissimi lo abbandonarono avendo trovato altre possibilità di impiego in Italia e all’estero. Alcuni scesero nelle miniere del Belgio, altri entrarono nelle fabbriche, altri ancora scelsero i cantieri. Io tenni duro fino al 1960.

Quello del seggiolaio fu un mestiere duro e povero. Il seggiolaio visse diviso dalla famiglia girovagando di paese in paese, lavorando una quindicina di ore al giorno. Non potendo fissarsi una dimora stabile, per ricevere la corrispondenza doveva ricorrere al fermoposta oppure a un recapito in cui si recava abbastanza spesso. La sua famiglia incontrava notevoli difficoltà quando aveva bisogno di comunicargli notizie urgenti. Il suo lavoro si svolgeva tra la gente povera delle campagne e della periferia delle città. Nei grossi centri, oltretutto, sarebbe stato difficile trovare legno. Per molti il lavoro del seggiolaio fu una vera e propria lotta per la sopravvivenza. In mezzo a tante difficoltà, il seggiolaio era felice quando il lavoro abbondava.

Il gergo1, seguendo le raccomandazioni fattemi da mio padre e dal mio primo padrone, in tutti i miei anni di lavoro lo usai pochissimo, in casi del tutto eccezionali. Essi sostenevano che per non destare sospetti negli astanti e per guadagnarsi la stima della gente bisogna comunicare in modo chiaro, a tutti comprensibile. Avevano scarsa istruzione scolastica, ma molto buon senso.

Nella mia carriera una sola volta ricorsi alla vendetta nei confronti di un committente: costui, a lavoro ultimato, si rifiutava di pagarmi il prezzo pattuito. Quando vidi che era inutile discutere per difendere le mie sacrosante ragioni, elusi la sua sorveglianza e, lesto lesto, infilai pezzettini di lardo nell’imbottitura delle sedie. Era uno stratagemma bell’e buono: il gatto sentendo l’odore del lardo avrebbe graffiato i cordoncini di paglia guastando nell’arco di breve tempo il lavoro da me eseguito.

Gelindo Pongan (Gelindo dai Nonet), in collaborazione con il prof. Gian Pietro Zanin

Questa storia ci è stata gentilmente consegnata da Barbara Bressan.

1 Lo Skapelament del konza, una lingua inventata dai seggiolai per potersi esprimere “in segreto”, senza essere compresi dai profani. La base è il dialetto agordino, accanto al quale è introdotta una ricca serie di deformazioni lessicali, di metafore e altre figure retoriche.

Vita nomade – prima parte

Nacqui nel comune di Gosaldo il 25 dicembre 1906 e durante tutta la vita esercitai il mestiere di seggiolaio, continuando così una tradizione che era stata di mio padre e di mio nonno. Mio nonno non lo conobbi in quanto morì piuttosto giovane, ma riguardo alla sua attività di seggiolaio mi furono riferiti alcuni fatti che forse meritano un po’ di attenzione ai fini di una comprensione più ampia dell’attività dei seggiolai durante il secolo scorso.

Era nato nel 1841: a quei tempi si doveva viaggiare a piedi a causa della mancanza di mezzi di trasporto pubblico. Le sue “campagne” furono piuttosto brevi; la sua zona preferita era la vicina Valsugana. La stagione più redditizia gli fruttò 33 lire e un piccolo attrezzo per il confezionamento delle gerle che regalò al figlio Giovanni. Quando il nonno cominciò a fare il seggiolaio, ancora la “càora” (quella specie di cavalletto di legno che per il seggiolaio sostituisce il banco da falegname) non era in uso: lavoravano gli elementi della sedia premendo le estremità del pezzo di legno da un lato contro un muro, dall’altro lato contro una tavola di legno che il seggiolaio teneva appesa al collo. Era un modo rudimentale ma ingegnoso di improvvisare una morsa dal nulla. Morì nel 1892.

Mio padre non poté partecipare ai funerali del nonno perché in quel periodo si trovava in Francia, sempre come seggiolaio. Già alla fine del secolo scorso l’arte dei nostri “conthe” in Francia si era affermata con successo e un buon gruppo di gosaldini preferiva la Francia all’Italia in quanto offriva condizioni di vita migliori nonché maggiori possibilità di guadagno. Ovviamente le “campagne” francesi, date le difficoltà di collegamento esistenti a quell’epoca, richiedevano tempi lunghi; una “campagna” francese di mio padre durò quattro anni, quattro mesi e quattro giorni. A differenza del nonno, mio padre visse quasi esclusivamente con i proventi che gli derivavano dal suo mestiere di seggiolaio. Tengo a sottolineare “quasi esclusivamente” per il fatto che il bilancio familiare era integrato anche dall’agricoltura: quasi ogni seggiolaio, a quei tempi, in stalla possedeva una o più mucche e qualche altro animale. Egli partì per la Francia come garzone all’età di 9 anni, con il diploma di seconda elementare. Espresse sempre giudizi positivi sul conto dei francesi: soleva dire che esigevano lavori eseguiti con finezza e qualità.

La mia prima partenza come garzone è rimasta talmente impressa nel mio ricordo che cinquantotto anni non sono stati sufficienti, non dico a farmela scordare, ma nemmeno ad annebbiarla. Certe esperienze personali lasciano nell’animo un’impronta tale che il tempo non può logorare. Era il 5 gennaio 1920, avevo compiuto i 13 anni da una decina di giorni, ero in possesso del diploma di terza elementare. Partire a 13 anni era un po’ un privilegio se si pensa che parecchie famiglie, costrette dalla necessità, dovevano congedare i propri figli maschi all’età di 9, 10 anni. Il corredo che mia madre mi approntò era costituito dai seguenti capi: due paia di calzoni lunghi fino al tallone; una giacca; due panciotti di fustagno; due camicie lunghe fino al ginocchio; tre paia di calze di lana confezionate in casa; una maglia di lana; un berretto; un grembiule; un paio di scarpe confezionate in loco da un calzolaio; un paio di pantofole casalinghe (scarpét). Mutande niente, perché non erano ancora entrate nell’uso. I pantaloni e la giacca erano di fustagno, un tessuto resistente e particolarmente adatto ai lavori manuali.

Seggiolai in Francia, anni Venti

Alcuni giorni prima del distacco, fedele a una consuetudine paesana, andai in chiesa a confessarmi e a comunicarmi, fiducioso nell’aiuto del Signore. Mia madre mi insegnava che solo Lui può guidare sul retto sentiero ed essere di grande sostegno per le vie del mondo. La sera antecedente la mia partenza, ella mi cucinò le frittelle da consumare durante il viaggio; allora i dolci erano cosa molto rara per noi e servirono ad addolcire un po’ quell’indimenticabile partenza.

Il mio padrone era un compaesano; mio padre affidandomi a lui si raccomandò caldamente che m’insegnasse i primi elementi del mestiere trattandomi bene, con pazienza e umanità. Chiarì subito che non avrebbe voluto nessun compenso per le mie prestazioni ma che s’accontentava di un po’ di comprensione. Mio padre era molto sensibile ai problemi dei garzoni: conservava amari ricordi della sua prima “campagna” francese. Il suo padrone era stato troppo esigente e ai garzoni riservava un trattamento diverso da quello che riservava a sé. Raccontava di aver sofferto la fame e che la domenica, dopo una settimana di lavoro massacrante che durava dall’alba a notte inoltrata, doveva percorrere una quarantina di chilometri di strada a piedi per rifornirsi di paglia.

A piedi, con un fagotto in spalla, in compagnia del padrone, m’allontanai dalla mia frazione e, attraverso il Canale del Mis, raggiunsi la stazione ferroviaria di Sedico-Bribano. Era lunedì; essendo una giornata grigia e piovosa fu poco agevole percorrere i sentieri. A Bribano prendemmo il treno intorno alle 18.00: la nostra destinazione era Umbertide, provincia di Perugia. Quel paese il mio padrone lo conosceva bene, anzi tutti gli attrezzi del mestiere li aveva già là, in custodia presso la casa di conoscenti. L’unico attrezzo che io avevo preso era una piccola accetta. Il viaggio fu lento: arrivammo a Umbertide il mercoledì sera. I primi giorni versai qualche lacrima, non riuscendo a distogliere il pensiero dalla mia famiglia, dagli amici e dai miei monti. La cornice di cime che circonda Gosaldo mancava al mio sguardo provocandomi disorientamento e stupore.
(Continua…)

Gelindo Pongan (Gelindo dai Nonet), in collaborazione con il prof. Gian Pietro Zanin

Questa storia ci è stata gentilmente consegnata da Barbara Bressan.

Il “caregheta” in Canada

Un giorno un amico mi disse: «Guarda che Antonio è Bellunese». Fu così che incontrai Antonio Renon a una festa dell’Associazione Trevisani nel Mondo. A Ottawa siamo pochissimi originari di Belluno e trovarci in una città di 800mila abitanti è difficile.

Antonio era pensionato, vedovo da molti anni, e i suoi tre figli erano grandi. Tra le festicciole comunitarie, i bingo e la chiesa ci si teneva in contatto con gli amici ed era facile che ci incontrassimo. «Sì, sì, me ciene ancora in contatto co la me fameia a Gosaldo, e le tanti anni che son qua a Ottawa*».

Antonio iniziò a raccontarmi la sua storia da caregheta. Prima della Seconda guerra mondiale, compiuti dieci anni, partì in autunno con una squadra di seggiolai. Cominciò la sua passione che durò per tutta la vita: creare sedie iconiche da un tronco di legno verde e un po’ di paglia. Con l’occhio e la mano fatti grazie all’esperienza da giovane, Antonio cercò di ricreare le stesse sedie in Canada.

Si comprò un piccolo bosco a North Gower per facilitare l’approvvigionamento di legno verde e, usando attrezzi portati con sé dall’Italia, si mise a sperimentare con il legno Nordamericano. «Lo sai – mi spiegò – il legno qui a Ottawa non si spezza bene. La venatura è troppo selvatica ed è difficile da spianare. Ma ho fatto quello che ho potuto».

Quel giorno a casa sua vidi i frutti del suo lavoro: almeno una mezza dozzina di sedie di varie dimensioni, tutte fatte a mano e con amore. Fred, mio marito, fece delle foto di Antonio. Era facile raffigurarselo: un giovane alto quasi due metri, con i suoi attrezzi a tracolla, che viaggiava per mesi lungo la pianura del Po.

Antonio non mi disse mai se i suoi viaggi in Canada, lavorando nei boschi al nord dell’Ontario o nei campi di tabacco sulla riva nord del lago Erie, furono un’avventura pari a quella di seggiolaio. Qui a Ottawa usò il suo talento come passatempo.

Oggi che le careghe fatte a mano sono di moda, chissà se essere un conza con un laboratorio potrebbe essere un mestiere abbastanza redditizio per mantenere una famiglia.

Il 9 Settembre 2013, a Ottawa, Antonio morì improvvisamente. Aveva ottantotto anni. Era sbarcato con un gruppo di amici al porto di Halifax nel 1951.

Ariella Dal Farra Hostetter, Ottawa (Canada)

* Sì, sì, mi tengo ancora in contatto con la mia famiglia a Gosaldo, ed è da tanti anni che sono qui a Ottawa.

Antonio Renon
Antonio Renon con un attrezzo del mestiere

Una bambina, una piccola sedia, una storia

Era la prima metà del’900 e nel piccolo paese di Vénérieu, vicino a Saint-Marcel-Bel-Accueil (oggi gemellato con Gosaldo), nel dipartimento dell’Isère, in Francia, in una fattoria viveva Ginette Jas con la sua famiglia. Ginette allora era una bambina e un giorno alla fattoria arrivarono tre persone che venivano da lontano. Venivano dall’Italia e stavano cercando lavoro.

Con loro avevano degli attrezzi strani, che Ginette non aveva mai visto, perché queste tre persone facevano un lavoro particolare: costruivano sedie. I tre seggiolai partiti da Gosaldo, nella fattoria della famiglia Jas di lavoro ne trovarono parecchio. Per lavorare usavano il legno di quercia, pero, ciliegio e castagno che la famiglia possedeva.

Furono molte le sedie costruite nella fattoria dai tre giovani careghete. Ne fecero per la camera dei suoi genitori, per la cucina, e alcune più eleganti, con una bella spalliera, per la sala da pranzo. Quando il tempo era bello lavoravano nel cortile e lì la piccola Ginette poteva ascoltare un’altra lingua, che mai aveva sentito, ma che l’affascinava e che quindi ascoltava volentieri. La lingua che Ginette sentiva di sicuro non sarà stato l’italiano vero, ma l’idioma di Gosaldo e lo skapelamént del Kónža*.

Quando il lavoro nella fattoria della famiglia Jas fu terminato, i tre seggiolai per riconoscenza costruirono tre piccole sedie, che poi furono regalate alle bimbe di casa. Benché siano passati molti anni da allora, quelle seggioline non solo non sono andate distrutte, ma vengono tuttora utilizzate. Una viene usata dal nipotino della signora Ginette e un’altra è tornata a “casa.” Sì, perché in una delle visite fatte a Saint-Marcel, l’allora sindaco Giocondo Dalle Feste ha ricevuto in dono una di quelle piccole sedie, con questa motivazione: «Per riconoscimento di questo lavoro le offro una sedia per il Museo Etnografico di Gosaldo».

Un gesto nobile che dimostra una grande sensibilità nei confronti di coloro che con ingegno avevano saputo inventarsi un mestiere, un’arte che tuttora viene tramandata anche tra i discendenti ormai divenuti francesi. La signora Ginette ha cercato tra le pagine dei suoi ricordi i nomi dei tre careghete di Gosaldo, ma con il passar del tempo qualcosa si è perso. Ora la sedia costruita con il legno della Francia e il savoir-faire italiano fa bella mostra di sé nel piccolo, ma interessante, Museo Etnografico di Gosaldo.

Lina Marcon

Careghte agordini in Valle Padana

* È il gergo dei seggiolai, da loro stessi inventato per potersi esprimere “in segreto”, senza essere compresi dai profani. Lo skapelamént del Kónža nasce dal dialetto, accanto al quale è introdotta una ricca serie di deformazioni lessicali, di metafore e altre figure retoriche. Per fare un esempio, la frase: «Konže era i ronki, Konže era i limbe: coìsi par danùgi perni, fin òdopo l’ultima baru danùge del torónt.» significa: «Seggiolai erano i padri, seggiolai erano i figli: così per molti e molti anni, fin dopo l’ultima guerra mondiale».
(Informazioni tratte dal libro: Skapelamént del Kónža. Gergo dei seggiolai, Gosaldo-Tiser: dizionarietto, a cura di Giocondo Dalle Feste; Gosaldo: Union ladin da Gosàlt, 2003).