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Il parroco, il seggiolaio e la perpetua

di Enrico Stalliviere

I giorni festivi andavano rispettati. E il seggiolaio era solito farlo rigorosamente. La domenica tardava ad alzarsi per gustare qualche minuto in più di sano riposo. Rimaneva sdraiato a occhi chiusi, lasciando che i pensieri corressero veloci. Pensava con malinconia agli affetti lasciati a casa: innanzitutto i famigliari, che avrebbe rivisto solo a fine stagione, poi gli animali domestici, anch’essi parte della famiglia e rispettati al pari degli umani, tanto che tutti avevano il proprio nome. Rifletteva inoltre su come organizzare la giornata lontano dagli utensili da lavoro.

Per prima cosa doveva prepararsi per la messa. Questo significava lavarsi e sistemare i capelli con l’immancabile brillantina Linetti, prodotto che dava alla chioma un delicato profumo e un effetto bagnato, un po’ come il gel usato oggi; quindi indossare i vestiti della festa che portava sempre appresso, serbati su un appendiabiti agganciato all’interno del motocarro. Fatto ciò, era pronto per prendere parte alla funzione domenicale. Inforcata la bicicletta, si avviava fischiettando verso la chiesa del paese che lo ospitava.

Quando era a casa, il seggiolaio lavorava senza sosta per mesi e raramente frequentava la chiesa, mentre in trasferta il richiamo ecclesiale era forte: non poteva mancare al rito e tutte le domeniche vi assisteva con devozione. Finita la messa, la meta successiva era l’osteria, dove avrebbe sicuramente incontrato vecchi conoscenti per fare quattro chiacchiere e trascorrere il resto della giornata tra una partita a carte e un bicchiere di vino.

Una domenica, in un paesino del Veronese, conclusa la celebrazione fu interpellato dal parroco, che gli chiese se potesse sistemare tutte le sedie ammaccate e logore della chiesa e del vicino cinema. Gli avrebbe offerto vitto, alloggio e un luogo riparato dove lavorare. Era una commessa importante, e il seggiolaio accettò con entusiasmo: un’offerta così allettante non capitava tutti i giorni. In più, un detto che all’epoca circolava tra i seggiolai affermava che “Dal piovan, se la olta e se la suga aldrit tut l’an”, “Dal parroco, si mangia e si beve bene tutto l’anno”.

Dopo aver effettuato il rifornimento di carice per le impagliature, il seggiolaio si presentò dal parroco per iniziare la sua opera. Gli venne assegnata una stanza nella casetta adiacente alla canonica, stanza che doveva servirgli da camera, cucina e laboratorio per il periodo necessario a eseguire il lavoro. In più, la perpetua gli avrebbe servito pranzo e cena a orari convenuti. Una manna! Avrebbe dormito in un letto vero, anziché nel cassone dell’ape o in qualche occasionale fienile, con la possibilità di lavarsi tutti i giorni.

Seggiolai Masoch di Pattine (Gosaldo)

L’indomani, dopo aver bagnato la carice, iniziò a lavorare di buona lena. Tutto procedeva nel migliore dei modi, l’erba per l’impagliatura era di ottima qualità e permetteva di completare dalle sei alle otto sedie al giorno. La perpetua era una brava cuoca e portava il cibo agli orari stabiliti con una puntualità degna di un orologio svizzero. Il seggiolaio si faceva trovare pronto, accogliendo con gioia il paniere di vivande che divorava in quattro e quattr’otto. Il sabato, prima di fare ritorno alla propria sede, veniva regolarmente pagato per il lavoro portato a termine.

I giorni passavano e in paese si era sparsa la voce che un seggiolaio era di base in canonica e stava sistemando le sedie della chiesa. Nelle famiglie, a quei tempi formate da nuclei numerosi, le sedie usurate non mancavano; la presenza dell’artigiano risultava davvero provvidenziale. Ecco allora che qualcuno degli abitanti lo contattò per portargli delle sedie rotte a riparare, e le nuove incombenze, sommandosi a quelle della chiesa, finirono col rallentare il lavoro per il parroco.

Al conza, però, non poteva andare meglio di così: era accudito in tutto e per tutto dal sacerdote e nello stesso tempo eseguiva lavori extra per sé, una situazione che con astuzia bisognava sfruttare. Per non creare un sospetto viavai di persone aveva ideato una sua procedura: si assentava qualche momento, andava a prelevare le altre sedie, le introduceva furtivamente in canonica e, una volta ultimate, effettuava la consegna ripetendo al contrario la furberia. Il parroco, ignaro, per un paio di settimane non fece caso al fatto che il lavoro andava a rilento e che il sabato passava meno danari all’uomo.

Ma questo stratagemma non durò a lungo. La perpetua, sempre attenta e vigile, si accorse degli strani movimenti e avvisò il prete, che pose fine al sotterfugio. Per dare una lezione all’artigiano, gli trattenne una piccola somma a rimborso dei pasti consumati e stabilì un vincolo: in quel luogo avrebbe lavorato solo per la chiesa. Ecco una conferma del vecchio detto popolare: “Chi troppo vuole nulla stringe”. Patti chiari e amicizia lunga. Dopo quell’episodio, il lavoro per il parroco durò ancora per parecchie settimane, questa volta adempiuto con disciplina e onestà.

Storia tratta da Imbaginà. Storie di seggiolai agordini, di Enrico Stalliviere; Bellunesi nel mondo edizioni, 2021

Vita nomade – seconda parte

La prima parte della storia è disponibile QUI.

Assuefarsi a una vita nomade non è cosa di poco conto, ma io devo ammettere di essere stato doppiamente fortunato nella prima esperienza perché trovai comprensione sia da parte del padrone che da parte della gente. Mio padre aveva saputo consegnarmi a mani fidate: quel compaesano era un vero signore nell’animo e mi trattò come un suo figlio. Mi insegnava con grande passione mettendo sempre in risalto i miei piccoli miglioramenti: diceva che il seggiolaio non deve ridursi a bestia da soma ma che deve concedersi anche qualche ora di riposo. Si dimostrò sempre soddisfatto del mio rendimento.

A Umbertide e nei paesi circostanti la gente costumava dare vitto e alloggio ai seggiolai, pertanto durante la mia prima “campagna” ebbi sempre il conforto di dormire a letto. Siccome in tante zone ciò non avveniva, il letto per il seggiolaio era un lusso. Noi, ogni giorno, mangiavamo e dormivamo nella famiglia in cui avevamo lavorato. Su quelle tavole pane, vino e cibi ce n’erano a sufficienza. Aiutavo il padrone nei lavori che non richiedevano particolare abilità: andavo in cerca di lavoro, bagnavo la paglia alla fontana, impagliavo e squadravo il legno con l’accetta. C’erano delle famiglie che ordinavano sedie nuove affidandoci anche il compito di abbattere nel loro podere la pianta adatta per ricavare il legno necessario alla costruzione. Dopo due mesi di tirocinio ero in grado di impagliare discretamente bene cinque, sei sedie al giorno. Si diceva che la sedia, prima di farla, bisogna imparare a impagliarla. Io, la prima sedia, da solo, la costruii all’età di 18 anni: è un lavoro, questo, che esige abilità e accorgimenti particolari.

Nel 1920 a Umbertide una sedia nuova ce la pagavano 3, 4 lire, mentre la sola impagliatura valeva la metà; ma, come ho già riferito, i committenti ci offrivano vitto e alloggio oltre che il legno.

Nelle zone in cui i seggiolai dovevano provvedere da sé a vitto e alloggio, i prezzi del lavoro erano un po’ più elevati. In quei casi, però, dovevano dormire accucciati nel fieno dei fienili, oppure nelle stalle sopra la paglia. In certe situazioni i seggiolai dovettero dormire sotto i ponti e nelle piazze.

Quell’anno tornai a casa il 7 giugno: la mia presenza in famiglia, in quella stagione, si rendeva molto utile essendo il periodo della fienagione il più faticoso dell’anno. Bisognava falciare tutto con la falce e trasportare i fasci di fieno sulla testa; durante le altre stagioni le donne s’arrangiavano da sole a svolgere i lavori campestri, ma durante l’estate dovevano essere coadiuvate dalle braccia vigorose dei loro uomini.

Un gruppo di seggiolai agordini.

Le “campagne” immediatamente successive alla prima le svolsi con mio padre o con altri familiari. Quando mi resi indipendente, anch’io assunsi dei garzoni: il primo lo trovai ad Avoscan, il secondo e il terzo a Sovramonte. Trovare garzoni a Gosaldo non sempre era possibile dato che tanti seguivano il padre, i fratelli oppure i parenti. Bisognava ricorrere spesso agli altri paesi dell’Agordino e anche altrove. Ci furono seggiolai che ebbero garzoni di Cencenighe, Sospirolo e Santa Giustina.

Dopo che imparai il mestiere, da solo in un giorno riuscivo a costruire quattro sedie, con l’aiuto di un garzone invece ne costruivo sei. A impagliare una sedia impiegavo circa un’ora. Per l’impagliatura usavamo la paglia palustre. Se negli anni Venti il seggiolaio guadagnava poco in proporzione alle ore lavorative che svolgeva, gli anni Trenta, a causa della crisi mondiale a tutti nota, furono ancora peggiori. C’era miseria e la gente disponeva di poco denaro.

Negli anni che seguirono la Seconda guerra mondiale le cose migliorarono anche per i seggiolai: lavoro ce n’era a bizzeffe ed era discretamente retribuito, ma moltissimi lo abbandonarono avendo trovato altre possibilità di impiego in Italia e all’estero. Alcuni scesero nelle miniere del Belgio, altri entrarono nelle fabbriche, altri ancora scelsero i cantieri. Io tenni duro fino al 1960.

Quello del seggiolaio fu un mestiere duro e povero. Il seggiolaio visse diviso dalla famiglia girovagando di paese in paese, lavorando una quindicina di ore al giorno. Non potendo fissarsi una dimora stabile, per ricevere la corrispondenza doveva ricorrere al fermoposta oppure a un recapito in cui si recava abbastanza spesso. La sua famiglia incontrava notevoli difficoltà quando aveva bisogno di comunicargli notizie urgenti. Il suo lavoro si svolgeva tra la gente povera delle campagne e della periferia delle città. Nei grossi centri, oltretutto, sarebbe stato difficile trovare legno. Per molti il lavoro del seggiolaio fu una vera e propria lotta per la sopravvivenza. In mezzo a tante difficoltà, il seggiolaio era felice quando il lavoro abbondava.

Il gergo1, seguendo le raccomandazioni fattemi da mio padre e dal mio primo padrone, in tutti i miei anni di lavoro lo usai pochissimo, in casi del tutto eccezionali. Essi sostenevano che per non destare sospetti negli astanti e per guadagnarsi la stima della gente bisogna comunicare in modo chiaro, a tutti comprensibile. Avevano scarsa istruzione scolastica, ma molto buon senso.

Nella mia carriera una sola volta ricorsi alla vendetta nei confronti di un committente: costui, a lavoro ultimato, si rifiutava di pagarmi il prezzo pattuito. Quando vidi che era inutile discutere per difendere le mie sacrosante ragioni, elusi la sua sorveglianza e, lesto lesto, infilai pezzettini di lardo nell’imbottitura delle sedie. Era uno stratagemma bell’e buono: il gatto sentendo l’odore del lardo avrebbe graffiato i cordoncini di paglia guastando nell’arco di breve tempo il lavoro da me eseguito.

Gelindo Pongan (Gelindo dai Nonet), in collaborazione con il prof. Gian Pietro Zanin

Questa storia ci è stata gentilmente consegnata da Barbara Bressan.

1 Lo Skapelament del konza, una lingua inventata dai seggiolai per potersi esprimere “in segreto”, senza essere compresi dai profani. La base è il dialetto agordino, accanto al quale è introdotta una ricca serie di deformazioni lessicali, di metafore e altre figure retoriche.

Vita nomade – prima parte

Nacqui nel comune di Gosaldo il 25 dicembre 1906 e durante tutta la vita esercitai il mestiere di seggiolaio, continuando così una tradizione che era stata di mio padre e di mio nonno. Mio nonno non lo conobbi in quanto morì piuttosto giovane, ma riguardo alla sua attività di seggiolaio mi furono riferiti alcuni fatti che forse meritano un po’ di attenzione ai fini di una comprensione più ampia dell’attività dei seggiolai durante il secolo scorso.

Era nato nel 1841: a quei tempi si doveva viaggiare a piedi a causa della mancanza di mezzi di trasporto pubblico. Le sue “campagne” furono piuttosto brevi; la sua zona preferita era la vicina Valsugana. La stagione più redditizia gli fruttò 33 lire e un piccolo attrezzo per il confezionamento delle gerle che regalò al figlio Giovanni. Quando il nonno cominciò a fare il seggiolaio, ancora la “càora” (quella specie di cavalletto di legno che per il seggiolaio sostituisce il banco da falegname) non era in uso: lavoravano gli elementi della sedia premendo le estremità del pezzo di legno da un lato contro un muro, dall’altro lato contro una tavola di legno che il seggiolaio teneva appesa al collo. Era un modo rudimentale ma ingegnoso di improvvisare una morsa dal nulla. Morì nel 1892.

Mio padre non poté partecipare ai funerali del nonno perché in quel periodo si trovava in Francia, sempre come seggiolaio. Già alla fine del secolo scorso l’arte dei nostri “conthe” in Francia si era affermata con successo e un buon gruppo di gosaldini preferiva la Francia all’Italia in quanto offriva condizioni di vita migliori nonché maggiori possibilità di guadagno. Ovviamente le “campagne” francesi, date le difficoltà di collegamento esistenti a quell’epoca, richiedevano tempi lunghi; una “campagna” francese di mio padre durò quattro anni, quattro mesi e quattro giorni. A differenza del nonno, mio padre visse quasi esclusivamente con i proventi che gli derivavano dal suo mestiere di seggiolaio. Tengo a sottolineare “quasi esclusivamente” per il fatto che il bilancio familiare era integrato anche dall’agricoltura: quasi ogni seggiolaio, a quei tempi, in stalla possedeva una o più mucche e qualche altro animale. Egli partì per la Francia come garzone all’età di 9 anni, con il diploma di seconda elementare. Espresse sempre giudizi positivi sul conto dei francesi: soleva dire che esigevano lavori eseguiti con finezza e qualità.

La mia prima partenza come garzone è rimasta talmente impressa nel mio ricordo che cinquantotto anni non sono stati sufficienti, non dico a farmela scordare, ma nemmeno ad annebbiarla. Certe esperienze personali lasciano nell’animo un’impronta tale che il tempo non può logorare. Era il 5 gennaio 1920, avevo compiuto i 13 anni da una decina di giorni, ero in possesso del diploma di terza elementare. Partire a 13 anni era un po’ un privilegio se si pensa che parecchie famiglie, costrette dalla necessità, dovevano congedare i propri figli maschi all’età di 9, 10 anni. Il corredo che mia madre mi approntò era costituito dai seguenti capi: due paia di calzoni lunghi fino al tallone; una giacca; due panciotti di fustagno; due camicie lunghe fino al ginocchio; tre paia di calze di lana confezionate in casa; una maglia di lana; un berretto; un grembiule; un paio di scarpe confezionate in loco da un calzolaio; un paio di pantofole casalinghe (scarpét). Mutande niente, perché non erano ancora entrate nell’uso. I pantaloni e la giacca erano di fustagno, un tessuto resistente e particolarmente adatto ai lavori manuali.

Seggiolai in Francia, anni Venti

Alcuni giorni prima del distacco, fedele a una consuetudine paesana, andai in chiesa a confessarmi e a comunicarmi, fiducioso nell’aiuto del Signore. Mia madre mi insegnava che solo Lui può guidare sul retto sentiero ed essere di grande sostegno per le vie del mondo. La sera antecedente la mia partenza, ella mi cucinò le frittelle da consumare durante il viaggio; allora i dolci erano cosa molto rara per noi e servirono ad addolcire un po’ quell’indimenticabile partenza.

Il mio padrone era un compaesano; mio padre affidandomi a lui si raccomandò caldamente che m’insegnasse i primi elementi del mestiere trattandomi bene, con pazienza e umanità. Chiarì subito che non avrebbe voluto nessun compenso per le mie prestazioni ma che s’accontentava di un po’ di comprensione. Mio padre era molto sensibile ai problemi dei garzoni: conservava amari ricordi della sua prima “campagna” francese. Il suo padrone era stato troppo esigente e ai garzoni riservava un trattamento diverso da quello che riservava a sé. Raccontava di aver sofferto la fame e che la domenica, dopo una settimana di lavoro massacrante che durava dall’alba a notte inoltrata, doveva percorrere una quarantina di chilometri di strada a piedi per rifornirsi di paglia.

A piedi, con un fagotto in spalla, in compagnia del padrone, m’allontanai dalla mia frazione e, attraverso il Canale del Mis, raggiunsi la stazione ferroviaria di Sedico-Bribano. Era lunedì; essendo una giornata grigia e piovosa fu poco agevole percorrere i sentieri. A Bribano prendemmo il treno intorno alle 18.00: la nostra destinazione era Umbertide, provincia di Perugia. Quel paese il mio padrone lo conosceva bene, anzi tutti gli attrezzi del mestiere li aveva già là, in custodia presso la casa di conoscenti. L’unico attrezzo che io avevo preso era una piccola accetta. Il viaggio fu lento: arrivammo a Umbertide il mercoledì sera. I primi giorni versai qualche lacrima, non riuscendo a distogliere il pensiero dalla mia famiglia, dagli amici e dai miei monti. La cornice di cime che circonda Gosaldo mancava al mio sguardo provocandomi disorientamento e stupore.
(Continua…)

Gelindo Pongan (Gelindo dai Nonet), in collaborazione con il prof. Gian Pietro Zanin

Questa storia ci è stata gentilmente consegnata da Barbara Bressan.

L’amante

Quello del seggiolaio, si sa, è un lavoro da girovago. Un mestiere in continuo movimento, a inseguire gli affari ovunque ce ne sia l’occasione, dalla campagna più remota ai piccoli e grandi centri città. Inspiegabilmente, però, da parecchio tempo un seggiolaio sostava nella piazza di un paesino, costringendo i suoi due apprendisti, i gaburi, a estenuanti pedalate per raggiungere i villaggi limitrofi dai quali far ritorno carichi di sedie.

La permanenza, ormai, si protraeva da giorni. Non solo, spesso accadeva che il rompa, il padrone, si allontanasse dal posto di lavoro per diverse ore, lasciando i due gaburi a proseguire da soli. Prima di andarsene, impartiva ordini e si raccomandava che tutto venisse eseguito a regola d’arte. In caso contrario, al suo ritorno sarebbero state autentiche tirate d’orecchi. Ai gaburi diceva di assentarsi per valutare nuovi lavori, commissioni che puntualmente non arrivavano. Ecco perché i ragazzi si erano insospettiti.

Dettate le istruzioni, il seggiolaio provvedeva all’igiene personale: prima una veloce sciacquatina alla fontana, poi estraeva uno specchietto e lo appoggiava in un luogo di fortuna; dalla casela dele arte (la cassetta degli attrezzi) prendeva una boccetta di brillantina Linetti e con un piccolo pettine, che era solito tenere nella tasca posteriore dei pantaloni, si cospargeva i capelli. Dopodiché, pettinava e rifiniva con dovizia. La pettinatura era perfetta se la testa risultava liscia e omogenea come fosse stata leccata dalla lingua ruvida di un gatto. Era la moda di quegli anni. Lindo e pinto, sistemava la camicia. Poi, inforcata la bicicletta, spariva fischiettando.

Sistemare bene la camicia sotto i calzoni non era facile, ed era un’operazione che solitamente veniva eseguita in luogo appartato. Bisognava infatti slacciare la cintura e lasciar scendere le braghe fino quasi alle ginocchia, tenendo le gambe aperte affinché non calassero oltre. In quella posizione, la mano sinistra cominciava a sollevare i pantaloni, mentre la destra accomodava la camicia fino a riallacciare la cintura. A quei tempi le camicie erano molto lunghe, perché a volte, fermate con uno spillo nella parte bassa, venivano usate per sostituire le mutande.

I due apprendisti guardavano divertiti i suoi goffi movimenti, scambiandosi occhiate di scherno. Avevano intuito che il padrone non andava affatto a cercare lavoro.

Incurante dei gaburi tanto quanto dei passanti, il seggiolaio espletava la manovra in bella vista, come se nulla fosse, tale era la smania di allontanarsi. I due apprendisti guardavano divertiti i suoi goffi movimenti, scambiandosi occhiate di scherno. Avevano intuito che il padrone non andava affatto a cercare lavoro. Tutti quei preparativi non erano giustificati. E poi, perché tornava sempre a mani vuote? Ma non riuscivano a capire dove se la svignasse. Così un giorno, per soddisfare la curiosità, decisero di seguirlo, di nascosto ovviamente.

A debita distanza, senza farsi notare, gli si accodarono fin fuori il paese, attenti a non perderlo di vista. Il pedinamento terminò davanti a un casolare, dove l’uomo posò in fretta la bici e si apprestò a entrare furtivamente. Trovato un nascondiglio in posizione strategica, i ragazzi iniziarono ad alternarsi nell’opera di spionaggio, decisi a portare a termine la missione. L’attesa fu snervante e durò molte ore. Era ormai buio quando all’improvviso l’uscio si aprì e la sagoma del seggiolaio si stagliò in controluce mentre salutava teneramente la signora che lo aveva accompagnato. Il mistero era svelato: il padrone aveva un’amante.

Dalla loro posizione i gaburi avevano osservato tutto, avevano sentito il rumore sordo della gragnola di colpi abbattutasi sul seggiolaio.

Con agili passi raggiunse la bicicletta, ma non fece in tempo a salirvi che dall’oscurità spuntarono altre tre figure. Senza pronunciare una parola e con fare deciso, cominciarono a malmenare l’uomo a calci e pugni, scrupolose nel non risparmiare nessuna parte del corpo. Infierirono anche quando, sbilanciato, il poveretto finì a terra. Poi, come erano comparse, svanirono nel nulla. Dalla loro posizione i gaburi avevano osservato tutto, avevano sentito il rumore sordo della gragnola di colpi abbattutasi sul seggiolaio. Erano stati testimoni di un episodio al quale mai avrebbero voluto assistere. Spaventati, fuggirono, ritirandosi nel fienile dove erano soliti passare la notte.

Dopo qualche ora udirono il padrone arrivare. Fingendo di dormire, sbirciarono da sotto le coperte, con il cuore che batteva a mille. Videro i suoi gesti impacciati, accompagnati da profondi sospiri. Alla fine, nonostante tutto, si coricò per addormentarsi. Ingenui e ignari – avevano dieci e undici anni -, ai due apprendisti non era chiaro il motivo del pestaggio.

Il mattino successivo furono svegliati all’alba dal seggiolaio, che ammaccato e tumefatto, con un occhio nero come un drolca (paiolo), disse loro di far fagotto: era ora di allontanarsi dal paese. Solo molto tempo dopo i ragazzi compresero la ragione di ciò che avevano visto. E ancora ricordano con allegria le parole pronunciate quella mattina dal padrone: «Stopre, sgorlonghela, iqua la gira gori». «Svelti, andiamo via, qui non tira aria buona».

Il racconto è tratto dal libro Imbaginà. Storie di seggiolai agordini, di Enrico Stalliviere, Bellunesi nel mondo Edizioni 2021.
Il libro è disponibile per l’acquisto presso la sede Abm (in via Cavour, 3 a Belluno).

Seggiolai di Gosaldo in Francia, 1928. Per gentile concessione di Amabile Selle

Una bambina, una piccola sedia, una storia

Era la prima metà del’900 e nel piccolo paese di Vénérieu, vicino a Saint-Marcel-Bel-Accueil (oggi gemellato con Gosaldo), nel dipartimento dell’Isère, in Francia, in una fattoria viveva Ginette Jas con la sua famiglia. Ginette allora era una bambina e un giorno alla fattoria arrivarono tre persone che venivano da lontano. Venivano dall’Italia e stavano cercando lavoro.

Con loro avevano degli attrezzi strani, che Ginette non aveva mai visto, perché queste tre persone facevano un lavoro particolare: costruivano sedie. I tre seggiolai partiti da Gosaldo, nella fattoria della famiglia Jas di lavoro ne trovarono parecchio. Per lavorare usavano il legno di quercia, pero, ciliegio e castagno che la famiglia possedeva.

Furono molte le sedie costruite nella fattoria dai tre giovani careghete. Ne fecero per la camera dei suoi genitori, per la cucina, e alcune più eleganti, con una bella spalliera, per la sala da pranzo. Quando il tempo era bello lavoravano nel cortile e lì la piccola Ginette poteva ascoltare un’altra lingua, che mai aveva sentito, ma che l’affascinava e che quindi ascoltava volentieri. La lingua che Ginette sentiva di sicuro non sarà stato l’italiano vero, ma l’idioma di Gosaldo e lo skapelamént del Kónža*.

Quando il lavoro nella fattoria della famiglia Jas fu terminato, i tre seggiolai per riconoscenza costruirono tre piccole sedie, che poi furono regalate alle bimbe di casa. Benché siano passati molti anni da allora, quelle seggioline non solo non sono andate distrutte, ma vengono tuttora utilizzate. Una viene usata dal nipotino della signora Ginette e un’altra è tornata a “casa.” Sì, perché in una delle visite fatte a Saint-Marcel, l’allora sindaco Giocondo Dalle Feste ha ricevuto in dono una di quelle piccole sedie, con questa motivazione: «Per riconoscimento di questo lavoro le offro una sedia per il Museo Etnografico di Gosaldo».

Un gesto nobile che dimostra una grande sensibilità nei confronti di coloro che con ingegno avevano saputo inventarsi un mestiere, un’arte che tuttora viene tramandata anche tra i discendenti ormai divenuti francesi. La signora Ginette ha cercato tra le pagine dei suoi ricordi i nomi dei tre careghete di Gosaldo, ma con il passar del tempo qualcosa si è perso. Ora la sedia costruita con il legno della Francia e il savoir-faire italiano fa bella mostra di sé nel piccolo, ma interessante, Museo Etnografico di Gosaldo.

Lina Marcon

Careghte agordini in Valle Padana

* È il gergo dei seggiolai, da loro stessi inventato per potersi esprimere “in segreto”, senza essere compresi dai profani. Lo skapelamént del Kónža nasce dal dialetto, accanto al quale è introdotta una ricca serie di deformazioni lessicali, di metafore e altre figure retoriche. Per fare un esempio, la frase: «Konže era i ronki, Konže era i limbe: coìsi par danùgi perni, fin òdopo l’ultima baru danùge del torónt.» significa: «Seggiolai erano i padri, seggiolai erano i figli: così per molti e molti anni, fin dopo l’ultima guerra mondiale».
(Informazioni tratte dal libro: Skapelamént del Kónža. Gergo dei seggiolai, Gosaldo-Tiser: dizionarietto, a cura di Giocondo Dalle Feste; Gosaldo: Union ladin da Gosàlt, 2003).