Archivio di Febbraio, 2021

Giovanni D’Incà

Ha salvato a Torino uno dei capolavori di Juvara.

La Famiglia Bellunese di Torino ci segnala il prof. Giovanni D’Incà, nato a Sedico 59 anni fa, il quale ha ricevuto lo scorso mese di novembre il «diploma di medaglia d’oro per i benemeriti della Scuola, della Cultura e dell’Arte». Un riconoscimento che di solito viene conferito a fine carriera e soltanto in via straordinaria arriva durante gli anni del servizio attivo: l’eccezione era stata fatta in passato per Carlo Bo e Giulio Carlo Argan. Ora a questi nomi prestigiosi della cultura italiana si aggiunge quella del prof. D’Incà. Laureato in lettere moderne all’Università di Roma, specializzato in sociologia all’Ateneo di Parma, dopo alcuni anni di insegnamento nelle scuole superiori, è dal 1960 responsabile di Collegi Statali. Giunse a Torino nel 1976 come rettore del Convitto Umberto I, con il delicato compito di risollevare le sorti di una istituzione in declino, che tuttavia ha ancora un ruolo importante da svolgere. Ebbene il prof. d’Incà è riuscito oltretutto a trasformare anche fisicamente il prestigioso edificio che porta la firma di Filippo Juvara. Restaurato completamente, scomparse le camerate, aule rese moderne ed ospitali nel più rigoroso rispetto dell’architettura. Un uomo che ha rinunciato alla carriera universitaria per stare in trincea e dare qualcosa ogni giorno ai ragazzi che nel suo collegio frequentano le elementari, le medie inferiori e dal prossimo anno l’istituendo Liceo Scientifico. Grande onore a questo benemerito figlio della terra bellunese e felicitazioni da parte della grande famiglia dei “Bellunesi nel Mondo”.

Giovanni D’Incà è stato Rettore del Convitto Nazionale Umberto I dal 1976 al 1992. Per il gran lavoro e la rinascita dei Convitti nel 1986 ricevette la Medaglia d’oro e il Diploma di benemerenza da parte del Presidente della Republica Francesco Cossiga. Con il direttore generale dell’istruzione classica, scientifica e magistrale presso il Ministero della Pubblica Istruzione, Romano Cammarata, fu artefice dell’avvio di un nuovo indirizzo liceale, il Liceo classico europeo, in nove Educandati e Convitti italiani nel 1992. Collaborò con la facoltà di sociologia di Parma per lo studio di mezzi di sostegno adeguati agli studenti con disabilità.

Giovanni D’Incà è scomparso a Parma, dove risiedeva, il 12 marzo 2020; da molto tempo non tornava nella sua Sedico, a cui era però ancora molto legato.

Fonti: BNM n. 12/1986 e stampa locale

Vittorio Gasperini

Vittorio Gasperini nacque a Mellame di Arsiè il 10 agosto 1899. In quegli anni, per gli abitanti di quei piccoli paesi montani l’emigrazione era una necessità. E anche lui fu costretto, ancora bambino, a seguire le orme dei suoi predecessori. Così nell’anno 1910, appena undicenne, lasciò sua madre e la sua patria per raggiungere in Svizzera suo padre Angelo e per guadagnarsi al suo fianco il pane quotidiano. E poiché veniva da una famiglia povera conobbe la fame e le sue conseguenze. Ma a quel tempo anche in Svizzera c’era scarsità di lavoro e questo voleva dire per il giovanissimo Vittorio fare tutto ciò che gli veniva offerto. Il suo talento e la sua operosità vennero subito molto apprezzati dai suoi datori di lavoro. Molto presto ebbe la possibilità di lavorare come aiuto fabbro. All’inizio riscaldava il ferro nella fucina ma ben presto divenne lui stesso un esperto fabbro molto ricercato in tutto il Cantone. E fu anche un cuoco provetto che preparava sul fuoco della forgia il mangiare per i suoi compagni di lavoro. Fu poi assunto nel «gruppo di regia» del Cantone e questo segnò l’inizio di un fortunato avvenire e lo spirito del pioniere che lo accompagnò per tutta la vita ebbe allora via libera. La sua iniziativa e il suo talento lo portarono molto presto ad intraprendere un lavoro autonomo. Già nel 1923 durante gli anni della crisi economica, quando la lotta per la concorrenza era molto tesa, gli riuscì di iniziare ad Ejelen, Attinghausen, l’attività di una cava per l’estrazione e la lavorazione del sasso. Inizialmente tutta la produzione veniva fatta a mano da esperti tagliatori. Dal materiale prelevato dalla roccia si tagliavano dei sassi da muratura e dei cubetti da selciato coi quali sono state pavimentate diverse piazze e strade di tutta la Svizzera, che sono ancora oggi un segno della sua capacità imprenditoriale. Sotto la sua guida esperta l’impresa fiorì in breve tempo. Vi trovarono lavoro 65 uomini, per la maggior parte suoi compaesani, con i quali condivise gioie e dolori, come ai tempi dei cercatori d’oro. Per loro non fu un padrone ma un amico e fra le mura del suo semplice ufficio, fu anche il loro scrivano sempre pronto ad ascoltarli, a consigliarli e ad aiutarli nei loro bisogni. Già alla fine degli anni trenta, per aggiornarsi al fabbisogno della richiesta del mercato, allargò la sua industria attrezzandola per la fabbricazione di materiale macinato che servirà per il fondo delle ferrovie e per la costruzione e la manutenzione di ogni tipo di strada. Ancora oggi la cava da lui fondata è in piena attività. Suo figlio, ing. Vittorio Luigi, la gestisce contemporaneamente ad una importante Impresa di Costruzioni. Nel 1935 fece domanda per l’ottenimento della cittadinanza svizzera per lui e per la sua famiglia. E quale soldato svizzero fu nominato sergente durante la seconda guerra mondiale ed anche in quell’occasione seppe rispondere con entusiasmo e con prontezza al richiamo della sua nuova patria. A 62 anni si è ritirato dal lavoro e ha potuto godere ancora molti anni in buona salute in compagnia della moglie, attorniato dai figli, nipoti e pronipoti. E anche negli ultimi giorni della sua vita ha saputo ringraziare con un sorriso tutti coloro che lo hanno aiutato a superare il periodo triste e difficile della sua malattia. È stato uno dei tanti «Bellunesi nel mondo» sempre fiero di esserlo. 

Fonte: BNM n. 12/1986

Fortunato Campigotto: emigrante, alpino, artista

primo piano di Fortunato Campigotto

Nel nostro Museo interattivo delle Migrazioni fa bella mostra di sé una scultura in bronzo che rappresenta il mondo sostenuto da due mani e vuole simboleggiare diversi aspetti dell’emigrazione, quali l’andata, il ritorno, la frattura generazionale, l’attaccamento al paese natio, le vittime sul lavoro; è dono delle famiglie bellunesi della Svizzera in occasione del loro trentesimo anniversario di costituzione ed è stata realizzata dall’artista di origine lamonese Fortunato Campigotto. 

Figlio di emigranti, Campigotto nasce nella frazione di Campigotti il 22 novembre 1941 e già all’età di 17 anni segue il padre Giacomo, muratore stagionale, a Muttenz presso Basilea. Da allora la Svizzera sarà la sua nuova Patria, mantenendo però le radici ad Arina dove egli tornerà ogni anno per le vacanze estive. Oltralpe lavora per la ferrovia svizzera e poi per una ditta edile. Nel tempo libero frequenta corsi privati conseguendo la qualifica di capomastro. Da sempre appassionato di arte, alla fine degli anni Settanta inizia a scolpire il legno da autodidatta, continuando a frequentare corsi di disegno artistico. Fortunato Campigotto esprime la sua creatività e le due doti attraverso diversi materiali, come il legno, il bronzo, il gesso, il ferro, la pietra e negli anni ha partecipato a numerosi concorsi in tutta Europa, ottenendo importanti riconoscimenti, come il Grand Prix d’Art ’84 alla Euro Galerie di Turgovia; tra le numerose esposizioni ricordiamo quelle presso la Casa d’Italia a Zurigo e l’Ambasciata d’Italia a Berna. Nella sua scultura sono quasi sempre presenti le mani, le grandi mani: fortemente aggrappate ad un globo terracqueo oppure pensosamente raccolte attorno ad un viso o ancora dolorosamente strette nella sofferenza o congiunte nella preghiera. Questa presenza, quasi ossessiva, è probabile memoria inconscia delle sue forti mani di manovale e muratore nei cantieri edili della Svizzera. Tra le sue opere presenti in provincia, oltre alla scultura nel MIM, è bene ricordare il crocifisso in legno di cirmolo esposto nella chiesa parrocchiale di Arina, nel quale Gesù è sostenuto da due grandi mani che simboleggiano gli uomini che vogliono proteggerlo, la via Crucis, sempre ad Arina, inaugurata nell’agosto 2017 (voluta dalla Famiglia Ex emigranti di Arina e per la quale l’artista ha donato le quattordici sculture raffiguranti la Passione di Gesù Cristo) e la scultura esposta nel palazzo comunale di Longarone per ricordare il disastro del Vajont. Campigotto, che era stato tra i primi soldati alpini accorsi, aveva voluto donare l’opera nel 1998, in occasione del trentacinquesimo anniversario: si tratta di un’imponente crocifissione che rievoca al contempo la tragedia del 9 ottobre di cinquant’anni fa dove vittime, case, chiesa, diga si susseguono circolarmente in un dinamico affollamento dando la sensazione, a chi osserva, che siano stati scolpiti per girarci intorno. Ancora una volta, mondo dell’emigrazione, Vajont e arte si intrecciano e diventano espressione della nostra bellunesità. Nel 2017 Campigotto ricevette un riconoscimento speciale in occasione della XVIII edizione del premio internazionale “Bellunesi che onorano la provincia di Belluno in Italia e all‘estero”, un’attestazione di stima voluta in prima persona dal nostro presidente Oscar De Bona. 

Fortunato Campigotto è venuto a mancare improvvisamente il 5 giugno 2020 a Zurigo. 

Fonte: BNM n.9/2013 e Aletheia news

Beniamino Bez

primo piano di Beniamino Bez

Nacque a Igne di Longarone il 6 luglio 1916. Si sposò con Giuseppina Doriguzzi, insegnante di Danta di Cadore; non ebbero figli. Dopo l’esperienza di autotrasportatore in Africa Orientale negli anni ‘35-36, tornò in Italia e rimise in piedi con gli zii un’identica attività di autotrasportatori. Nel 1949 il richiamo dell’Argentina, Paese che pareva offrire le più facili possibilità di inserviente. Beniamino s’imbarcò a Genova con la moglie e tanti altri amici cadorini; era il 19 marzo 1949 ed il viaggio durò fino all’8 aprile. Lavorò come muratore e poi come autista esperto guidatore di camion pesanti. Infine, l’incontro fortuito con un amico, Annibale Soravia di Venas ed il coinvolgimento del cugino Leonardo Bez, lo fece entrare nel mondo del gelato. Con la Heladeria “Los Alpes” e la Heladeria “Rancho alpino”, Beniamino e Giuseppina si sentirono orgogliosi di essere tra i primi longaronesi-cadorini gelatieri di Buenos Aires. Messisi in proprio si affermarono a durissimi sacrifici, grandi soddisfazioni e tanti bei ricordi. Tornato a Belluno, Beniamino fu un personaggio di spicco del volontariato. Lo ricordiamo negli anni ‘70-80 come presidente degli ex allievi salesiani e della Conferenza S. Vincenzo de Paoli di Mussoi, come volontario dell’Unitalsi e componente del gruppo dei Focolari. È deceduto a Belluno il 3 ottobre 2009.

Fonte: BNM n.6/2010

Danilo Vedana

Quando aveva solo 26 anni, nel 1970, è morto in Nuova Zelanda Danilo Vedana, originario di Sospirolo. Solo otto mesi prima era emigrato là per lavorare in un cantiere di una ditta italiana. La morte lo ha raggiunto nel lavoro, quando è rimasto prigioniero tra due pesanti macchine riportando gravissime lesioni che ne hanno provocato il decesso. Danilo Vedana, come tanti altri bellunesi era emigrato per poter mettere da parte i soldi necessari per costruirsi una casa e pensare al matrimonio, invece un altro incidente sul lavoro ha stroncato i sogni di un giovane lavoratore, conosciuto e stimato per la sua serietà e costretto a prendere la via dell’estero per costruirsi una vita, ora tragicamente recisa. 

Fonte: BNM n.5/1970