Silverio Canton

Silverio Canton

Sono nato nel 1928 a Pialder (Trichiana), ed ho iniziato la mia vita di emigrante nel 1947, a 19 anni, nei cantieri di Vaprio d’Adda (Milano) per la costruzione di centrali elettriche. Vi sono ritornato, dopo il servizio militare negli Alpini, quale caporale maggiore. Nel 1954 sono partito per la Svizzera.

Il mio primo lavoro è stato a Losanna, da dove, l’anno dopo, sono poi rientrato, in Italia, per trovare degli operai per un grande cantiere per la costruzione di una fabbrica di cemento a St. Maurice: qui sono diventato capo cantiere, con oltre 40 uomini. Nel 1957, un altro cantiere mi ha visto occupato nella costruzione di una centrale elettrica: ho conosciuto Elise, svizzera, e ci siamo sposati, costruendo poi insieme, nel 1961, la nostra casa, nel Vallese, dove abito tuttora. Con la stessa impresa ho lavorato per ben 37 anni, sempre come capo cantiere, costruendo chiese, scuole, ponti, paravalanghe. In pensione, ho lavorato in restauri di vecchie case, mentre ora mi occupo delle mie viti e del mio ottimo vino di cantina. Il 4 marzo prossimo sono 60 anni che mi trovo in Svizzera, ma sono sempre Bellunese, “anche dopo morto”!

Silverio Canton (Veyras – Svizzera)

Giovanni ed Emilia Battistel

Francia, l’entrata della miniera: mio padre è il primo in a sinistra
Francia, l’entrata della miniera: mio padre è il primo in a sinistra

Mi chiamo Rosalia Battistel, figlia di Giovanni Battistel, classe 1912, e di Emilia Bellotto, classe 1918. Con l’aiuto di mia sorella Mery, desidero raccontare la vita dei miei genitori.

Nel 1937 i miei genitori si sposano e nasce mia sorella Mery. Mio padre faceva il falegname e aiutava mia nonna nei campi. Lavorò per un periodo nelle gallerie che scavava la “tot”; finito, decise di andare a Milano alla Pirelli, e mia madre nello stabilimento di panettoni Alemagna, mentre mia sorella Mery rimase con la nonna.

Allo scoppio della guerra, fu chiamato alle armi e partì per il fronte: Grecia, Albania, Libia, Jugoslavia. Come tutti i combattenti soffrì molto nelle trincee, freddo, fame, il terrore dei bombardamenti. Ritornò con la malaria.

Mamma e papà (7/04/1940)
Mamma e papà (7/04/1940)

In paese la vita andava avanti, tanta paura, soldi non ce n’erano. Mia sorella andava a scuola, e il pomeriggio aiutava la mamma a lavorare a maglia per avere in cambio un po’ di farina e fagioli per mangiare: “Ero piccola – dice mia sorella – ma questi ricordi non si dimenticano! La mia infanzia è stata privata di tutto, ma eravamo felici lo stesso!”.

Quando mio padre tornò dal fronte, era molto provato e nessuno lo riconobbe. Non potendo egli riprendere il lavoro, mia madre ritornò a Milano come cameriera , mentre mia sorella rimase al paese con mio padre, la nonna, due zie e un cugino che si presero cura di loro. Quando riprese le forze, raggiunse mia madre , sempre con il terrore dei bombardamenti.

Poi arrivarono i soldati americani, si respirava aria di libertà! Ci davano scatole di carne, sul fuoco c’era la calgiera dove i soldati facevano il caffè, mia sorella lo chiamava cioccolato! Ricordo che la nonna prendeva i fondi e li faceva ribollire per fare altro caffè. Mio nonno era partito in America (Pennsylvania) per cercare fortuna, ma tornò più povero di prima. Mia nonna, con quattro figli da sfamare, viveva con il raccolto di due campi.

Intanto mio padre lasciò la Pirelli e ritornò al paese; voleva andare in Belgio dove cercavano operai. Nell’ attesa di una risposta, tagliando della legna per la nonna, si ferì al braccio, così, quando andò alla visita, non lo presero. Sua sorella era in Francia e gli fece sapere che cercavano operai nella miniera di carbone a la Mure. Non aveva il passaporto, ma in paese formarono una squadra fra cui un mio zio, e partirono lo stesso. Al confine attraversarono le montagne a piedi con il gelo e la neve. Arrivati a la Mure, c’era sempre il problema dei documenti; però, grazie a un conoscente, mio padre riuscì ad avere il permesso di soggiorno, così cominciò il lavoro in miniera. Non avendo casa, lo ospitò mia zia. Mia madre e mia sorella arrivarono nel 1947 , lasciando sola la nonna. Mio padre faceva 10 km a piedi per andare e tornare dal lavoro. La prima volta che tornò a casa era così nero dalla polvere di carbone, “che non l’ho neanche riconosciuto!” ricorda mia sorella. Nel 1948 nacque mia sorella Angele. Finalmente nel 1950 circa ci diedero una casa, delle baracche di legno dove nacqui io, Rosalie. Mio padre era più vicino al lavoro, non era più costretto a fare tutta quella strada a piedi. “Mi faceva tanta pena quando partiva al lavoro, era pericoloso e difficile; non so come abbia fatto” ricorda mia sorella!- “20 anni sotto terra!”.Vero: i minatori avevano diritto alla casa, al carbone per il riscaldamento, il medico per tutta la famiglia; bei vantaggi, è vero, ma tutto questo può ricompensare il lavoro duro del minatore?

Nel 1957 nasce mio fratello Jean Jacques, e ci danno un altro alloggio. Quella sì che era una casa!

Purtroppo mio padre, sempre più precario di salute, non potendo lavorare, rimase in invalidità per due anni.

Nel 1963 morì mia nonna, così mio padre andò in Italia. Tornò a casa con un grande dolore per la perdita della mamma, che era stata accudita dalla sorella. Nel 1964 arriviamo in Italia per le vacanze; io avevo appena finito la terza media, avevano cominciato a ristrutturare anche la casa. Mio padre peggiorava, e non era in grado di affrontare il viaggio di ritorno, così siamo stati costretti a rimanere in Italia. E’ stata dura dovere ricominciare da zero, lasciare tutto e tutti ! Queste cose lasciano il segno.

Mio padre morì il 31/10/1965: malaria e silicosi… Aveva fatto la guerra, lavorato in fondo alla miniera per venti lunghi anni. Alla sua morte avevo 15 anni, lo ricordo una persona semplice, buona e umile. Mia madre è morta nel 2007; rimasta vedova a 47 anni , ha dovuto fare enormi sacrifici per la sua famiglia. Ma a lei non pesava il lavoro! Il fardello più pesante è stata la perdita del suo amato Giovanni, mio padre!

È doveroso per me ricordare la vita dei miei genitori, fatta di sacrifici, sofferenza e rinunce. Grazie papà, grazie mamma!

Vostra figlia Rosalie

Evelina e Aurelio

Evelina e Aurelio nel 1950, da poco sposi
Evelina e Aurelio nel 1950, da poco sposi

A Ronchena (Lentiai) nacquero nostra mamma, Evelina Zuccolotto, nel 1928, e nostro papà, Aurelio Burlon, nel 1920.

Nostra mamma era la seconda di sette fratelli, dei quali solo lei e una sorella oggi sono ancora in vita: una fibra molto forte, che è riuscita a superare tempi duri, inverni freddi e la terribile seconda guerra mondiale. Della guerra ci racconta che una volta vide passare i “picchiatelli” (bombardieri) per abbattere il ponte della ferrovia di Busche. Lei, ancora piccola, si chiedeva: “Ma guarda quegli aerei, cosa buttano fuori? Sembrano bigliettini!”. Quando però sentì lo scoppio delle bombe, si mise a correre per la campagna in cerca di riparo con il fratellino più piccolo, di due anni, al quale lei accudiva perché i genitori erano a lavorare la campagna. Per fortuna ne uscirono vivi, ma con molto spavento.

A 11 anni il padre mandò lei e la sorella più vecchia a servizio delle famiglie più ricche, perché non c’era da mangiare per tutta la famiglia. A 20 anni andò in Svizzera a lavorare in una filatura a Niedertturnen. Ricorda ancora la visita medica a Chiasso, vergognosa e degradante: tutte nude sotto la doccia, poi la visita, rivestita da una coperta: ai tempi nostri una cosa inverosimile, ma allora era così: dovevano scoppiare di salute per dare il massimo nel lavoro. Rimase in Svizzera tre anni; nel frattempo scriveva e amoreggiava via posta con Aurelio, nostro padre. Nel 1950 si sposarono e vennero ad abitare a Pedavena, perché egli lavorava nella storica fabbrica “Birra Pedavena” dei Luciani. Ebbero due bambine: nel 1952 Liliana e nel 1955 Mila. Purtroppo nel 1963 la tragedia: Aurelio morì, vittima di una malattia dovuta alla prigionia in guerra; aveva 43 anni. Evelina si rimboccò le maniche e anche lei venne assunta nella “Birra Pedavena”, dove rimase fino alla pensione.

Ora ha 84 anni. La salute è un po’ precaria, ma quando parla della guerra, della gioventù, della sua vita di emigrante, si illumina tutta. Noi figlie, i generi, i cinque nipoti e i tre pronipoti l’ascoltiamo sempre con grande piacere. Siamo riconoscenti dell’amore che ci ha dato; cercheremo di fare altrettanto e le auguriamo una felice vecchiaia.

Mila e Liliana

Non voglio perdermi nulla

Nella foto Gloria e i fratelli Elmer, Geno, Francesco e Silvio in una foto scattata in Italia prima del ritorno negli Stati Uniti
Nella foto Gloria e i fratelli Elmer, Geno, Francesco e Silvio in una foto scattata in Italia prima del ritorno negli Stati Uniti

La storia di emigrazione di Gloria Zucco ha origini lontane: parte dal nonno, Bortolo Zucco, il quale arrivò in America nel 1901 per lavorare nelle miniere di carbone della Pennsylvania; la scarsità di lavoro qua lo spinse a oltrepassare l’oceano perchè doveva mantenere sua moglie e i loro quattro figli, rimasti a Frassené di Fonzaso.

Nel 1913 Bortolo fu raggiunto da suo figlio Antonio “Tony” Zucco, che aveva allora 18 anni. Tony e suo padre lavorarono insieme come minatori nella cittadina di Lowber, PA. Nel frattempo Tony incontrò una ragazza italiana, Adelina Bracco, e si sposarono nel 1919; ebbero tre figli maschi e poi una figlia a cui diedero il nome di Gloria. Gloria aveva solo sei mesi quando nel 1928 Tony mandò la moglie Adelina e i suoi quattro figli in Italia a conoscere la suocera e le sorelle. Al suo arrivo qui Adelina scoprì di essere incinta e così il quinto figlio, Francesco, nacque a Frassenè nel 1929. Quella che doveva essere una breve visita risultò durare 6 lunghi anni, perchè Tony perse il suo lavoro di minatore a causa della Grande Depressione Americana del 1929. Finalmente nel 1934 Tony riuscì a mettere insieme i soldi sufficienti per il viaggio, così la moglie e i cinque figli poterono far ritorno negli Stati Uniti. Gloria non ha mai dimenticato la sua fanciullezza a Frassenè ed ha un vivido ricordo anche della sua partenza dall’Italia: tutto il paese li accompagnò allora a piedi alla stazione di Feltre, dove presero il treno per Genova: qui si imbarcarono sulla nave Conte di Savoia che raggiunse la costa statunitense. Nel 1945 Gloria sposa Lester Mulholland, figlio di una padovana emigrata negli Stati Uniti nel 1903. Lester ha servito la flotta statunitense nella Seconda Guerra Mondiale e poi ha lavorato per la Westinghouse Electric Corporation. Gloria e Lester hanno avuto quattro figli: Linda, Lee, Gary e Bruce. Dapprima Gloria rimase a casa ad accudire i suoi figli, poi per 18 anni lavorò come cuoca presso la locale scuola elementare. Ha cucinato anche per la sua chiesa, St. Januarius (San Gennaro), preparando specialità italiane per il clero e i membri della comunità parrocchiale. Da quel lontano 1934 non aveva più fatto ritorno in Italia; è arrivata nel settembre scorso, in compagnia dei suoi figli e dei suoi nipoti. Non vedeva l’ora di poter riscoprire i sapori dei cibi della nostra terra (in particolare la polenta) e di rivedere il paese dove ha trascorso i suoi primi anni di vita. A chi si preoccupava se camminare per il centro storico di Feltre o andare sul Campon d’Avena fosse faticoso per lei, coi suoi occhi attenti ed estasiati rispondeva: “I don’t want to miss a thing!”- non voglio perdermi niente!

Storia raccolta da Luisa Carniel,
con la collaborazione di Sara Marcon

Orazio Zanolla

Orazio Zanolla

“Nell’inverno del 1937 i miei genitori decisero di fare un nuovo viaggio in Italia. Per questo bisognava andare tutti a Saint Pierre d’Entremont dove c’era la corriera fino a Echelles (Savoia), poi prendere la coincidenza fino a Chambery. Ma come fare per andare e di buon mattino sulla strada coperta di neve e camminare per cinque chilometri fino a Saint Pierre d’Entremont, soprattutto con tre bimbi di cui io, il maggiore, di appena dieci anni? Tutto però andrà bene con il pagamento di un supplemento: l’autista della corriera accetta di venire a casa a prenderci.

Eccoci sul marciapiede della stazione di Chambery aspettando il treno Bordeaux-Milano. E’ incredibile, ma in questo periodo esisteva un treno che collegava le due città.  Penso che questa relazione ferroviaria fosse dovuta al fatto che, dopo la prima guerra mondiale, il governo francese aveva chiamato certe popolazioni italiane, fra le altre anche venete, a venire a lavorare nel sud-ovest francese a cui mancava mano d’opera (…). Alla nostra discesa dal treno, all’arrivo nella capitale lombarda, faccio la scoperta dell’immensa stazione tutta recente, che era, e che è sempre, bisogna riconoscerlo, degna d’interesse per le dimensioni dell’edificio, l’altezza della vetrata, il gran numero di binari, la moltitudine di viaggiatori, l’immensità della tettoia con le botteghe e soprattutto, esposto in una vetrina, il modello illuminato del transatlantico italiano “ Rex “, che da poco tempo aveva conquistato il nastro azzurro della traversata dell’Atlantico.

Il tragitto seguente fu abbastanza breve dal momento che ci fermavano a Verona per fare visita a zia Sofia Zerbato che abitava in questa città dove mio zio lavorava in un ufficio. Allorché uscimmo della stazione, il cielo di Verona era illuminato dai bagliori rossi di un incendio. Era un’ importante segheria che bruciava nella periferia della città (…). Verona, Padova, poi Santa Giustina Bellunese: il percorso fu abbastanza breve. Nel pomeriggio arrivammo a Marsiai per ritrovarci nella gioia degli abbracci. C’era mia nonna paterna e mia zia Giovanna che ci aspettavano sulla soglia della casa paterna. Nell’ alloggio di fronte, mia nonna materna, mio zio Giorgio e la sua giovane sposa Olga erano ugualmente pronti a salutarci (…).

Nella camera che m’era stata assegnata e che era quella dello zio Ernesto ritrovai con gioia sotto il grande letto la provvista abituale di frutti e di uva secca che mi aveva fatto molto piacere due anni prima durante il viaggio precedente . Ancora oggi ho in memoria il ricordo delle serate passate nella stalla. Era inverno, in questo periodo dell’anno i giorni erano brevi, di più faceva molto freddo. A Marsiai si aveva l’abitudine di ritrovarci tra vicini, dopo la cena della sera, nella stalla per passare la serata approfittando così del calore del bestiame. Gli adulti chiacchieravano, i bambini giocavano nel fieno o negli angolini scuri. La serata finiva sempre con la recita del rosario o delle litanie. Era mio zio Giorgio che conduceva la preghiera iniziando solo con “Pater Noster” o “Ave Maria”; il resto dell’assemblea rispondeva in coro la seconda parte della preghiera; tutto questo in un profondo silenzio e un grande fervore.

Di questo viaggio del febbraio 1937 alcuni aneddoti mi sono rimasti in mente. In particolare un leggero equivoco fra mio padre e mia nonna durante una conversazione sul nostro viaggio. Mio padre ha parlato della città di Chambery, ma con il suo accento italiano si capiva “Sanberi”, e mia nonna che conosceva tutti i santi italiani ci domandava “Ma chi è questo santo che non conosciamo qui in Italia ?”.

Orazio Zanolla