Category “Vite migranti”

Storie di emigranti bellunesi

La Famiglia Olivier si racconta

Da sinistra l’allora presidente ABM Gioachino Bratti con l’allora Assessore ai Flussi migratori Oscar De Bona, Silvana Molin Pradel e Matteo Olivier
Da sinistra l’allora presidente ABM Gioachino Bratti con l’allora Assessore ai Flussi migratori Oscar De Bona, Silvana Molin Pradel e Matteo Olivier

Vi vogliamo raccontare la storia di una famiglia di Codissago, un piccolo paesino, frazione di Castellavazzo, ubicato proprio sotto la diga del Vajont.La famiglia Olivier. Nel 1950, Matteo, il secondogenito, alletà di 18 anni decise che era giunta l’ora di dare una svolta alla sua vita e scoprire nuovi paesi e culture. Nella sua valigia, tra gli indumenti, un pezzo di formaggio, un salame e la foto della amata Luisa; nel cuore tutte le raccomandazioni della mamma e lemozione di nuove esperienze. La sua prima tappa fu la città di Pamplona, nella vecchia Spagna dei Paesi Baschi; qui iniziò la sua epopea di gelatiere come aiutante nella gelateria dello zio Eugenio Bez; dopo tre anni di apprendistato si trasferisce in Galizia, sempre al Nord. Nella città di a Coruña lavora nella gelateria del cugino Giovanni De Cesero, anche lui di Longarone. Ormai cresciuto nell’ambiente e consapevole dellesperienza acquisita, pensa sia giunto il momento di mettersi - in proprio - come si suol dire e apre nel 1956 una gelateria a Vigo, sempre in Galizia, in società con Marco De Cesero; nel 1958, apre la sua prima gelateria a Sitges, località turistica vicina a Barcellona; nel frattempo si era sposato e dal matrimonio con Luisa Olivier Losso nacquero tre figli: Dario, Andres e Juan Carlos. Cresciuti i ragazzi, aprì altre tre gelaterie, oggi gestite dai figli e nipoti. Il fratello maggiore Davide che aveva scelto lAlgeria, lavorò come capo cantiere in una ditta edile. Allo scoppio della guerra civile nel 1962, fugge da Algeri con lultimo aereo per Marsiglia con la moglie Marcella e il primogenito Gabriele.

Da Marsiglia a Barcellona e Sitges il tragitto è breve; lo aspetta il fratello Matteo e così il 17 giugno 1962 Davide apre la prima gelateria italiana a Tarragona ed è subito un successo. A quei tempi gli spagnoli mangiavano il gelato tagliato in porzioni rettangolari che chiamavano “corte”.

I fratelli Olivier dovettero educare a mangiare il gelato in altra maniera, usando il cono o cornetto di cialda che fabbricavano nel laboratorio. A Tarragona, ricorda il figlio maggiore di Davide, Gabriel, nel periodo delle corride, il padre fabbricava gelato dalle sette del mattino a mezzanotte, senza tregua, usando mantecatrici a mano, non automatiche come ora. La discendenza di Davide ebbe due altri figli. Nel ‘63 nasce il secondogenito Armando e infine nel 1965 Raffaele. Ora tra figli e nipoti la famiglia Olivier è diventata una grande famiglia con tante gelaterie artigianali sparse lungo il litorale catalano: possiamo incontrarli da Sitges, Tarragona, Calafell, a Sabadell.A Codissago hanno sempre una casa che li aspetta e tanti amici. Le gelaterie dei fratelli e nipoti Olivier hanno ricevuto il certificato di benemerenza per il loro lavoro dalla Regione Veneto. È doveroso scrivere che il lavoro degli italiani allestero, in particolare quello dei gelatieri, ha dato un valore straordinario al gelato artigianale italiano. La vita del gelatiere è particolarmente difficile, in Spagna ci sono orari impossibili, ma la volontà dei bellunesi è e sarà sempre ferma e rappresenterà degnamente l`Italia all’estero.

Silvana Molin Pradel

Cesare Lamastra

Cesare Lamastra

La mia vita di emigrante pare tratta da un romanzo di Salgari, ma sulle navi che solcavano gli oceani non c’erano i pirati bensì marinai che con fatica e sudore si guadagnavano ogni giorno il sudato pane. Io ero uno di quelli. La storia della mia famiglia è semplice.

Mia madre di Villa di Zoldo aveva trovato impiego a Trieste in una gelateria dove incontrò mio padre che faceva il marinaio. Lui era proveniente dal Sud. Il loro fu un amore a prima vista ed il giorno di San Valentino del 1936 venni alla luce portando un raggio di sole nell’unione dei due sposi.

Giunto all’età scolare frequentai la prima classe elementare a Fiume (oggi Rieka, ma in seguito mia madre decise di portarmi dai nonni a Zoldo per farmi crescere in un ambiente più tranquillo. Finita la quinta elementare praticai una scuola dove insegnavano il mestiere di carpentiere e di muratore e a quindici anni ero in Val Grisende sulla Dora Baltea, dove costruivano una diga; venni poi trasferito a Zoldo in occasione dell’apertura di un cantiere a Pontesei dove avrebbero innalzato una diga. Ai nostri giorni sarebbe inconcepibile per i giovani di quindici anni praticare un lavoro massacrante sotto pioggia e gelo ad ogni stagione, arrampicati ad altezze spaventose con sistemi di sicurezza precari. A quel tempo eravamo in tanti in quella condizione: non abbiamo avuto una vita facile.

Quando si è nati in un luogo dove la natura ogni giorno propone processi nuovi e fantasmagorici spettacoli proposti dal sole, le montagne sembrano precludere lo sguardo per trattenere i propri figli come fa una madre. Ma la valigia diventa imposizione, l’emigrazione croce e delizia dell’uomo. Mio padre, notando la durezza del mio lavoro, un giorno mi portò a Venezia e siccome veniva dalla navigazione gli fu facile farmi avere il libretto di navigazione e così incominciava per me una nuova vita, una vita continua di emigrazione. Incominciai la mia vita di marinaio su una petroliera che trasportava petrolio greggio dall’Arabia Saudita al Nord Europa per poi passare ad altre navi molte delle quali portavano la bandiera del Panama che stava a significare la mancanza di assicurazione. Volevo un lavoro sicuro e finalmente trovai nella “Società di navigazione Italia” ciò che cercavo. Ho lavorato per anni su tante navi. Ricordo con uno stato d’animo particolare la nave “Hermosa”. Ero a Bahia Blanca in Argentina e si doveva caricare del grano. La partenza della nave era prevista per le 9 del giorno dopo e, passata la notte con una bella ragazza, alle 7 mi recai al porto per apprendere che la nave era partita da cinque minuti. Dovetti rimanere a Buenos Aires in attesa di ordini per rimpatriare, ma il ritorno avvenne dopo oltre un anno. Nel frattempo mi ero sposato con una ragazza argentina che mi regalò due splendide bambine per poi volatilizzarsi. Solo, a suon di sacrifici, allevai onestamente le mie figlie.

Avrei tanto da raccontare della mia vita, fatta di luci ed ombre, ma lo spazio è tiranno e devo fermarmi all’essenziale. Michelangelo, Raffaello, Cristoforo Colombo, altri nomi altisonanti mi tornano alla memoria. Ancora mi pare di risentire il fischio che annunciava la partenza. Guardavo l’Italia che si allontanava con un senso di malinconia, ma questa era quasi dolce, perché col pensiero pregustavo, a mesi, la gioia del ritorno. Non ci si abitua mai a partire, le notti dell’emigrante sono trapunte di sogni che brillano come stelle del firmamento, i canti nostalgici, le città visitate in ogni parte del mondo che hanno visto la partecipazione degli emigranti italiani, altri particolari mi facevano sentire orgoglioso di essere italiano.

Una volta smesso il servizio sulle navi, prima di andare in pensione, ho lavorato per dieci anni ad Avellino per rimanere fino al 1994 per poi tornare definitivamente a Zoldo. Nei miei viaggi ho toccato ben 20 nazioni: dalla Svezia all’Africa, dal Nord America al Giappone. Ho toccato – fermandomi più o meno a lungo – oltre cento porti. Non li elenco, ma i loro nomi sono tutti impressi nella mia memoria. Questa la mia vita di emigrante. Nostalgia e fatica, disagi e qualche appagamento, la partenza, il rientro. Luci ed ombre dicevo sopra. Le ombre nel passare momenti bui, dolorosi anche, ma talvolta i sogni si avverano, il destino pare possedere una bacchetta magica. Una sera durante una festa paesana ballavamo all’aperto. Il cielo era trapunto di stelle come quando navigavo al mare. Eros scoccò la sua freccia e credere che i sogni si avverino e che il destino prima o poi ti da ciò che ti ha rubato fu tutt’uno. Annetta era di fronte a me; ora sono dieci anni che mi sta ancora di fronte in ogni momento donandomi amore vero come io lo dono a lei. Abitiamo a Mas di Sedico e talvolta a Zoldo. Nei momenti liberi costruisco navi in scala che mi ricordano la mia gioventù, il mio lungo viaggiare per le vie del mondo.

Mentre scrivo questi miei ricordi di emigrante, Annetta mi è accanto e sento la serenità che mi culla come l’onda del mare. Lei mi è vicina e mi fa capire in ogni momento che sono arrivato in un porto nel quale fermarmi per sempre per assaporare fino all’ultimo giorno della vita la felicità.

Cesare Lamastra

Marino Scopel. I miei vent’anni di emigrazione in Svizzera

Compagni di lavoro nel 1966. Marino è il primo in ginocchio da destra
Compagni di lavoro nel 1966. Marino è il primo in ginocchio da destra

Sono partito emigrante da Seren del Grappa all’età di 20 anni, diretto al Cantone di Zurigo e precisamente a Wadenswil, una bella cittadina, dove sono stato occupato in una grande impresa edilizia i cui titolari erano di origine italiana, di Como. Ero partito da Feltre salendo per la prima volta su un treno che allora era ancora condotto da locomotiva a carbone. A Milano mi attendeva uno zio che già da anni lavorava in Svizzera e che mi accompagnò.

Alla frontiera di Chiasso sono sceso, con una moltitudine di altri emigranti come me, per la visita sanitaria e le pratiche doganali. Cosa indispensabile alla frontiera era il permesso di soggiorno ed il contratto di lavoro che io avevo ottenuto tramite lo zio, che tuttora si trova, pensionato, in Svizzera. Fatta la visita medica abbiamo preso un altro treno che ci portò a Zurigo e quindi un altro che mi condusse a Wadenswil dove arrivai alle nove di sera, sempre accompagnato dal caro zio, presso la sede della ditta, una grande baracca di legno.

Io, giovane di Seren che fino ad allora avevo visto solo i prati ed i boschi della mia valle, ero molto timido e preoccupato. Lo zio mi presentò alle persone che erano in baracca che per fortuna erano tutti italiani. Tutti mi rassicuravano: “Vedrai che con noi ti troverai bene”. E così è stato.

L’indomani, puntuale, fui nel posto stabilito; arrivò il baufir, cioè il responsabile dei cantieri della ditta; anch’ egli italiano. Mi presentai a lui e mi chiese se ero muratore o solo manovale; risposi che ero muratore, anche se a mala pena mi arrangiavo avendo frequentato la scuola professionale di Fonzaso. Il baufir ordinò di condurmi ad un cantiere che distava da lì 1,5 Km. Mi portai dietro una piccola valigia di cartone che conteneva pochi attrezzi da muratore che mi ero portato da Seren del Grappa, acquistati con pochi risparmi alla cooperativa del paese. Giunti al cantiere, il magazziniere mi indicò al capo degli operai; preoccupato, perché non conoscevo il tedesco, fui invece sollevato quando vidi che era un italiano anche lui. Alla stessa domanda: ‘muratore o manovale?’ “Muratore”, risposi e mi disse di andare negli scantinati del fabbricato in costruzione a dare l’intonaco alle pareti. Pensai subito che ero fortunato perché fare intonaci era un lavoro che sapevo fare abbastanza bene. Il primo giorno di lavoro è stato abbastanza duro; alla sera non ricordavo nemmeno la strada per ritornare a casa.

La nostra casa era la ‘baracca’, che non era altro che il magazzino della ditta provvista di un certo numero di camerate, una grande cucina ed un salone per mangiare insieme, oltre a delle latrine con doccia. Eravamo circa trenta, disposti in due o tre per camera. Alla sera due di noi cucinavano per tutti secondo turni settimanali con una cucina a legna. Al mattino i più anziani davano la sveglia, una persona faceva bollire una pentola d’acqua, così ognuno di noi poteva farsi il caffé solubile. Ci lavavamo il viso all’aperto al rubinetto del cortile in qualsiasi stagione dell’anno, anche con -10° C.
Però eravamo contenti lo stesso. Ogni 15 giorni, puntuale, veniva consegnata la busta paga.

Il nostro padrone sapeva ricompensare il lavoro dei più meritevoli con frequenti aumenti che avvenivano anche per nostra richiesta.
Ho vissuto in baracca quattro anni. Nel frattempo conobbi una ragazza pugliese, di Ugento (Lecce), che abitava a Wadenswil con la sorella. Con tanta fatica ho trovato un appartamentino in affitto e così ci siamo sposati il 7 ottobre del 1971 a Ugento e dopo qualche settimana siamo tornati in Svizzera. Il grosso problema era che non potevo portare con me la moglie avendo un permesso stagionale; come tanti altri nella mia situazione l’ho fatta venire clandestinamente. Per questo motivo, quando uscivo la mattina, chiudevo la porta a chiave e tenevo le imposte chiuse e lei se ne stava chiusa in casa. Fortunatamente, dopo pochi mesi, sono maturati gli anni necessari per ottenere il permesso annuale e si poté vivere più tranquillamente, perché si poteva tenere con sé la moglie e cercare anche per lei il lavoro.

Dopo un anno di matrimonio nacque il primo figlio e dopo tre il secondo. Nel frattempo mia moglie trovò lavoro. Cominciava così il problema della custodia dei bambini. La sua fabbrica per fortuna aveva un asilo nido con scuola materna; ogni mattina a passava un pulmino della ditta a prelevare da casa mamme operaie e bambini ed alla sera li riportava a casa.

La vita di emigrazione in Svizzera ci soddisfaceva entrambi, si lavorava, ma si guadagnava bene. Io avevo imparato bene il mestiere di muratore e non avevo più alcuna paura, anzi mi venivano assegnate alcune responsabilità da capocantiere. Si viveva veramente bene a Wadenswil, una cittadina in riva al lago di Zurigo. Ogni domenica facevamo delle passeggiate in riva al lago con i bambini, che si divertivano a portare il pane alle anatre ed ai cigni. Il lago e la stazione ferroviaria erano un luogo di incontro degli Italiani, dove si conversava e poi si andava al ristorante a bere una birra in compagnia.

I figli crescevano e arrivò il problema della scuola. Noi, volendo preservare l’Italianità della famiglia e con l’intendimento di dover un giorno tornare definitivamente in patria, nel 1978, a malincuore, lasciammo il primogenito in Italia con i nonni paterni a Seren del Grappa, dove iniziò le elementari. Nel 1980, con l’età scolastica del secondo figlio, decidemmo di tornare per sempre (pensavamo) in Italia. Ma, dopo giusto un anno, si tornò tutti in Svizzera, perché a Seren le cose non andarono come si sperava, e fummo riassunti dalle stesse ditte, senza alcun problema. Nel 1984 nacque il terzo figlio; in questi anni si viveva ancora meglio: erano lontani i tempi del freddo monolocale, ora si stava in un bell’appartamento confortevole e con il riscaldamento.

Nel 1986 la decisione di tornare in Italia fu definitiva, perché il figlio grande voleva continuare a studiare alle superiori. Furono ancora decisioni sofferte: restare ancora in Svizzera o andare in Italia? Questa volta abbiamo detto Italia per sempre. Questa volta ci andò bene, la nostra Italia fu più generosa con noi perchè ci dette a un lavoro e quindi la possibilità di completare la casa, far studiare i figli fino all’Università e raggiungere la meritata pensione.

Gli anni di emigrazione in Svizzera non potremo mai dimenticarli. Sono stati anni di sacrifici, ma molto importanti per tutta la nostra famiglia anche per gli anni a venire. Ho avuto il grande dono di aver trovato lì mia moglie (donna del profondo Sud, che simpaticamente chiamo la mia terrona), la madre dei miei tre figli, nonna dei miei cinque nipoti; ormai siamo insieme da 42 anni.

Ancora oggi, ogni tanto torno a Wadenswil, ed è come un tuffo nel passato; lì mi soffermo in riva al lago, dove un tempo la domenica, tenevo per mano i miei bambini.

Marino Scopel

Rino Dal Farra. La mia esperienza in Svizzera

Rino Dal Farra

“Nel 1958 in Alpago c’era miseria nera. Ed io, come quasi tutti gli Alpagoti, sono andato in Svizzera, con in tasca un contratto di lavoro che un mio amico mi aveva fatto avere. Non sapevo cosa avrei dovuto fare, perché il contratto era scritto in tedesco, di cui non sapevo una parola.

Insomma per un anno ho lavato piatti e pelato patate – come previsto da contratto – in un grande albergo, a Einsiedeln. Volevo scappar via subito, ed invece son rimasto in terra elvetica per 35 anni. Ho fatto corsi di tutti i generi: tedesco, spagnolo, scuola di commercio. Mi è riuscito tutto – con totale applicazione, s’intende – essendo autodidatta ed essendomi portato da Belluno un po’ d’istruzione e l’apertura mentale necessaria.

Ho messo su famiglia, allevando quattro figli, oggi Italiani e Svizzeri. Mi son costruito una posizione dignitosa. Ho lavorato sodo – come del resto quasi tutti i Bellunesi! – a Lachen, sul lago di Zurigo, a Niederurnen (dove, la sera, insegnavo tedesco agli italiani che lavoravano lì). Per nostalgia della mia lingua materna sono andato anche a Lugano. Mi sono accorto là che i Ticinesi di fronte ad uno Svizzero di lingua tedesca sono Italiani e di fronte ad un Italiano (io) sono Svizzeri. Dopo un anno sono ritornato nella Svizzera tedesca! Una volta la settimana, la sera, ho dato a Rapperswil lezioni di Italiano a Svizzeri, per dieci anni. Gli ultimi 18 anni ho lavorato a Volketswil/ZH in una grande ditta, della quale ero il factotum amministrativo e di cui mi ero guadagnato la totale fiducia.

Ho rispettato tutti come tutti hanno rispettato me. Ho rispettato le loro leggi, i loro usi e costumi, le loro regole. A casa degli altri, comandano, appunto, gli “altri”. Ho imparato a prendere la persona così com’è, con i suoi pregi e i suoi difetti, con le sue idee.
Conoscendo tutti i meccanismi amministrativi e politici svizzeri, non posso fare a meno di citare tre soluzione da brevetto.
Pensione di vecchiaia: c’è un minimo e c’è un massimo. Il motto della pensione di vecchiaia svizzera è: il giovane per i vecchio, il ricco per il povero;

Gli evasori fiscali hanno grosse difficoltà a nascondersi, perché la dichiarazione dei redditi va in Comune, che può facilmente controllare;
Lo stato di “impiegato statale” non esiste; già a livello comunale si assume e si licenzia – se necessario – (senza l’intervento dei Sindacati!).

Durante gli ultimi dieci anni di Svizzera ho “scoperto” la Famiglia Bellunese di Zurigo, collaborando attivamente. Lì ho vissuto l’attaccamento alla nostra “bellunesità” e alla nostra patria. Per me – e penso per tanti Bellunesi – la Svizzera è stata l’America! Mi han trattato bene. mi han pagato bene, però…
Nel 1993 la nostalgia delle mie montagne e della mia gente raggiunse il massimo ed ho avuto il coraggio di rientrare, assieme a mia moglie, lasciando lì quattro figli ormai “fuori di casa”.

Rino Dal Farra

La centrale nucleare

Tranquillo Rinaldo in Zambia, in un cantiere di ricerca dell’uranio
Tranquillo Rinaldo in Zambia, in un cantiere di ricerca dell’uranio

Diversi anni fa mi trovavo nello Zambia come direttore di una compagnia anglo – americana di ricerche minerarie. A quel tempo anche l’Agip Nucleare aveva delle concessioni di ricerca, così noi facevamo le perforazioni anche per loro. Per il fatto che tutti i membri della missione AGIP erano italiani, eravamo legati da una stretta amicizia, in particolar modo con il dr. Luigi Meneghel, che, oltre che essere il direttore, era anche veneto.

Quando l’Università dello Zambia aprì i corsi di Ingegneria Mineraria, fu chiesto a diverse persone, compreso il sottoscritto, di presentare una pubblicazione sui minerali, sui metodi di ricerca, ecc. La mia trattava dei metodi di ricerca nei vari posti del Paese; al dr. Meneghel fu chiesto di parlare di uranio, e l’Agip Nucleare presentò dei campioni di minerale d’uranio. Le nostre pubblicazioni ottennero un buon successo, anzi vorrei dire ottimo, dato che, dopo alcuni giorni, ricevetti un invito del Primo Ministro di recarmi nel suo ufficio (…).

Mi recai nell’ufficio e qui trovai il dr. Meneghel, anche lui con lo stesso invito; nei brevi minuti di attesa ci chiedemmo che cosa mai volesse da noi. Il Primo Ministro arrivò subito, scusandosi per averci fatto aspettare, anche se la nostra attesa non era durata più di due o tre minuti. Mentre noi stavamo ancora chiedendoci cosa volesse, iniziò col dirci che aveva molto apprezzato le nostre conferenze sui minerali radioattivi, per continuare dicendo che secondo lui noi eravamo le due persone più competenti di energia nucleare del Paese. Arrivò infine al motivo per cui ci aveva convocati (francamente io c’ero già arrivato): ci chiese la possibilità che anche la Repubblica dello Zambia potesse avere una centrale nucleare. Ci siamo guardati in faccia e ho visto il dr. Meneghel cambiar colore. Io dissi: “Signor Ministro, lo Zambia possiede con le sue centrali idroelettriche tanta energia che fornisce anche gli stati vicini. E lui sorridendo rispose: “Lo sappiamo”, – ha usato proprio il plurale majestatis, – “ma provate a immaginare quale sarebbe il prestigio per il nostro paese avere una centrale nucleare”. Il dr. Meneghel cominciò a elencare le difficoltà; visto che non venivano recepite, anche lui cominciò a sviare il discorso. Il Ministro, dopo averci ringraziato vivamente, con la richiesta di farci un pensierino, si è congratulato nuovamente per le nostre pubblicazioni e gentilmente ci ha congedati.

Siamo ritornati alla sede dell’Agip e abbiamo faticato non poco a spiegare ai vari membri della missione la richiesta che a tutti sembrava assurda e il tutto è finito a grandi risate.

Questo sta a dimostrare che non tutti sono contrari alle centrali nucleari!

Tranquillo Rinaldo