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Nova Beluno

di Cesar Augusto Murari e Luciano Gastaldo*

La Colonia Jaguari fu creata nel 1871. Tuttavia, a causa di alcune dispute per il possesso della terra, la demarcazione dei lotti iniziò solo nell’agosto del 1886, con l’arrivo nella regione del dott. Jose Manoel Siqueira Couto. Nel gennaio 1887 si contavano già 78 lotti di 25 ettari demarcati come “Terra Jaguari”. All’inizio dell’anno successivo erano 249.  

Secondo lo studioso José Newton Marchiori, e in accordo con quanto riportato nel “Registro di immigrati della Colonia Jaguari”, la data da considerare fondamentale nella storia della Colonia Jaguari è il 14 settembre 1888, giorno in cui arrivarono i primi immigrati dalla Quarta Colonia. 

Alcuni documenti citano erroneamente come anno di fondazione della Colonia il 1889, prima della proclamazione della Repubblica (15 novembre 1889). Per questo il territorio non viene ricordato come le altre antiche colonie di Conde D’eu, Dona Isabel, Fundos de Nova Palmira e Silveira Martins, definite Prima, Seconda, Terza e Quarta Colonia italiana. Tuttavia, essendo stata creata nel 1871, durante il periodo imperiale, Jaguari è a tutti gli effetti la “Quinta Colonia italiana”.

Linea Nova Beluno, Colonia Jaguari, 1890/1900 circa. Inaugurazione del campanile della chiesa Nossa Senhora do Rosário.

Formarono la Colonia i nuclei: Jaguari – la sede principale, del 1888 -; Ernesto Alves, del 1891; Toroquá, del 1892; São Xavier, del 1894. Il nucleo Toroquá fu diviso in Nucleo Encruzilhada e Nucleo Nuova Belluno, in omaggio alle famiglie giunte dal Bellunese.

Tra il 1890 e il 1893 arrivò un significativo contingente di 4.865 immigrati, tra cui numerosi polacchi, tedeschi e austriaci. Alla fine del 1905 la popolazione era di 14.352 abitanti, di cui ben 9.500 italiani.

Gli ultimi immigrati arrivarono il 29 agosto 1906, poi la Colonia andò via via ad estinguersi e i suoi nuclei vennero integrati alle vicine città di São Vicente do Sul (soprattutto dal nucleo principale e da São Xavier), Santiago (dal nucleo Ernesto Alves) e São Francisco de Assis (Nucleo Toroquá).

Il 16 Agosto 1920 Jaguari divenne città autonoma.

Dalle ricerche effettuate su alcuni libri che trattano dell’emigrazione italiana a Jaguari, attraverso le visite ai cimiteri e mediante l’analisi dei documenti di famiglia, è stato trovato il seguente elenco di immigrati provenienti dalla provincia di Belluno e stabilitisi a Colonia Jaguari:

BEN Giovanni, figlio di Giovanni Battista e Anna Campedel, entrato nella Colonia il 15 ottobre 1898;

BENVEGNÙ Pietro, marito di Maria Giovanna Selva, entrato nella Colonia il 20 aprile 1895;

BERNARDI Antonio, marito di Giustina Giradini, entrato nella Colonia il 4 marzo 1895;

BOTTA Angelo, figlio di Isidoro e Assunta De Min, entrato nella Colonia il 16 gennaio 1892;

CADO Pietro, figlio di Adriano e Maria Maoret, entrato nella Colonia il 9 febbraio 1893;

CARLIN Giovanni, figlio di Gaetano e Antonia Pol, entrato nella Colonia il 17 aprile 1893;

CASSOL Eugenio, figlio di Michele e Giustina Pollet, entrato nella Colonia il 25 gennaio 1892;

CONTE Felice, figlio di Vincenzo e Catarina Bosco, entrato nella Colonia il 20 febbraio 1893;

DAL PRA Candida, figlia di Battista e Camila Sasso, entrato nella Colonia il 5 giugno 1905;

DAL’ASEN Giovanni Battista, marito di Teresa Zanivan, entrato nella Colonia il 30 novembre 1894;

DALL’OMO Agostino, marito di Maria Maddalena Da Canal, entrato nella Colonia il 4 marzo 1895;

DECIMA Angelo, marito di Candida Dai Pra, entrato nella Colonia il 5 giugno 1905;

DELLA VECCHIA Sante, marito di Antonia Savaris, entrato nella Colonia il 30 novembre 1894;

DEON Pietro, di Sedico, marito di Maria Schiocchet, entrato nella Colonia il 16 gennaio 1892;

FABRIS Giacinto, marito di Natalina Frada, entrato nella Colonia il 30 novembre 1894;

GUADAGNIN Giovanni, marito di Giovanna M. Capellin, entrato nella Colonia il 19 gennaio 1898;

LENA Celeste, marito di Angela Sotlacal, entrato nella Colonia l’8 luglio 1889;

LIMANA Giuseppe, marito di Maria Santel, entrato nella Colonia il 16 gennaio 1892;

MADALOZZO Lorenzo, figlio di Vittore e Maria Dall’Osto, entrato nella Colonia il 25 gennaio 1892;

MARIN Giulio, marito di Luigia Sacchet, entrato nella Colonia il 22 maggio 1891;

MASTELOTTO Luigi, marito di Celeste Zandomeneghi, entrato nella Colonia il 30 novembre 1894;

PASUCH Angelo, marito di Maria Giudita Della Vedova, figlio di Luigi e Angela Pol, entrato nella Colonia il 16 gennaio 1892;

PAZZA Pietro Gervasio, figlio di Bortolo e Filomena Zucco, entrato nella Colonia il 20 settembre 1888;

PIANI Ferdinando, marito di Angela Gris, entrato nella Colonia il 10 marzo 1895;

POLLET Abelardo, figlio di Luigi e Maria Luisa Marin, entrato nella Colonia il 22 febbraio 1891;

POLLET Luigi, figlio di Antonio e Maria Cecchin, entrato nella Colonia il 17 gennaio 1893;

PRINA Luigi, figlio di Angelo e Maria Filomena Orlandin, entrato nella Colonia il 17 gennaio 1893;

REOLON Luigi, figlio di Gioachino e Rosa Sommacal, entrato nella Colonia il 16 gennaio 1892;

RIGHES Luigi, figlio di Giuseppe e Antonia Carlin, entrato nella Colonia il 22 febbraio 1891;

RIVA Pietro, marito di Maria Annunziata Veny, entrato nella Colonia il 16 gennaio 1892;

ROSSO Giovanni, figlio di Antonio e Giovanna Angela Fasiol, entrato nella Colonia il 10 marzo 1895;

SACCHET Vittore, marito di Giacoma Marian, entrato nella Colonia il 25 gennaio 1892; 

SAVARIS Nicolò, di Mel, marito di Domenica Cesa, entrato nella Colonia il 30 novembre 1894;

ZUCCO Antonio, figlio di Angelo e Maria Maccagnan, entrato nella Colonia il 22 giugno 1893.

Fonti:
Gênese da Colônia de Jaguari, di José Newton Marchiori; Est Edições 2001
Esboço Histórico de Jaguari, di José Newton Marchiori; Pallotti 1999
Jaguari, Documentos Históricos e Relatos, di José Newton Marchiori; Est Edições 2001
La nostra stòria. Família Gindri do Brasil, di Narlei Gindri Rigotti; Est Edições 2008
– Archivio di Stato di Belluno

* Cesar Augusto Murari, ricercatore dell’Associazione Culturale Italiana “Vale do Jaguari”;
Luciano Gastaldo, presidente dell’Associazione Culturale Italiana “Vale do Jaguari”.

Il Clube Social do Beluno, giugno 2018

Fotografia attuale della Chiesa di Beluno. Da sinistra: Miguel Bianchini, Cesar Murari e Luciano Gastaldo.

Un Natale pieno di speranza – parte 2

Ecco la seconda parte della storia. La prima è disponibile QUI.

Al mattino, alle prime luci del sole, ecco la sveglia dei tropeiros, le guide locali che con i muli accompagnavano le famiglie al Campo dos Bugres. Qui, un “baracon” di legno grezzo, in mezzo alla foresta, accoglieva le famiglie destinate alle colonie. Oggetti e bambini più piccoli venivano posti su muli, in delle ceste. Così fu per Antonia, di cinque anni, e per Domenico, di dodici mesi. Andrea, di dodici anni, andava a piedi assieme agli adulti, avanti per una stradina accanto alla foresta vergine. Gli uomini portavano i machete per tagliare i rami, procedendo sui sassi, attraversando fiumi, sotto il sole e la pioggia, con il pericolo degli animali: serpenti, zanzare, scimmie, giaguari, tigri, finché, ecco spuntare il “baracon dei bugri a Caxias”. Era il 20 dicembre del 1876.

Mancava tutto, ma Dio aveva lasciato il pinhão

Qui molte famiglie, sopratutto donne e bambini, aspettavano il giorno di partenza per il lotto di terreno promesso. Gli uomini erano andati avanti prima, assieme alle autorità, per vedere i terreni. Dopo la decisione sul posto, si iniziava presto a tagliare il mato, abbattere la foresta, cercare di costruire una baracca primitiva di legno per proteggere la famiglia. I primi mesi in colonia erano stati molto difficili. Mancava tutto, ma Dio aveva lasciato il pinhão, il frutto dei pini presenti in abbondanza, e quello fu la salvezza di molti Italiani, assieme alla caccia e alla pesca.

Partiti dall’Italia in cinque, in meno di cinque mesi si erano ritrovati in tre.

Per i bambini, però, non c’era latte. Non resistevano alle malattie, alle puntare degli insetti, alla variazione climatica, alla stanchezza dei viaggi. Domenico, il bimbo di tredici mesi, era morto a gennaio nel 1877. La tristezza aveva invaso la famiglia. Di notte l’assaliva un pensiero: «Che cosa abbiamo fatto?». Ma ormai non era più possibile tornare indietro. Tre mesi più tardi, quello stesso anno, era morta anche Antonia, di cinque anni. Partiti dall’Italia in cinque, in meno di cinque mesi si erano ritrovati in tre.

A giugno, però, era nato Giovanni, primo figlio in terra brasiliana. Nel 1879 era arrivata Maria, mentre nel 1890 Andrea, il primogenito, si era sposato con Angela Zatti, italiana di Sospirolo. Nel 1901 era stata la volta di Maria, sposatasi con Domenico Silvestrin, e nel 1904 di Giovanni, unitosi ad Amalia Cassol, di San Gregorio. Giovanni e Amalia si trasferirono a Nova Prata, poi a Lagoa Vermelha e infine a Erechim, dove nacquero i loro dodici figli, i quali – imparato a camminare e a parlare – si diffusero per il Brasile, in cerca di nuove terre più fertili, più grandi, colonizzando nuovi stati come Santa Catarina, Paraná, Mato Grosso do Sul, Mato Grasso, Rondonia, Roraima, Pará, Amazonas.

Oggi, soltanto nel ramo famigliare di Giovani e Amalia, c’e un totale di oltre mille discendenti, che ancora si moltiplicano. Tutti brasiliani sì, ma con radici profonde in Italia.

Isair Dallazen, nipote di Giovanni e Amalia

Amalia Cassol e Giovanni Dall’Asen

La vita dei nostri nonni

Questa storia è scritta in taliàn, una koiné a base veneta influenzata da altri dialetti italiani e dal portoghese, nota anche come vêneto brasileiro, italiano do Brasil o vêneto sul- riograndense. Alla base del taliàn vi sono prevalentemente le parlate del Bellunese e del Vicentino, con altre componenti venete e qualche influenza della Lombardia orientale. Diffuso soprattutto nelle regioni agricole del Rio Grande do Sul e di Santa Catarina – aree geografiche interessate da consistenti flussi migratori specialmente dal Veneto – il taliàn ha assunto in queste zone il ruolo di lingua di riferimento di una comunità ben più ampia di quella che lo ha importato, ossia i veneti.
Parlato ancora da circa un milione di persone, soprattutto anziane, è un lingua tuttora viva, importante a livello familiare e comunitario, condivisa da persone di origine anche diversa, che vivono a contatto con l’ambiente dei discendenti degli emigrati veneti*.

Na olta, quando i nostri noni i stea in colonia, la era bem dura là la vita. Dura ma mia sempre disgrasiada. Ghe gera, sicuro, tanti de quei che pativa la melanconia della patria, parenti, amici, abandonati per necessità o pure per voglia de venture, e che trovava consolassion soltanto vedendo crescer sani e bravi i fioi e i nipoti, e insegnandole le bele musiche e le storie che i a portà nel cor dal momento che i a tocà da partir.

Adesso go in mente la vita de i primi coloni che, come dis la canson, co i e arivadi no i a catà “né paglia e né fieno” e i a dormì come le bestie, “sul nudo tereno”. Be’, la é stata dura sì la vita de quela brava gente. Scominciar in mezo al bosco. Farse su na baracheta de poder starghe intro, così fora dalla piova, dal fredo e dale bestie. Tirar vanti a forsa de coraio e speranza. E tante olte non ver da magnar altro che polenta e radici, o na patata dolsa brustolada sule bronfe del larin, o pure gnente pì que fruti catadi in tel bosco.

De soto al sol de meodì d’istá, a cosinarse i sensi o a calpestar la brina vanti giorno

Ah, la è stata dura, sì. Par campar era bisogno al laoro de tuti in fameia, dal primo a l’ultimo, da i noni ai nipoti. E in colonia el laoro non lo é da rechie. De soto al sol de meodì d’istá, a cosinarse i sensi o a calpestar la brina vanti giorno, forse intamancadi, ma forse anca descolfi. Ma anca dì de festa sempre qualcosa da far. Ah, che dura la è stat la vita de quei primi coloni.

… i e stati boni da farse senza aiuto che altro che lori…

Bele storie, storie vere, come de le olte de far strender al cor. Pori nostri noni, quante strussie e fadighe, par darghe ai fioi un domani meio. Lo so bem che son storie vere. Ma, sarà par alegressa de ricordar che i e stati boni da farse senza aiuto che altro che lori, sarà par questo che i a desmentegà de contarghe ai soi discendenti le fadighe, e tante olte la fame, el fredo.

E ades, ormai veci, i so pensieri i é piutosto de ringrasiamento par le bele cose che i a podesto far, che de compatimento par la duressa de la so fadigosa e tribulata vita. E i sa che lo sacrifissio l’é sta il pressio che i a pagà par darghe na meio vita ai soi fioi.

Fernando Luigi Padoin Fontanella

* Dizionario enciclopedico delle migrazioni italiane nel mondo, AA. VV.; Roma: SER, ItaliAteneo, Fondazione Migrantes, 2014

Una casa costruita da emigranti bellunesi appena giunti a Caxias do Sul.
(Per gentile concessione della famiglia Lisot)

Oltre il mare e sotto le stelle – seconda parte

La prima parte della storia è disponibile QUI.

Angelo Manfroi (1811), già vedovo della moglie Maria Maddalena Soppelsa (1814), aveva una famiglia numerosa e probabilmente i figli già discutevano sulla possibilità di emigrare per cercare nuove terre fuori dall’Italia. Si trattava di abbandonare le montagne della Valle del Biois, dove i loro avi avevano vissuto per secoli. Nel 1882 Angelo, ormai settantenne, il figlio Giuseppe (1853), la nuora Domenica Tremea (1854), i nipoti Maddalena, di quattro anni (la mia bisnonna), Francesco, di tre, e Faustino, di uno, lasciarono la casa e il paese. Del gruppo facevano parte anche i figli Faustino, di trentadue anni, e Giulio, di ventiquattro. Gli altri cinque figli decisero di restare in Italia.

Dall’arrivo di questo ramo della mia famiglia in queste terre lontane la storia inizia ad assumere tratti drammatici

La famiglia partì dal porto di Genova il 22 dicembre 1881 a bordo del vapore “Colombo” e, dopo ventitré giorni di viaggio, con una breve sosta sull’isola di São Vicente a Capo Verde, il 12 gennaio 1882 giunse a Rio de Janeiro. Dopo un veloce soggiorno all’Hospedaria dos Imigrantes per controllarne lo stato di salute, il gruppo ripartì con le poche cose che aveva su navi costiere, diretto nel Rio Grande do Sul. Da qui avrebbe raggiunto la nuova casa in “Colônia Dona Isabel”, oggi Bento Gonçalves. Dall’arrivo di questo ramo della mia famiglia in queste terre lontane la storia inizia ad assumere tratti drammatici, rimasti nel tempo un segno indelebile nelle nostre anime.

Poco dopo essersi stabilito presso la “Colonia”, morì inaspettatamente Giuseppe. Nonostante il supporto del suocero e dei cognati, che l’aiutarono a crescere i tre figli, per Domenica, rimasta vedova, non fu facile affrontare la sfida. Nel 1884 sposò il fratello del suo defunto marito, Faustino, che oltre ad essere lo zio divenne il patrigno dei suoi nipoti. Il destino volle che questa storia acquistasse ulteriore drammaticità con la morte improvvisa di Domenica, avvenuta nei primi mesi del 1891 a seguito di complicazioni nel parto di Angelo, anche lui morto alla nascita. Era il secondo figlio concepito con il nuovo marito.

A queste disgrazie se ne aggiunse un’atra: nel luglio dello stesso anno morì anche la figlia di Faustino, Domenica Josephina, di tre anni. Faustino, rimasto vedovo, sposò nel 1895 Fiorenza Baiocco, anche lei immigrata, giunta in quella zona nel 1880. Da lei ebbe otto figli. Maddalena Manfroi e i suoi due fratelli rimasero soli. A diciannove anni Maddalena sposò il trevigiano (originario di Cordignano) Bartolomeo Caus, emigrato nel 1887. Loro due sono i miei bisnonni paterni.

A volte i racconti sull’emigrazione si riducono a storie di eroismo di un popolo che ha osato esplorare terre lontane con l’esaltazione della forza e del coraggio. Tuttavia, quando cerchiamo di conoscere queste persone individualmente, dobbiamo dare a ciascuna l’aura umana che si merita. Così noi italo-brasiliani immaginiamo i nostri immigrati con gli occhi pieni di lacrime per ciò che hanno lasciato, ma colmi di sogni e di voglia di costruirsi una nuova vita. Per noi è importante salvare le storie che ci sono state raccontate, è la nostra riconoscenza per dire a tutti gli immigrati che ce l’hanno fatta a realizzare i loro sogni, nonostante i dubbi, le incertezze e le paure. Perché noi siamo qui, oltre il mare e sotto le stelle.

Claucir Savaris Caus

Maddalena Manfroi

Oltre il mare e sotto le stelle

Questa è la storia dei miei trisavoli, che tra il 1875 e il 1892 osarono cambiare il loro destino e scelsero lo stato del Rio Grande do Sul per rifarsi una vita. Erano otto coppie italiane che, seguendo un sogno, vendettero i pochi beni che avevano per racimolare un po’ di denaro e pagarsi il viaggio di andata. Con sé portarono anche qualcosa di molto prezioso: i loro figli, e la grande speranza di poter ricostruire la dignità perduta.
Queste coppie venivano da diversi comuni. Qui racconto le vicende delle due coppie bellunesi. 

Maria Comel (1842) e Giacomo Savaris (1837) erano di Mel. Avevano tre figli: Teresa, di otto anni, Graziosa, di due, e il piccolo Giovanni Battista, di due mesi, che sarebbe diventato il mio bisnonno materno.
Per raggiungere l’America la famiglia Savaris si imbarcò in Francia. Arrivata alla stazione ferroviaria di Milano, prese il treno per Le Havre. Da lì, il 17 ottobre 1876, a bordo del “Vapor San-Martin”, pertì verso la nuova destinazione. 

I loro corpicini furono gettati in mare, trovando nelle profondità dell’Atlantico la loro ultima dimora e lasciando nei sopravvissuti segni profondi.

A bordo del battello non c’erano spazi sufficienti per tutti. Nelle cuccette improvvisate e nei vani di carico dormivano anche cinque persone rannicchiate assieme, con gli uomini separati dalle donne e dai bambini.
Durante il viaggio, che durò poco più di trenta giorni, una tragedia colpì la famiglia. Il proliferare di malattie a bordo fece ammalare le due giovani Teresa e Graziosa, che morirono. I loro corpicini furono gettati in mare, trovando nelle profondità dell’Atlantico la loro ultima dimora e lasciando nei sopravvissuti segni profondi.

Dopo la difficile traversata dell’Atlantico, la famiglia arrivò in Brasile, al porto di Rio de Janeiro. Era il 9 novembre 1876. Dopodiché, si imbarcò su una nave costiera, arrivando al porto di Rio Grande, nello stato di Rio Grande do Sul. Da qui continuò con chiatte a basso pescaggio fino a Porto Alegre e infine, con i carri, verso la colonia di Dona Isabel, attuale comune di Bento Gonçalves.

Il ricordo di questo viaggio, faticoso e tragico, rimase impresso nella mente di Maria fino alla fine dei suoi giorni. Apparecchiò sempre la tavola con due posti vuoti e tutti sapevano che erano riservati a “Le due”, invocazione – questa – che Maria ripeté fino alla fine, come in una preghiera quotidiana. Il suo cuore di madre non aveva mai accettato la perdita delle sue figlie, anche se in Brasile erano nati altri due bambini, Adamo e Benjamin.
(Continua…)

Claucir Savaris Caus

Maria Comel