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In giro per il mondo sulle due ruote

La mia storia da giramondo iniziò negli anni Settanta tramite le biciclette, con il Veloce Club Enal Belluno. Io abitavo a Carfagnoi di Trichiana e un amico – Ivo Battiston – mi chiese se volevo iniziare a correre in bici. In quegli anni non si andava molto in giro e lui mi disse: «Dai, che andiamo in giro tutte le domeniche». Quella fu la molla e così, attraverso lo sport, iniziai ad andare un po’ fuori dal Bellunese. 

Dopo essere riuscito a ottenere dei buoni risultati da dilettante, passai tra i professionisti, dove gareggiai tra il ’79 e l’82 disputando due Tour de France, un Giro d’Italia, una Vuelta di Spagna e le varie gare di stagione. Alla fine del 1982 decisi di smettere di correre e per me iniziò una nuova carriera come fisioterapista. 

Ebbi modo, grazie al mio lavoro, di vedere il mondo e, nel farlo, di divertirmi.

Dopo l’ovvio periodo di studio e formazione alla Scuola Massaggi di Forlì, nel ’90 cominciai a rigirare il mondo in questa nuova veste, prima con i dilettanti e poi con le squadre professionistiche, a cominciare dalla Italbonifiche, nel 1993. Poi la Carrera, la MG e, tra il 1997 e il 1998, alla Mercatone Uno, dove gareggiava Marco Pantani. Poi feci parte della Mapei, della Fassa Bortolo, della CSC, della Liquigas, fino alla Nazionale con Davide Cassani. 

Ebbi modo, grazie al mio lavoro, di vedere il mondo e, nel farlo, di divertirmi. Oltre ai massaggi e alla fisioterapia per le diverse problematiche fisiche, il nostro ruolo prevede che ci occupiamo anche dei rifornimenti agli atleti. Una volta dovevamo fare pure i menù e spesso controllare perfino le cucine degli hotel, mentre adesso – finalmente – sono arrivati i nutrizionisti, i cuochi e altre figure di supporto, così possiamo dedicare più tempo alle nostre mansioni. 

… il periodo in cui lavorai con Marco Pantani fu molto intenso e nel ’98, quando lui vinse Giro e Tour, ebbi la più grande soddisfazione.

Gli episodi che ricordo con grande piacere sono molti: la collaborazione con Michele Bartoli dal 1999 al 2004, i diversi Mondiali, ai quali dal ’99 fino ad oggi ho sempre partecipato, le Olimpiadi del 2000 e del 2004 come massaggiatore degli Azzurri (ad Atene Bettini vinse l’Oro). Ma in particolare, il periodo in cui lavorai con Marco Pantani fu molto intenso e nel ’98, quando lui vinse Giro e Tour, ebbi la più grande soddisfazione. Era da tempo che non si ottenevano risultati di così alto livello. 

Pantani era un ragazzo molto semplice, che purtroppo si lasciò condizionare troppo da certe amicizie che arrivano con il successo. Le vicissitudini avute con lui sono cose che ti segnano, anche perché ti rendi conto che non puoi farci niente, non puoi cambiare le cose. 

Il ciclista che in questi anni mi ha impressionato più di tutti, però, è Peter Sagan, uno di quei campioni che nascono solo una volta ogni tanto. Poi Bugno fu un grande, così come Johan Museeuw. Corridori che hanno segnato un bel po’ di storia.

Luigino Moro

Luigino al Tour de France del 1981
Luigino al Tour de France del 1981

Dalla Libia alla Francia

Un’emigrazione durata quarant’anni. E una vita lavorativa vissuta interamente all’estero. È la storia di Luigi Tormen, raccontata dalle figlie Luigina e Adele, partecipi anch’esse, insieme al padre e alla madre, Maria Camana, dell’esperienza, spesso dura, della vita al di fuori del proprio paese natale.

«Nostro papà – precisano le due sorelle – è nato a Belluno il 15 ottobre 1909. Nel 1930 è in Libia, dove inizia a lavorare nell’impresa di costruzioni Lonati di Tripoli, prima come muratore e poi come assistente». Partecipa alla realizzazione di opere importanti, come la nuova sede Infail* di Tripoli, e ai lavori di difesa a Castel Benito. Il 28 novembre del 1936 sposa Maria (nata il 2 agosto 1910).

ho l’immagine vivida del bunker in cui vivevamo e del fatto che intorno a noi c’era solo sabbia.

«Prima di sposarsi si erano scritti per ben sette anni – racconta Luigina – Io sono nata nel 1938. Ero bambina, della Libia non ho molti ricordi, ma ho l’immagine vivida del bunker in cui vivevamo e del fatto che intorno a noi c’era solo sabbia. E ricordo bene il ritorno in Italia: papà aveva firmato per rientrare con l’ultima nave, solo per donne e bambini».

Ma ecco il ricatto: era il 1941 e sarebbe potuto salire a bordo solo a patto di partire per la guerra se l’Italia vi fosse entrata. E così fu. Nel 1942 è in Albania. Nel 1943 la guerra lo porta in Francia, in Costa Azzurra. «Provvidenzialmente, e senza aspettarselo, incontra sua sorella, che aiutava i soldati dando loro del cibo». L’8 settembre, data dell’armistizio, fugge da Cagnes-sur-Mer e arriva a Verona, dove è salvato dal rastrellamento tedesco grazie all’aiuto di una donna che, quando scendono dal treno, finge che Luigi sia suo marito.

In Italia non c’è lavoro e nel 1946 decide di emigrare di nuovo in Francia, clandestinamente: fino a Torino in treno, poi attraversa a piedi il Piccolo San Bernardo. Oltre confine può contare sull’appoggio del cognato Rodolfo e inizia a lavorare nell’impresa “Weiler”, a Morhange, nel dipartimento della Mosella, dove poi lavorerà anche Luigina.

… noi italiani eravamo visti male, non era semplice integrarsi.

«Nel luglio 1947, dopo la domanda di ricongiunzione – spiega ancora Luigina – io e mia mamma lo raggiungiamo». Luigina ricorda gli anni di stenti. «Nel 1951 nasce mia sorella Adele. In Alsazia Lorena, prima territorio tedesco e poi francese, noi italiani eravamo visti male, non era semplice integrarsi. Vivevamo in una baracca. Ma un po’ alla volta le cose cambiano. Io a nove anni inizio a fare lavoretti in un panificio, mia madre dai contadini. E la gente comincia ad avere stima di noi, finché riusciamo ad acquistare una casetta».

Nel 1970 Luigi ottiene la pensione d’invalidità per eczema da cemento e la famiglia torna in Italia, a Castion, dove realizza il sogno di costruirsi la casa tanto desiderata, casa in cui Luigina e Adele vivono tutt’ora. «La dipartita del papà è avvenuta nel 1983, quella della mamma nel 1990 – concludono le due sorelle – rimane il ricordo di anni belli e sereni dopo il ritorno a Castion».

Martina Reolon

*L’Istituto nazionale fascista per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro.

Tripoli. La piccola Luigina Tormen con sua madre Maria Camana.

A piedi sulle Alpi

Era da poco finita la guerra e le risorse in famiglia scarseggiavano. Mio padre aveva combattuto sia nella Prima che nella Seconda guerra mondiale e tra le due era stato in Eritrea. Nell’ultima era finito prigioniero in India e ritornato nel ’46. Dove stavo io non c’erano le condizioni per poter vivere. La soluzione sembrava apparentemente semplice, andare in Francia, dove c’era richiesta di lavoratori. Solo un problema: bisognava partire clandestini.

Io ero giovane e quindi sono partito da Lentiai, nel ’46. Ero assieme ad altri miei compaesani. Bisognava pagare quelli che ti accompagnavano, i passeurs, cinque mila lire. Arrivato a La Thuile, in una stazione piccola come quella di Busche, dovevi saltar giù. C’erano delle persone che ti aspettavano in un bar e poi ti caricavano su un camioncino aperto, ti portavano fin dove potevano e poi ti consegnavano ad altre due persone, altri passeurs. Prima di tutto li pagavi, poi da La Thuile ti portavano fino al San Bernardo. Erano già d’accordo con le guardie di frontiera che effettuavano i controlli sui sentieri. Intascati i soldi, i passeurs tornavano indietro e andavano a prendere altri gruppi.

Dovevi camminare senza nessuno che ti conduceva, perché ai passeurs interessavano i soldi…

Io sono partito con il primo gruppo. Era settembre e arrivati sul Piccolo San Bernardo c’era acqua e faceva freddo. Ero malvestito, avevo un paio di mocassini che venivano dall’India, me li aveva portati mio padre. Siamo partiti alla sera e siamo arrivati la sera dopo, sempre a piedi – ovviamente – camminando tutta la notte. Dovevi camminare senza nessuno che ti conduceva, perché ai passeurs interessavano i soldi, dopodiché tornavano indietro e cercavano di trovare altre persone che avevano necessità di attraversare il confine.

Una volta giunti a Borgo Saint-Maurice ci hanno mandato a un campo fatto di baracche, dove ci hanno fatto le visite mediche. Al campo è arrivato il padrone e c’è stato uno smistamento. Ti selezionavano in base al lavoro che avevi detto di saper fare. Io sono andato a Marsiglia, a quell’epoca stavano facendo i ponti sull’autostrada. Ho lavorato lì per un periodo e poi sono stato a lavorare su un’isola dove c’era un faro che era stato fatto saltare dai tedeschi durante il conflitto. Poi sono stato a Cavaillon, a costruire un hangar, fino a che ho dovuto tornare in Italia per fare il militare.

Il lavoro era molto duro e pesante, facevo le notti.

Nel ’52 mi sono trasferito a Le Locle, in Svizzera, a lavorare come falegname. Sono andato avanti per sei anni, poi c’è stato un periodo di crisi e allora sono rientrato e sono andato prima ad Arquata Scrivia e poi nelle acciaierie di Genova. Il lavoro era molto duro e pesante, facevo le notti. Da lì sono andato a Milano come falegname e ci sono rimasto per un po’ di tempo, poi sono ripartito per la Francia, da solo, mentre mia moglie è rimasta a Milano e mio figlio era a Lentiai, con i nonni.

Sono andato a finire a Bagnols-sur-Cèze, con un’impresa che si chiamava Mione. Appena ho avuto modo di pagarmi una casa adeguata, mi hanno raggiunto mia moglie e mio figlio. Con la Mione bisognava spostarsi spesso e quindi, per non far girare mio figlio da un cantiere all’altro, ho cambiato impresa e sono rimasto per ventisette anni a Marsiglia.

Nel maggio 2011 sono tornato a Lentiai, perché io e mia moglie volevamo stare in un posto più tranquillo.

Marcello Mione

Alpi, 1946: disperati in fila nella neve.
Nella fotografia, tratta da una rivista francese del 1946 e conservata al “Corriere della Sera”, un gruppo di emigranti italiani percorre in fila indiana un sentiero di alta montagna, già coperto dalla prima neve, per passare in Francia.
Fonte: www.orda.it

Una bambina, una piccola sedia, una storia

Era la prima metà del’900 e nel piccolo paese di Vénérieu, vicino a Saint-Marcel-Bel-Accueil (oggi gemellato con Gosaldo), nel dipartimento dell’Isère, in Francia, in una fattoria viveva Ginette Jas con la sua famiglia. Ginette allora era una bambina e un giorno alla fattoria arrivarono tre persone che venivano da lontano. Venivano dall’Italia e stavano cercando lavoro.

Con loro avevano degli attrezzi strani, che Ginette non aveva mai visto, perché queste tre persone facevano un lavoro particolare: costruivano sedie. I tre seggiolai partiti da Gosaldo, nella fattoria della famiglia Jas di lavoro ne trovarono parecchio. Per lavorare usavano il legno di quercia, pero, ciliegio e castagno che la famiglia possedeva.

Furono molte le sedie costruite nella fattoria dai tre giovani careghete. Ne fecero per la camera dei suoi genitori, per la cucina, e alcune più eleganti, con una bella spalliera, per la sala da pranzo. Quando il tempo era bello lavoravano nel cortile e lì la piccola Ginette poteva ascoltare un’altra lingua, che mai aveva sentito, ma che l’affascinava e che quindi ascoltava volentieri. La lingua che Ginette sentiva di sicuro non sarà stato l’italiano vero, ma l’idioma di Gosaldo e lo skapelamént del Kónža*.

Quando il lavoro nella fattoria della famiglia Jas fu terminato, i tre seggiolai per riconoscenza costruirono tre piccole sedie, che poi furono regalate alle bimbe di casa. Benché siano passati molti anni da allora, quelle seggioline non solo non sono andate distrutte, ma vengono tuttora utilizzate. Una viene usata dal nipotino della signora Ginette e un’altra è tornata a “casa.” Sì, perché in una delle visite fatte a Saint-Marcel, l’allora sindaco Giocondo Dalle Feste ha ricevuto in dono una di quelle piccole sedie, con questa motivazione: «Per riconoscimento di questo lavoro le offro una sedia per il Museo Etnografico di Gosaldo».

Un gesto nobile che dimostra una grande sensibilità nei confronti di coloro che con ingegno avevano saputo inventarsi un mestiere, un’arte che tuttora viene tramandata anche tra i discendenti ormai divenuti francesi. La signora Ginette ha cercato tra le pagine dei suoi ricordi i nomi dei tre careghete di Gosaldo, ma con il passar del tempo qualcosa si è perso. Ora la sedia costruita con il legno della Francia e il savoir-faire italiano fa bella mostra di sé nel piccolo, ma interessante, Museo Etnografico di Gosaldo.

Lina Marcon

Careghte agordini in Valle Padana

* È il gergo dei seggiolai, da loro stessi inventato per potersi esprimere “in segreto”, senza essere compresi dai profani. Lo skapelamént del Kónža nasce dal dialetto, accanto al quale è introdotta una ricca serie di deformazioni lessicali, di metafore e altre figure retoriche. Per fare un esempio, la frase: «Konže era i ronki, Konže era i limbe: coìsi par danùgi perni, fin òdopo l’ultima baru danùge del torónt.» significa: «Seggiolai erano i padri, seggiolai erano i figli: così per molti e molti anni, fin dopo l’ultima guerra mondiale».
(Informazioni tratte dal libro: Skapelamént del Kónža. Gergo dei seggiolai, Gosaldo-Tiser: dizionarietto, a cura di Giocondo Dalle Feste; Gosaldo: Union ladin da Gosàlt, 2003).

Le mille avventure di Antonio Nadalet – seconda parte

Ecco la seconda parte della storia di Antonio Nadalet. La prima è disponibile QUI.

Fu un’emigrazione stagionale: boscaiolo in Austria e Baviera, tuttofare in Svizzera, minatore in Belgio, operaio in Olanda e Francia. Non c’è praticamente lavoro in cui non si sia cimentato e nazione che non abbia visitato. Nel frattempo nacquero altri due figli: nel 1927 mio zio Ferruccio, nel 1928 mia mamma. Avrebbe voluto darle il melodico nome di Aurelie, conosciuto nei Paesi francofoni, ma il solerte impiegato dell’ufficio anagrafe, ligio alle leggi fasciste, lo trascrisse in un improbabile, ma italico, Orelida.

Il nonno comprese che la famiglia e mia nonna, per quanto donna forte ed energica, non potevano privarsi per periodi troppo prolungati della sua presenza. Vinse la ritrosia di lei ad abbandonare la Vena d’Oro e la convinse ad affrontare, tutti insieme, l’esperienza di emigrazione. Il Paese prescelto fu proprio la Francia, ritenuta più idonea ad accogliere una famiglia di italiani. Da solo si recò oltralpe, verificò varie situazioni e opportunità lavorative e alla fine individuò come meta la cittadina di Laifour, a Nord di Charleville Mezieres, nel dipartimento delle Ardenne, al confine con il Belgio. La nonna con tutti i figli lo raggiunse a distanza di qualche mese. Si sistemarono in una piccola ma dignitosa casetta messa a disposizione dalla grande industria siderurgica presso cui il nonno lavorava come operaio. Condussero una vita modesta ma serena e senza privazioni. Il nonno si fece apprezzare anche per la padronanza con le lingue: parlava correntemente l’inglese, il tedesco, lo spagnolo, oltre al francese e all’italiano. Questo lo portò ad avere spesso un ruolo importante nel gestire l’organizzazione delle attività lavorative, dove potè rapportarsi con le maestranze multietniche e con la numerosa comunità spagnola direttamente nelle rispettive lingue. A casa, la sera, l’unica parlata consentita era invece il dialetto bellunese.

Laifour, primi anni Trenta. La famiglia di Antonio e Maria con i fligli Ester, Angelo, Ferruccio e Orelida. All’epoca non era ancora nato l’ultimogenito, Ottorino.

La famiglia si integrò molto bene nella nuova vita e i figli frequentarono con profitto la scuola francese. Furono anni ricordati con molto piacere e allietati dalla nascita, nel 1934, dell’ultimo figlio: mio zio Ottorino. A interrompere la loro serenità sopraggiunse il secondo conflitto mondiale. Laifour era posta all’estremità settentrionale della linea Maginot, la grande struttura realizzata dai francesi per difendere i confini dagli storici nemici tedeschi. Nel 1939, temendo l’attacco tedesco, la Francia si armò. Non si ipotizzava, però, che l’invasione potesse avvenire da Nord, attraverso l’Olanda e il Belgio. Mia mamma ricorda ancora in modo nitido il giorno in cui le lezioni, a scuola, vennero improvvisamente interrotte e i ragazzi mandati di corsa a casa. Nel frattempo gli altoparlanti, nelle vie, annunciavano che di lì a breve sarebbero potuti arrivare gli invasori. Vennero concesse alla popolazione due ore per riunire le famiglie, raccogliere lo stretto indispensabile e raggiungere un piazzale. Lì sarebbero stati smistati e destinati, come profughi di guerra, a varie regioni della Francia lontane dal confine. La meta fissata per la famiglia Nadalet fu la cittadina di Penvenan, in Bretagna, non distante da Brest.

L’impossibilità di comunicare fu un dramma nel dramma.

Il tragitto venne compiuto con camion militari e treni allestiti allo scopo. Si può immaginare la confusione e lo stato d’animo della gente. Ad aggravare la situazione c’era l’assenza del nonno, trattenuto dall’azienda per imballare e trasferire, in fretta e furia, tutti i macchinari in un altro stabilimento nei pressi di Tolosa, all’altro capo della Francia. L’impossibilità di comunicare fu un dramma nel dramma.
Una volta partiti, i fuggiaschi compresero subìto che le colonne militari e i convogli di treni erano facile preda degli attacchi dei caccia tedeschi. Assistettero all’esplosione dei camion che li precedevano. Le linee ferroviarie vennero sistematicamente interrotte. Il consiglio fu di procedere a piedi, lontano dalle strade, dormendo nelle chiese o nei fienili isolati ed evitando di formare grossi assembramenti. Riposarono nella grande Cattedrale di Reims e nelle principali chiese e monumenti del Nord della Francia.

Questa esperienza, probabilmente drammatica, vista con gli occhi di un bambino assume un altro aspetto. Nei ricordi di mia mamma non traspare angoscia o dolore. Il suo racconto è una sorta di avventura compiuta con i fratelli e con tanti altri ragazzi. Dopo venti giorni raggiunsero la Bretagna. L’avanzata tedesca fu fulminea e tutto il Nord della Francia venne occupato rapidamente. Di lì a pochi giorni furono in Bretagna. Il nonno si riunì alla famiglia solo a distanza di un altro mese, dopo aver vagato, in pena, alla cieca, per tutto il Paese. Ora erano finalmente tutti insieme. Inizialmente vennero ospitati, con tanti altri profughi, in un collegio, colonia marina. Poi ebbero a disposizione una porzione di casa in cui mangiare e trascorrere la giornata, per rientrare a sera al ricovero comune. A parte questo, la vita in Bretagna non si rivelò così male e il clima fu mite. La parola fame nemmeno concepita, perché la terra era generosa e il mare, con le sue incredibili basse maree, rappresentava un self-service in cui approvvigionarsi di ogni prelibatezza. Si pranzava con ostriche, granchi poro e astici. Mancava solo la polenta!

Qui scoprirono che la loro casa, lasciata in fretta due anni prima, era stata completamente saccheggiata e svuotata.

Il nonno, da cittadino italiano, era un alleato dei tedeschi e per di più parlava la loro lingua. Tutto questo gli garantì una condizione di privilegio sul lavoro. La famiglia, pur consapevole che la situazione era provvisoria, trascorse due anni sereni. Ogni cosa però ha una fine e nel 1941, al compimento del ventesimo anno, mio zio Angelo fu soggetto agli obblighi militari. Gli accordi tra i Paesi dell’Asse prevedevano che l’arruolamento di cittadini all’estero avvenisse nel Paese di origine. I tedeschi lo invitarono pertanto a raggiungere Belluno. A questo punto, però, la famiglia decise di seguirlo e far ritorno in patria. Dovettero prima passare per Laifour, per perfezionare le pratiche per il rientro. Qui scoprirono che la loro casa, lasciata in fretta due anni prima, era stata completamente saccheggiata e svuotata. Compresero anche che le condizioni della Francia, e dell’intera Europa, non erano quelle dell’isola felice Bretagna. La fame era una presenza costante, ma a dare speranza c’era la prospettiva di avere alla Vena d’Oro una casa accogliente e dei terreni da coltivare per sfamarsi.

Lo zio, nel frattempo, arrivato a Belluno venne prontamente arruolato nella Brigata Cadore e inviato in Bosnia e Montenegro. Lo rividero solo nel 1946. Il successivo rientro della famiglia fu complesso. Una volta a Belluno non poterono ritornare nella loro abitazione, data in affitto insieme ai terreni. Soltanto alla fine dell’anno potevano riaverne la disponibilità. In più, non potevano nemmeno contare sul raccolto di quella stagione. Si sistemarono provvisoriamente all’albergo al Ponte della Vittoria, in attesa del trasferimento dei loro risparmi, trattenuti alla frontiera e inviati a Roma. Li riebbero solo a distanza di parecchi mesi, abbondantemente decurtati per non meglio precisati oneri e prelievi del regime. Il nonno, per quanto avanti con gli anni, non si perse d’animo e, memore del suo passato di boscaiolo teleferista, raggiunse in piena guerra la Carinzia per la sua ultima esperienza di emigrazione. Pian piano le cose si sistemarono, ritornarono in possesso della loro casa alla Vena d’Oro e cominciarono a coltivare la campagna. Con l’armistizio dell’8 settembre del 1943, lo zio Angelo, alla pari di molti commilitoni, si aggregò con la Brigata Garibaldi al fianco dei partigiani di Tito. Al rientro in patria, a guerra finita, venne mandato, senza neanche passare per casa, in Sicilia, a sedare i moti indipendentisti sull’isola. Al ritorno a Belluno cercò un lavoro in patria.

Le condizioni dell’Italia erano drammatiche e trovare un impiego era un miracolo. Partì allora per le miniere di carbone del Belgio, non lontano da Laifour. Qui sposò una ragazza figlia di emigranti veronesi. Poi si trasferì in Francia, per andare a vivere definitivamente nel posto in cui aveva trascorso la sua infanzia e la gioventù. Nel corso degli anni fu sempre un punto di riferimento, anche sindacale, per i numerosi emigranti italiani in Francia e in Belgio, dove partecipò ai soccorsi delle vittime della tragedia di Marcinelle. Anche lo zio Ferruccio, spirito libero e animo coraggioso, non riuscì ad ambientarsi in Italia. Già alla fine del 1945, da clandestino, attraversò le Alpi in modo avventuroso. Venne rinchiuso in un campo di concentramento dove sperimentò l’odio verso gli italiani. Il ricordo di una Francia che l’aveva accolto generosamente vent’anni prima svanì. Seppe comunque riscattarsi e raggiungere risultati professionali di tutto rispetto. Si stabilì a Salindres, in Occitania, vicino alla città di Nimes. Mio zio Ottorino, dopo aver lavorato in tutto il Nord Italia, si stabilì in provincia di Bergamo, sul Lago d’Iseo. Mia mamma e la sorella Ester non abbandonarono più Belluno.

Il nonno Antonio si spense serenamente nella sua casa alla Vena d’Oro nel 1958, tre mesi dopo la mia nascita. Fino alla fine manifestò i segni della malaria contratta quarant’anni prima in Perù. Avrei tanto desiderato conoscerlo personalmente. Avrei voluto sentire i racconti che faceva la sera a mia mamma, seduta sulle sue ginocchia. Racconti di mare con onde alte come montagne, di grattacieli immensi, di scimmie impertinenti, di pappagalli multicolori e di serpenti lunghi dieci metri. Nelle sue storie mai un accenno alle esperienze difficili e ai sacrifici. Una vita affrontata con entusiasmo, con la mente aperta al mondo, con il cuore rivolto a Belluno. Mia nonna Maria, presenza fondamentale e fonte di equilibrio e serenità per tutti, lo seguì undici anni dopo. Entrambi riposano insieme nel cimitero di Levego.

Lorenzo Pertoldi