Author Archive

Il girovagare del perito minerario

Frequentai le scuole elementari a Voltago e dall’autunno del 1949 fino all’aprile del 1952 feci il caregheta, due anni a Busto Arsizio e uno a Brescia. A Busto Arsizio ebbi modo di assistere al primo concerto di quello che sarebbe diventato uno dei più grandi violinisti italiani: Uto Ughi. All’epoca aveva otto anni.

Nel giugno 1952, da privatista, feci l’esame di terza avviamento, a settembre sostenni l’esame di riparazione e fui promosso. Subito dopo sostenni anche l’esame integrativo e potei esser ammesso a frequentare la prima classe dell’Istituto Minerario*.

Quando il responsabile vide che provenivo dall’Istituto “Follador” di Agordo mi disse che potevo considerarmi assunto.

Il 10 luglio 1957 mi diplomai e cinque giorni più tardi incominciai a lavorare come capo fabbrica in una fornace per materiali refrattari a Schio, dove rimasi fino alla fine del 1960. Dopo il servizio militare nel 7° Alpini, avendo sempre avuto la passione di conoscere il mondo fuori dall’Italia, decisi di tentare con l’Agip. Mi recai alla sede di San Donato Milanese e mi presentai all’ufficio personale dicendo che ero stato da loro convocato – non era vero – per un’eventuale assunzione. Mostrai copia del diploma e quando il responsabile vide che provenivo dall’Istituto “Follador” di Agordo mi disse che i periti agordini erano richiesti dall’azienda e per quanto lo riguardava potevo considerarmi assunto.

Nel pomeriggio avevo già fatto la visita medica e il 1° febbraio 1961 ero a Gela, con la qualifica di geologo di cantiere. Fui aggregato a un impianto di perforazione che operava in provincia di Enna. Passò un anno e partii per la Libia, con un contratto biennale che prevedeva tre mesi di lavoro nel deserto alternati a venti giorni di riposo in Italia. Alla conclusione, altro contratto biennale in Nigeria: dieci mesi di lavoro e venti giorni in Italia. Nel giugno 1965 dovetti interrompere per motivi di salute: avevo la malaria.

Trascorsi qualche mese in Italia, poi tornai in Libia, ricoprendo vari incarichi, fino al’11 settembre 1971. Quel giorno mi fu comunicato che il governo libico aveva decretato nei miei confronti un ordine di espulsione. Mi concedevano quarantotto ore di tempo per andarmene.

Giovanni Rivis (a destra) assieme a due colleghi (il primo a sinistra di Taibon, quello al centro un milanese) nel deserto libico, 1962
Giovanni Rivis (a destra) assieme a due colleghi (il primo a sinistra di Taibon, quello al centro un milanese) nel deserto libico, 1962

Ripartii il giorno successivo. Rimasi in Italia per circa due anni, operando in diverse piattaforme nel Mediterraneo. Dopodiché ricominciai a fare la valigia: Indonesia, Congo, Gabon, Ghana, Somalia, Spagna, Costa D’Avorio, sempre come responsabile di perforazione. Mentre ero in Costa d’Avorio, l’Agip mi disse che ero stato richiesto dalla Texaco-Shell per andare a perforare un pozzo al largo dell’isola di Terranova, in 1600 metri di acqua. Era il 1979 e all’epoca nessuno aveva mai perforato pozzi in simili profondità, era un record mondiale. Accettai l’offerta, contento che un agordino fosse stato richiesto dagli americani per aiutarli in una cosa nella quale loro si erano sempre ritenuti dei maestri.

Il pozzo iniziò a fine aprile e terminò a fine settembre. Gli ultimi dodici anni di permanenza all’Agip li passai ancora in giro per il mondo: Grecia, Yemen, Tanzania, Egitto, Cina, Algeria, Libia, fino a quando mi ritirai nel 1994. Da lì in poi continuai come consulente, sempre in paesi stranieri, fino al 2012.

Giovanni Rivis

*La Scuola Mineraria di Agordo, fondata nel 1867 e divenuta poi Istituto Tecnico Minerario “Umberto Follador”.

Provincia di Enna, 1961. L’impianto di perforazione dell’Agip in cui lavorava Giovanni Rivis.

Il caregheta vagabondo

A lavorare iniziai a tredici anni, facevo il contadino, ma siccome mio padre si teneva tutti i soldi, dopo due anni dissi basta. Venne a casa mia una persona di Gosaldo e mi chiese se volessi andare con lui a fare il caregheta. Gli risposi subito di sì. Mio padre firmò il contratto e andai via per cinque mesi.

Il caregheta mi pagò il doppio rispetto a quanto pattuito, perché ero stato bravo. Rimasi un po’ a casa e poi ottenni il contratto per andare in Francia, a fare ancora il caregheta, questa volta con mio fratello, vent’anni più vecchio di me. Dopo due anni di lavoro gli chiesi un aumento della paga, ma lui replicò che mi dava il salario degli stranieri: «Non se ne parla di aumenti», fu la sua risposta.  

Mio fratello venne a sapere che ero lì e mi mandò i gendarmi, così dovetti far ritorno a casa.  

Allora rientrai in Italia, raccolsi i miei attrezzi e tornai in Francia a fare il caregheta per conto mio. Lavorai tre anni nel Département de l’Aveyron. Dopo un po’, però, mio fratello venne a sapere che ero lì e mi mandò i gendarmi, così dovetti far ritorno a casa.  

Rimasi un’estate, poi in autunno mio cugino mi chiese di accompagnarlo in Toscana, a Castellina in Chianti.  
Il vino era buonissimo e mandavo le lettere a mia moglie timbrandole con il bicchiere.  
Restammo per quatto o cinque mesi. In una famiglia costruimmo dodici sedie. Quando videro quelle che avevo fatto io rimasero colpiti. C’erano due fratelli, presero una sedia ciascuno e girarono tutto il paese per farle vedere, da quanto erano belle. E così tutti iniziarono a volerle. 

Poi mi venne offerto un lavoro in galleria a Belluno e così per due anni andai a fare il minatore. 
Successivamente mi trasferii in Svizzera, nel Canton Vallese, sempre in galleria. Ma questa era piena d’acqua e gli stivali che mi diedero erano tutti bucati. Cambiai lavoro. 

Qualche sedia l’ho fatta ancora, soprattutto da mandare in Svizzera.

Andai a Neuchâtel a cercare impiego come muratore, visto che di sera avevo frequentato la scuola per muratori.  
Trovai occupazione e rimasi due o tre anni. Stavo bene. Al termine del contratto, rientrai in Italia per un po’ di tempo, per poi tornare nel Vallese, sempre a fare il muratore, per altri tre anni.

Lavorai anche a Milano e a Lodi, per cinque anni, e al Brennero a costruire l’autostrada. Lassù mi trovai benissimo, anche se sgobbavo dodici ore di notte.  

Poi la salute mi impose di tornare a casa e fare domanda di pensione. Ma qualche sedia l’ho fatta ancora, soprattutto da mandare in Svizzera. E quelle che ho fatto per me, dopo sessant’anni sono ancora perfette.

Giovanni Stramare

Giovanni Stramare
Giovanni in posa con una sedia da lui realizzata

Il riposo forzato di un giramondo

Si può dire che la mia vita da emigrante sia cominciata quando ancora facevo la terza elementare. All’epoca, infatti, per ragioni belliche la mia famiglia dovette lasciare Ferrara, dove sono nato, e spostarsi in una frazione di Mel, da dove era originaria mia mamma.

Mia mamma, per sua buona sorte, aveva ereditato dai genitori una piccola e modestissima casetta, e così ci trovammo a vivere nel Bellunese. Completate le elementari e le medie, per un paio di anni feci l’aiutante garzone nella fucina da fabbro che mio padre aveva immediatamente allestito appena arrivato da Ferrara. Nel 1953, senza aver ancora compiuto diciott’anni, ebbi l’occasione di andare a lavorare in Belgio, tra Namur e Charleroi, in una grande miniera di carbone.

Mi trasferii in Francia, nell’Isère, in una miniera di ferro, dove lavorai fino alla fine del 1957.

A settecentocinquanta metri di profondità, ricordo che si lavorava indossando un leggero giubbotto nero, per via dell’alta temperatura. Rimasi per circa due anni e poi, assieme a un mio amico e compagno di lavoro, un ragazzone polacco, mi trasferii in Francia, nell’Isère, in una miniera di ferro, dove lavorai fino alla fine del 1957.

Attratto da maggiori guadagni, lasciai la Francia per la Svizzera, e fino alla fine del 1959 feci il minatore nel Canton Grigioni, per poi essere promosso assistente. Nel 1959 mi sposai, mi portai appresso mia moglie e nacque Thusis, la nostra prima figlia. Terminati i lavori del complesso idroelettrico dei Grigioni, nel 1960 fui trasferito con tutta la mia squadra nel Canton Vallese, precisamente nella Valle del Saas, dove restai fino alla tragedia di Mattmark*.

Canton Vallese, inizi degli anni ’60. Claudio Pocaterra è il primo da destra, in piedi

All’epoca della tragedia, il nostro cantiere era terminato. Lasciai quindi l’Europa e fui assunto da una compagnia americana, la “Kaiser Corp”, con sede a San Francisco, in California. Con la Kaiser andai nella Guyana Venezuelana, per un enorme progetto idroelettrico, quello del Guri, ancora oggi il terzo impianto al mondo per capacità di produzione elettrica. Il mio contratto terminò nel giugno del 1968.

Dopo un paio di settimane che ero a casa, inaspettatamente mi convocò l’Impresit, con la proposta di recarmi in Colombia. Anche in questo caso si trattava di un progetto idroelettrico, tutto nel sottosuolo. In Colombia mi confermarono la promozione a capocantiere. Completata l’opera, nel gennaio del 1970 partii per l’Iran con un nuovo incarico, sempre alle dipendenze dell’Impresit-Condotte acqua.

Nel 1973 mi mandarono per un breve periodo a Gedda, sul Mar Rosso, in Arabia Saudita, dove era in costruzione un grosso centro di telecomunicazioni. Nel novembre dello stesso anno, eccomi anche in Indonesia, sull’isola Sulawesi, per conto della So.im.i., incaricata dalla Dravo Corp. Americana di reclutare personale. Vicino all’arcipelago delle Molucche erano in costruzione tre altiforni per la fusione primaria di minerali, una centrale termoelettrica e un complesso idroelettrico per la produzione di energia.

Isola Sulawesi. Al centro Claudio Pocaterra. A sinistra un lavoratore italiano e a destra un indigeno malese.

Il progetto fu completato dopo quattro anni e mezzo, e al mio rientro in Italia trovai già una nuova opportunità di partenza, ancora per l’Iran, dove la Condotte d’Acqua di Roma stava costruendo il colossale porto di Bandar Abbas. Ero nel cantiere da pochi mesi quando scoppiò la rivoluzione che portò alla fuga dello scià e all’instaurazione del nuovo regime di Khomeini. Per ragioni di sicurezza, il cantiere fu fermato e tutti noi italiani rimpatriati.

Appena rientrato a casa, mi ingaggiò di nuovo la So.im.i., e tornai quindi nella Guayana Venezuelana, a Puerto Ordaz, per la costruzione di due impianti sidero-metallurgici; quindi in Libia, a Tobruk, per la costruzione di una rete fognaria all’interno della città stessa, e infine in Iraq, sempre come capo cantiere, per la costruzione di una grande area industriale.

Me ne stetti a casa in convalescenza giusto un paio di mesi, perché a sorpresa vennero a trovarmi due ingegneri di vecchia conoscenza.

Proprio al termine di questo cantiere, un tumore laringeo mi costrinse a rientrare a Belluno, per sottopormi a un’operazione alla gola. Me ne stetti a casa in convalescenza giusto un paio di mesi, perché a sorpresa vennero a trovarmi due ingegneri di vecchia conoscenza. Volevano propormi, se me la sentivo, di andare nell’Oman a dare avvio a un cantiere per una lunga diga di contenimento. Mi stavo rimettendo in forma e volentieri accettai l’incarico. Anche qui portai a termine il lavoro, sempre come capo cantiere, con una miriade di maestranze: pakistane, indiane e cingalesi. Lo staff dirigenziale, però, era tutto italiano, per la maggior parte bellunese.

Agli inizi del 1987 mi fu proposto un nuovo lavoro in Kenya, sul lago Turkana, un bel progetto per la FASO. Purtroppo, però, le mie condizioni fisiche cominciavano a deteriorarsi e all’età di cinquantadue anni mi vidi costretto, mio malgrado, ad entrare nel novero dei pensionati invalidi. Confesso con sincerità che, abituato com’ero ad attività impegnative nei cantieri, anche se da emigrante, per i primi tempi fu molto difficile affrontare la triste realtà di vedermi inattivo e pensionato.

Claudio Pocaterra

* Tragedia avvenuta il 30 agosto del 1965, quando una parte del ghiacciaio dell’Allalin si staccò e andò a travolgere le sottostanti baracche dei lavoratori. Le vittime furono ottantotto, di cui cinquantasei di nazionalità italiana.

Una bambina, una piccola sedia, una storia

Era la prima metà del’900 e nel piccolo paese di Vénérieu, vicino a Saint-Marcel-Bel-Accueil (oggi gemellato con Gosaldo), nel dipartimento dell’Isère, in Francia, in una fattoria viveva Ginette Jas con la sua famiglia. Ginette allora era una bambina e un giorno alla fattoria arrivarono tre persone che venivano da lontano. Venivano dall’Italia e stavano cercando lavoro.

Con loro avevano degli attrezzi strani, che Ginette non aveva mai visto, perché queste tre persone facevano un lavoro particolare: costruivano sedie. I tre seggiolai partiti da Gosaldo, nella fattoria della famiglia Jas di lavoro ne trovarono parecchio. Per lavorare usavano il legno di quercia, pero, ciliegio e castagno che la famiglia possedeva.

Furono molte le sedie costruite nella fattoria dai tre giovani careghete. Ne fecero per la camera dei suoi genitori, per la cucina, e alcune più eleganti, con una bella spalliera, per la sala da pranzo. Quando il tempo era bello lavoravano nel cortile e lì la piccola Ginette poteva ascoltare un’altra lingua, che mai aveva sentito, ma che l’affascinava e che quindi ascoltava volentieri. La lingua che Ginette sentiva di sicuro non sarà stato l’italiano vero, ma l’idioma di Gosaldo e lo skapelamént del Kónža*.

Quando il lavoro nella fattoria della famiglia Jas fu terminato, i tre seggiolai per riconoscenza costruirono tre piccole sedie, che poi furono regalate alle bimbe di casa. Benché siano passati molti anni da allora, quelle seggioline non solo non sono andate distrutte, ma vengono tuttora utilizzate. Una viene usata dal nipotino della signora Ginette e un’altra è tornata a “casa.” Sì, perché in una delle visite fatte a Saint-Marcel, l’allora sindaco Giocondo Dalle Feste ha ricevuto in dono una di quelle piccole sedie, con questa motivazione: «Per riconoscimento di questo lavoro le offro una sedia per il Museo Etnografico di Gosaldo».

Un gesto nobile che dimostra una grande sensibilità nei confronti di coloro che con ingegno avevano saputo inventarsi un mestiere, un’arte che tuttora viene tramandata anche tra i discendenti ormai divenuti francesi. La signora Ginette ha cercato tra le pagine dei suoi ricordi i nomi dei tre careghete di Gosaldo, ma con il passar del tempo qualcosa si è perso. Ora la sedia costruita con il legno della Francia e il savoir-faire italiano fa bella mostra di sé nel piccolo, ma interessante, Museo Etnografico di Gosaldo.

Lina Marcon

Careghte agordini in Valle Padana

* È il gergo dei seggiolai, da loro stessi inventato per potersi esprimere “in segreto”, senza essere compresi dai profani. Lo skapelamént del Kónža nasce dal dialetto, accanto al quale è introdotta una ricca serie di deformazioni lessicali, di metafore e altre figure retoriche. Per fare un esempio, la frase: «Konže era i ronki, Konže era i limbe: coìsi par danùgi perni, fin òdopo l’ultima baru danùge del torónt.» significa: «Seggiolai erano i padri, seggiolai erano i figli: così per molti e molti anni, fin dopo l’ultima guerra mondiale».
(Informazioni tratte dal libro: Skapelamént del Kónža. Gergo dei seggiolai, Gosaldo-Tiser: dizionarietto, a cura di Giocondo Dalle Feste; Gosaldo: Union ladin da Gosàlt, 2003).

La coperta rossa

Fu parecchi anni fa, la prima volta che controllai il ripostiglio del pronto soccorso in una miniera di rame dello Zambia. Là, tra bende, disinfettanti e lacci emostatici, spiccava il color rosso scarlatto di una dozzina di coperte ben piegate in un involucro di plastica trasparente. Il mio primo pensiero fu che era logico che le coperte fossero rosse, sarebbero servite a coprire dei feriti e il colore avrebbe mascherato quello del sangue.

Ero giovane e non avevo mai visto un incidente; ne avevo sentito sì parlare, ed ero anche – a parer mio – preparato all’eventualità, ma pensavo che fosse una cosa così lontana da non preoccuparsene. Purtroppo non passò tanto tempo prima che anch’io vivessi l’ansia, il terrore e la disperazione di un’incidente e vedessi la coperta rossa diventare di un rosso cupo, man mano che si inzuppava del sangue di un amico.

Il giorno era uno come tanti altri, anche se lo ricorderò per sempre. Dovevamo controllare una falda freatica a circa settecentocinquanta metri di profondità. Eravamo in tre e percorrevamo un piccolo cunicolo; io ero in testa al gruppo, dietro di me veniva Robert e più attardato Lesilie, che era più anziano di noi. Con Robert eravamo come fratelli; spesso parlavamo di lavoro e di miniera: lui mi diceva che non voleva passare tutta la vita in miniera come aveva fatto suo padre, che a cinquant’anni era già un uomo finito. Mi parlava della tosse incessante del suo genitore, tosse che era il frutto di tanti anni passati tra la polvere e l’umidità.

«Ancora poco tempo – proclamò – e poi di miniera non si parlerà più».

Quella mattina, negli spogliatoi, mentre ci stavamo infilando i calzoni di lana e gli stivali, era moto allegro. Mi disse che aveva avuto un’offerta di lavoro da geologo nelle prospezioni, era felice. «Ancora poco tempo – proclamò – e poi di miniera non si parlerà più».

Uno schianto, la roccia che cadeva, un grido, io che mi giro con il cuore in gola. Lesilie che urla, polvere secca che entra negli occhi e nella gola. Tra le rocce cadute giace l’amico che fino a pochi attimi prima mi parlava, l’elmetto sventrato in fianco, il sangue che cola dalla fronte. La luce della pila non basta, dato che gli occhi sono coperti di polvere impastata di lacrime e di sudore nella frenesia di rimuovere i massi caduti. La corsa fino al telefono più vicino, lo strillo della sirena, la squadra di soccorso e l’amico fraterno sorretto solo dalla fibra dei suoi ventiquattro anni, avvolto nella coperta rossa che già si inumidiva di sangue.

All’infermeria è già arrivato un medico, che dopo un sommario esame mi guarda scuotendo la testa: è la fine. Un’altra giovane vita si era immolata nella miniera, ed era la vita di un amico. Lui non avrebbe avuto la tosse come suo padre, il destino non gliene aveva dato il tempo; non avrebbe sofferto di silicosi, non si sarebbe svegliato di notte senza respiro.

Mi avvicinai al lettino, le mie dita tremanti accarezzarono il corpo ormai senza vita avvolto nella coperta rossa.

Rinaldo Tranquillo

Rinaldo in Africa
Rinaldo Tranquillo in Zambia