Category “Vite migranti”

Storie di emigranti bellunesi

Salzen – Urussanga. Storia della famiglia Zanin

Amedeo ed Elisa con i figli

Questo è ciò che conosciamo della storia della famiglia di Avelino Zanin
Francesco e Caterina Zannin, entrambi con lo stesso cognome, vivevano a Salzen, nel comune di Sovramonte.
Vennero in Brasile nel 1881 in cerca di migliori opportunità e nuove prospettive di vita e di lavoro.
Quando arrivarono, non avevano destinazione. Erano in cerca di terra e optarono per la città di Urussanga, nello Stato di Santa Caterina, sud del Brasile. Si stabilirono nel quartiere chiamato “Stazione”, dove era presente la stazione del treno.
Ebbero nove figli: Amadeo, Fortunato, Giovanni, Pietro, Carlotta, Libera, Elisa, Maria e Alessandro.
Dopo la morte di Francesco, Caterina e i bambini si spostarono da un’altra parte. Avevano acquisito nuove terre alla “Colonia Rio Caeté”, sempre ad Urussanga.
Il primo figlio di Francesco e Caterina, Amadeo, si sposò con Elisa Marcon. La coppia ebbe dodici bambini: Francisco, Jose, Luis, Maria, Giovanni, Antonio, Angelo, Avelino, Catherine, Albina, Otavio e Ida.
Amadeo lavorò nel settore delle costruzioni in pietra: costruiva le fondamenta delle case. Inoltre, contribuì all’edificazione della chiesa di Santo Antonio a Rio Caeté e del ponte ferroviario a Laguna, un’importante città portuale a Santa Catarina.

Successivamente si dedicò all’agricoltura e al mulino di famiglia, dove si macinavano grano e mais. Fu Avelino, uno dei figli di Amadeo, ad assumersi la responsabilità di portare avanti la gestione della proprietà del padre.

Si sposò con Maria Tomasi e successivamente lavorò come minatore di carbone presso la “Companhia Carbonífera Urussanga (CCU)”. A quel tempo tanti coloni discendenti degli italiani lavoravano nell’estrazione del carbone, era la principale attività economica di Urussanga e della regione. Anni dopo, Avelino lavorò come falegname nella stessa CCU, fino alla pensione.
Fece anche l’agricoltore nella sua proprietà, come da tradizione dei discendenti degli immigranti nel sud del Brasile.

Luciane Zanin e Luiz José Zanin

Lidia Nerobuto di Lentiai

Lidia Nerobuto

Sono nata in Istria nel 1938, precisamente a Castelnuovo (ora Podgrad, Slovenia) a quel tempo Italia. I miei genitori lavoravano in quel paese come carbonai. Siamo dovuti tornare nel paese natio di mamma e papà, a Marziai di Vas, perché a causa della guerra non c’era più cibo per sfamarci e per il pericolo di essere uccisi.
Insieme alle mie due sorelle abbiamo seguito i genitori, nel frattempo diventati taglialegna, nei boschi fino al 1957, dopodiché andai a servizio in una famiglia di Cortina dove, nel 1958, conobbi il mio futuro marito che era di Lentiai.

Nello stesso anno emigro in Germania a Uln-meilbronn, vicino a Stoccarda, per poi trasferirmi a nord nel 1960, nel paese di Emden. Infine, nell’inverno del ’60, a Mannhein, sempre come dipendente nel settore del gelato.

A questo periodo fa riferimento la foto, scattata il giorno di Natale del 1960.
Rientrata in Italia nella primavera del ’61 trovo lavoro come cuoca, attività che svolgo dal ’61 al ’63.
In questo intervallo di tempo mi sposo, nel 1962, con Edoardo Zanella (Ado) e, nel 1963, nasce nostra figlia Milena, a Lentiai, dove nel frattempo ci siamo trasferiti.
Qui svolgo l’attività di barista per qualche anno e dal ’70 al ’78 lavoro in una fabbrica del posto.
Nel 1993 viene a mancare mio marito. Ancora oggi vivo nel mio caro paese di Lentiai vicina a mia figlia e mio genero Pierpaolo.

Lidia Nerobuto

Agapito Conz, la sua casa è diventata un museo

La bibbia di Agapito Conz

Il giornale brasiliano on line “O florence” ha dato notizia qualche settimana fa dell’inaugurazione a Flores de Cunha, nel Rio Grando do Sul, del museo dedicato alla famiglia Conz, originaria di Campel di Santa Giustina.
Era il lontano dicembre 1881 quando Agapito Conz, classe 1842, lasciò il paese natio con la moglie Antonia De Gol e i loro figli Giobatta, Alfonso, Virginia e Rosalia per imbarcarsi a Genova sul vapore Colombo che li portò al di là dell’oceano nei primi giorni del nuovo anno. Si insediarono in un lotto della traversa Garibaldi, diventata in seguito il quartiere Videiras di Flores da Cunha. Qui Agapito, che oltre ai lavori nei campi sapeva lavorare il legno e costruire botti, si costruì una casetta di araucaria che fu però distrutta dopo solo un anno da una violenta tempesta. Decise allora di costruirsi una dimora più solida, la stessa che ospitò poi il figlio Tarsilio, il nipote Diogene e il bisnipote Orfeo, presente all’inaugurazione del marzo scorso, che vi visse nove anni, dagli otto ai diciassette.

In realtà questa costruzione ospitava solo le camere da letto, perchè era molto comune che gli emigranti tenessero separati gli edifici che ospitavano la cucina e, appunto, le stanze per dormire.

“Così io, quando pioveva, dovevo prendere l’ombrello se volevo andare a mangiare” ha ricordato Orfeo durante la cerimonia, nel corso della quale ha tenuto anche a sottolineare che il bisnonno Agapito fu consigliere comunale per distretto di Nova Trento. Il museo, che si presenta con le caratteristiche di esposizione etnografica, ospita mobili e oggetti delle prime generazioni di emigranti: dispensa, letti, articoli per la casa, attrezzi per il lavoro di falegname, per quello agricolo e vinicolo, oltre ad una bellissima bibbia (nella foto)

Luisa Carniel

«In Belgio ci sono andato per avventura». Questa è la storia di Antonio Fistarol

Antonio Fistarol

In Belgio ci sono andato per avventura. A quel tempo – era il giugno 1947 e non avevo nemmeno vent’anni – vivevo in città a Belluno e imparavo a fare il calzolaio. Con un amico, guardando sui muri abbiamo visto che avevano affisso dei manifesti in cui chiedevano di andare a lavorare in miniera e promettevano un sacco di cose. Qui c’era miseria e perciò abbiamo deciso di andare. Tanto più che a quel tempo non eravamo nemmeno sicuri che al di là delle nostre montagne ci fosse qualcosa. Ci sembrava un’avventura. Siamo partiti tramite la Camera del lavoro di Belluno.
Era di domenica, ad accompagnarci c’era un cadorino un po’ più anziano di noi, ma nemmeno lui era troppo esperto. A Padova, aveva guardato gli orari degli arrivi anziché quelli delle partenze e così ci siamo trovati a correre da un binario all’altro. Il treno non aveva carrozze normali, erano carrozze per le merci. Abbiamo viaggiato di notte, con un po’ di paglia per terra. A Milano ci hanno sistemati alla stazione Centrale. Sotto i binari c’erano degli alloggiamenti con letti a castello. Dovevamo aspettare la visita medica. Non sono arrivati subito, siamo rimasti più di una settimana in attesa, con la paura che ci scartassero, invece… i medici ci hanno detto: «Oh, che atleti, e vanno a lavorare in miniera…». Mi hanno perfino chiesto se sapevo correre in bicicletta.
Siamo partiti alla sera su un treno. È passata una persona, ci ha guardati e ha detto: «Questi due non li mando a… – non ricordo che nome ha detto –, lì le miniere sono vecchie e pericolose, c’è la polvere e sono malsane. Li mando dove ci sono le miniere moderne» e siamo finiti nel Limburgo, ai confini con l’Olanda, era un bel posto. Abitavamo in una cantina, così la chiamavano. C’erano la mensa, il bar e le casette dove eravamo ospitati.

Il primo giorno non avevo nessuna idea di come fosse la miniera. Non se ne parlava nemmeno e nessuno sapeva cosa aspettarsi. Siamo scesi fino a 700 metri dentro a un ascensore grandissimo, nel quale caricavano anche i carrelli, tutti insieme, pigiati. Una volta arrivati, qualcuno ci ha condotti dentro il filone, ci ha messo la pala in mano e un demolitore e così è cominciata. Dentro i cunicoli bisognava strisciare carponi e portarsi appresso il motopicco con un rotolo di gomma per l’aria compressa.

Le uniche parole di tedesco che conoscevo erano: “wohin gehst du”, che significa “dove vai”. Ricordo che mentre camminavo nel cunicolo ho sentito chiamare: «Italienisch, wohin gehst du?». Era un tedesco. Lì, infatti, c’erano i prigionieri tedeschi che lavoravano. Si riconoscevano perché la loro lampada aveva un cerchio rosso. Quella dei prigionieri politici, invece, aveva un cerchio blu. Abbiamo cominciato a cavare il carbone con il motopicco e con la pala lo facevamo scivolare nel nastro che lo portava fuori dalla taglia. Vicino a me c’era uno più vecchio, uno che può essere definito un “cattivo maestro”: faceva un buchetto nel carbone, si rannicchiava lì, riparato dall’aria, e diceva: «Basta, basta, che cosa fai? Basta! Abbiamo guadagnato i soldi per noi e anche per il padrone». Poi, però, arrivava il capo arrabbiato, perché nella taglia ognuno aveva un pezzo da finire, segnato col gesso su un sostegno dell’armatura. Quando passava il capo il filone doveva essere vuoto completamente. Si levava il carbone e poi si doveva armare il soffitto, altrimenti crollava. Dopodiché misuravano e ti pagavano in base ai metri cubi di carbone che avevi asportato. Ricordo anche che questo collega più anziano diceva spesso: «L’Italia ci ha venduti per un sacco di carbone», ma io non lo sapevo ancora che c’era stato questo accordo tra il nostro Paese e il Belgio. Non tutti, comunque, ci rimanevano in miniera. C’era chi aveva paura e quelli che non volevano più lavorare li mettevano addirittura in carcere, perché avevano rotto il contratto. Ricordo uno di Nogarè che è stato tre mesi in prigione, ti punivano così.

Io, però, a spalare carbone sono rimato poco. Mi hanno spostato nel turno di notte, a disarmare quello che era armato in modo da far spazio alle macchine che venivano posizionate nei punti in cui era stato levato il materiale.

Ma di incidenti ce n’erano, altroché. A me non è capitato niente, ma dicevano che ogni tanto qualcuno moriva anche lì, era un mestiere pericoloso. Sono rimasto cinque anni. Poi ho fatto il militare e mi sono trasferito in Inghilterra, a fare un lavoraccio nei laminatoi. Per partire dovevo avere il passaporto e un certificato penale con la dichiarazione del parroco. Era il ‘55, ma questi laminatoi erano antichi, di fine ‘800. I rulli per schiacciare il ferro funzionavano ancora con le macchine a vapore. Dopo tre o quattro anni me ne sono andato via, perché quel lavoro era davvero troppo pesante, e mi sono trasferito in Svizzera, a Zugo, a lavorare in una fabbrica di elettrodomestici.
Degli anni all’estero ricordo che i rapporti tra noi italiani erano buoni, eravamo tutti amici e ci aiutavamo, ma di fatto eravamo integrati solo tra noi, mentre con la gente del luogo di amicizia ne abbiamo fatta poca.

Famiglia Ciprian, gelatieri per passione

L’Eis Salon Ciprian

Mi chiamo Attilio Ciprian, ho un fratello gemello di nome Emilio. Siamo nati nel 1945. Ricordo che quando eravamo ragazzini nostra madre e nostro padre partivano per l’estero e quindi noi eravamo accuditi da una zia, sorella di nostro papà. Stavamo con lei fino alle vacanze estive, poi potevamo raggiungere i genitori.
Mio papà era nato a Vienna nel 1908. Vienna era una grande città, che raccoglieva tantissimi emigrati. Molti andavano lì per vendere il gelato artigianale. Anche mio padre faceva il venditore ambulante. Tutte le mattine partiva col carretto e vendeva due sorbettiere di gelato. Prima di cominciare il giro, alle cinque faceva rifornimento di ghiaccio in una grande macelleria. Poi girava tutta la capitale, andando per uffici, scuole, stadi e capitava che vendesse molto di più di quelli che avevano una propria gelateria, perché i clienti lo conoscevano, sapevano l’itinerario che seguiva e l’orario in cui sarebbe passato. Aveva un campanello per richiamarli. Poi tornava e scaricava la salamoia che aveva nel carro.

Più tardi, con un fratello purtroppo morto giovane, aveva deciso di aprire una piccola gelateria in Mariahilfer Strasse, una delle vie più famose di Vienna.

In questa gelateria io e mio fratello ci abbiamo trascorso l’infanzia. Abbiamo infatti frequentato la scuola materna a Vienna. Ricordo che all’epoca, quando avevamo tre o quattro anni, il papà ci metteva uno per sorbettiera. Allora si poteva, oggi non si può più. Poi nostro padre ha deciso di farci rientrare per le elementari e le medie. Io mi sono diplomato all’Iti nel 1967 e sono sempre rimasto in Italia come insegnante tecnico-pratico. Mio fratello, invece, dopo un periodo come meccanico alla Bmw, ha lavorato in Germania. Nel 1956, infatti, nostro padre aveva aperto una gelateria nel Nordreno-Vestfalia. In quella zona la Germania era molto ricca, aveva industrie e miniere e quindi il lavoro non mancava. Purtroppo, però, lui ci ha lasciati a soli 56 anni a causa di un infarto e così mia mamma ed Emilio sono dovuti partire per continuare a mandare avanti la gelateria. Nel 2016 hanno festeggiato i 60 anni di attività.