Tag con la parola “argentina”

Il re delle penne a sfera

In qualche modo, la sua vita ruota tutta intorno alle penne. Quelle a sfera, per scrivere, e quelle delle rondini. In Argentina, infatti, il suo nome è legato a una delle più importanti fabbriche del Paese: la Sylvapen, da lui fondata nel 1959 e così denominata in omaggio alla moglie Silvia. Nella nazione sudamericana, inoltre, ha preparato il luogo di nidificazione per rondini più alto del mondo, in un appartamentino al diciottesimo piano di un palazzo a Olivos.

Rondini, grande passione coltivata fin da bambino, quando – come ha dichiarato in un’intervista di qualche anno fa al quotidiano di Buenos Aires Página/12 – trascorreva i pomeriggi a Venezia a guardarle. Un interesse che ha continuato ad accompagnarlo anche nella vita di adulto, tanto da portarlo a pubblicare il libro “La alegria del vuelo de las golondrinas” (“La gioia del volo delle rondini”), volume in cui descrive le attenzioni dedicate a studiare le abitudini e la vita di questi uccelli.

Stiamo parlando di Francesco Barcelloni Corte, nato a Belluno nel 1923 ed emigrato oltreoceano nel 1948, dopo una laurea in Giurisprudenza. Non esercitò mai. Il titolo lo prese soprattutto per ragioni famigliari, come ricordò lui stesso a Página/12: «Vengo da una famiglia di professionisti. Quando mi sono laureato, tutti erano contenti e si è andati avanti».

In Argentina, già sposato e con un figlio di due anni, iniziò a lavorare come operaio, imparò il mestiere di tornitore, coltivò conoscenze tecniche e aprì un suo laboratorio, facendo fortuna. Nel 1959 fondò la fabbrica di penne Sylvapen, rendendola un colosso con filiali in Cile, Uruguay e Brasile. Per raggiungere questi traguardi, Francesco Barcelloni fu abile a coinvolgere nella promozione del suo prodotto un pezzo da novanta come Ladislao José Biro, il cui cognome è un tutt’uno con la sua penna.

«Ua vera penna a sfera è Sylvapen»…

Il settimanale Primera Plana (oggi reperibile sul web, al sito www.magicasruinas.com) in un articolo dell’ottobre 1968 spiegava che in quel periodo la televisione argentina aveva iniziato a trasmettere una pubblicità nella quale proprio Biro affermava: «Io, come inventore, dico: una vera penna a sfera è Sylvapen» («Yo, como inventor, digo: un bolígrafo de verdad es Sylvapen»).

Oltre che per la campagna pubblicitaria, Barcelloni seppe portare Biro nel consiglio di amministrazione dell’azienda, che continuò a gestire fino al 1986, quando la vendette alla multinazionale Gillette per ritirarsi dagli affari. E dedicarsi alle rondini. «È stata un’ispirazione di Venezia. In ogni palazzo c’erano trenta, quaranta nidi e c’erano centinaia di palazzi».

In Argentina, invece, proseguiva nella sua intervista a Página/12, «la maggior parte degli edifici non è ben preparata per le rondini». Ecco perché un giorno ha deciso di facilitare le cose nel suo appartamento a Olivos: «Prima ho messo una scatola di cartone e dopo pochi giorni ce n’erano diverse: strillavano, sembrava che parlassero». Poi commissionò a un falegname una casetta di legno, con due ingressi ad arco.

All’inizio di settembre del 1997, la casetta era pronta e venne installata sotto una delle grandi finestre, in angolo con la finestra dello studio che Francesco utilizzava per scrivere. Su un treppiede, montò una macchina fotografica grandangolare. Quando nella casetta fece il proprio ingresso una coppia di rondini, iniziò a immortalarle. «Nell’oscurità della casetta – prosegue il ricordo – avevano fatto il loro nido con rametti e terra. Ma già era dicembre e ancora non avevano piccoli: faceva troppo caldo lì dentro».

Francesco realizzò allora un tetto doppio, con fori per far passare l’aria. «Non so se sia stata una coincidenza, ma a gennaio c’erano già dei pulcini». Le fotografie si accumularono, arrivando a seimila. Molti di esse hanno trovato spazio nel suo libro.

E proprio come le rondini, che dopo l’inverno tornano dove hanno nidificato, anche Francesco Barcelloni Corte rientrò a Belluno. Mancato nel 2009, oggi riposa nel cimitero cittadino di Prade.

Il coraggio di un sogno

Marcello De Zordo nacque nel 1912 ad Alleghe, un piccolo paese incastonato tra le Dolomiti bellunesi. Fin da giovane, la vita di Marcello era scandita dai ritmi delle stagioni e dalle fatiche del lavoro nei campi, dove aiutava i genitori a coltivare patate e allevare qualche animale.

Le giornate erano lunghe e dure, specialmente nei rigidi inverni montani, ma Marcello non si scoraggiava. Crescendo, però, iniziò a sognare un futuro diverso, lontano dalla povertà e dalle limitate opportunità che la sua terra poteva offrirgli.

Negli anni Trenta, la situazione economica in Italia era sempre più difficile, e molti bellunesi avevano già scelto di emigrare in cerca di fortuna. Marcello ascoltava con attenzione le storie che arrivavano dall’altra parte del mondo, raccontate da coloro che tornavano temporaneamente o che scrivevano lettere piene di speranza, parlando di Paesi come l’Argentina, dove il lavoro, seppur duro, offriva la possibilità di un riscatto sociale.

Dopo averci riflettuto a lungo e incoraggiato dalla famiglia, Marcello prese la difficile decisione di lasciare il suo amato paese per tentare la fortuna oltreoceano. Nel 1937, con una valigia di cartone, pochi risparmi e il cuore pieno di speranze, Marcello si imbarcò da Genova su un piroscafo diretto a Buenos Aires.

Il viaggio fu lungo e faticoso: il mare agitato e le condizioni spartane a bordo mettevano a dura prova il suo spirito. Ma la prospettiva di una vita migliore alimentava la sua determinazione.

Arrivato in Argentina, Marcello si trovò di fronte a una città imponente e frenetica, diversa dal tranquillo e silenzioso borgo montano da cui proveniva. Le strade affollate di Buenos Aires erano piene di suoni, odori e colori che non aveva mai visto, e la lingua spagnola suonava per lui come un intricato mistero.

I primi tempi furono estremamente difficili. Marcello, come tanti altri emigranti, non aveva contatti e parlava solo il dialetto, ma con la forza della disperazione trovò lavoro come manovale in un cantiere edile. Il lavoro era massacrante: dieci, a volte dodici ore al giorno sotto il sole cocente o la pioggia battente, con una paga che a malapena gli permetteva di mangiare e di pagare l’affitto di una modesta stanza in una pensione condivisa con altri emigranti italiani.

Tuttavia, la sua tenacia e la sua voglia di migliorarsi lo portarono presto a farsi notare dai superiori, che gli affidavano compiti sempre più importanti. In breve tempo, Marcello imparò la lingua e fece amicizia con altri bellunesi che lo aiutarono a orientarsi in quel nuovo mondo.

Pur essendo riuscito a costruirsi una vita stabile in Argentina, non dimenticò mai le sue radici.

Grazie alla solidarietà della comunità italiana, Marcello cominciò a sognare in grande. Con i risparmi accumulati e il sostegno di alcuni amici emigranti, decise di aprire una piccola impresa edile. La ditta, specializzata nella costruzione di case popolari, cominciò ad avere un discreto successo.

Marcello era un uomo onesto e laborioso, e il suo impegno lo ripagava con nuovi contratti e la fiducia dei clienti. L’impresa si espanse rapidamente, impiegando sempre più emigranti italiani, molti dei quali venivano direttamente dalla provincia di Belluno, attirati dal passaparola.

Negli anni Cinquanta, Marcello era ormai un imprenditore affermato. Pur essendo riuscito a costruirsi una vita stabile in Argentina, non dimenticò mai le sue radici. Continuava a mandare parte dei suoi guadagni alla famiglia rimasta in Italia e, con il tempo, riuscì a far emigrare anche i suoi fratelli, dando loro l’opportunità di costruirsi una vita migliore.

La sua casa divenne un punto di ritrovo per gli emigranti bellunesi, dove si parlava il dialetto e si condividevano storie e ricordi della terra natia. Marcello si impegno anche a offrire sostegno ai nuovi arrivati, fornendo assistenza con la burocrazia, il lavoro e l’integrazione.

La sua storia divenne un esempio di come, nonostante le difficoltà dell’emigrazione, la determinazione e il legame con la propria comunità potessero trasformare una vita di sacrifici in una storia di successo.

Quando Marcello tornò a Belluno per la prima volta dopo quasi vent’anni, nel 1956, trovò una terra cambiata ma, allo stesso tempo, ancora legata a quel passato di sofferenze e speranze condivise. Con gli occhi pieni di emozione, rivedeva i vecchi sentieri, le case, i volti familiari. Ma sapeva che ormai la sua vita era a Buenos Aires, dove aveva messo radici, costruito una famiglia e una prospera impresa.

Marcello De Zordo, come tanti altri emigranti bellunesi, era riuscito a costruire un ponte invisibile tra le montagne di casa e le pianure lontane dell’Argentina, un legame che ancora oggi vive nelle storie delle famiglie che hanno attraversato il mondo in cerca di una nuova vita.

Questa storia è solo una delle migliaia che, dalla provincia di Belluno, si sono diffuse nel mondo, lasciando tracce indelebili di coraggio, sacrificio e successo.

Storia di un sognatore – seconda parte

La prima parte è disponibile QUI.

Non ci sono giornali, non ci sono stamperie, però le pasquinate scritte a mano si affiggono sulle pareti di questa o quell’osteria con il beneplacito del padrone. Capraro non si scompone; non reagisce come Marforio. Usa mezzi più drastici: compera l’osteria e assiste, con un sorriso sardonico, allo sfratto. Certo, non sono operazioni gentili, però non c’è tempo per incertezze o tentennamenti.

Si arriva così al tempo della Prima guerra mondiale. Capraro, da buon patriota, convince e recluta vari volontari che partono per l’Italia e per i fronti. La festa di addio si svolge con vari canti e auguri. Qualcuno, purtroppo, non ritornerà. I nemici di Capraro approfittano anche di questi fatti per criticarlo e calunniarlo. «Manda gli altri!», dicono, «però lui non ci va!».

Capraro stavolta non ci bada. Non ne vale la pena…e poi lui ha passato già i quarant’anni.
Con frequenza deve viaggiare nella capitale, Buenos Aires, e allora visita ministri, segretari e ministeri, con progetti e sogni per ingrandire Bariloche, per convogliare alla zona dei laghi turisti e amanti della montagna.
I progetti vanno a terminare nei cassetti, con vaghe promesse. Poi cambia il governo (cosa frequente in Argentina) e bisogna ricominciare da capo la via crucis da un ministero all’altro. Capraro non si scoraggia. Altre volte arrivano personaggi illustri, come Teodoro Roosevelt, il principe di Galles e il duca di Kent.

Verranno pure scrittori e giornalisti, come Ada Elflein e Ernesto Morales. Allora il giornale “La Nación” si abbellirà con fotografie e scritti descrivendo la zona dei laghi, ma sarà solo uno sprazzo di luce perché poi tutto si ferma: Bariloche è troppo lontano.

Capraro inventa altre cose. Un bel giorno si diffonde una notizia strabiliante. Vicino a Bariloche, nella laguna Epuyen, è stato visto un plesiosauro. Immediatamente si forma una spedizione capitanata da Clemente Onelli, romano, direttore del giardino zoologico di Buenos Aires.

Con lui viaggiano giornalisti, fotografi, scienziati, ecc. ecc. La comitiva visita il lago, lo scruta, lo scandaglia… niente da fare. Il plesiosauro è sparito. Visitano allora (e descrivono) la zona e continuano a cercare. Poi la spedizione, sconfitta, ritorna a Buenos Aires. Nessuno, però, avverte come Capraro se la rida sotto i baffi, con sbirciatine d’intesa con Clemente Onelli. Saranno stati d’accordo? Sarà stata tutta una farsa? Non si saprà mai. Quello che a Capraro interessava era che i giornali parlassero della zona e raggiunge il suo scopo: i giornali parlarono.

A quell’epoca Bariloche era cosmopolita. C’erano italiani, tedeschi, austriaci, svizzeri, francesi, danesi, inglesi, nordamericani, spagnoli, cileni, argentini (pochi)… e Capraro molte, moltissime volte, è padrino di nozze o di battesimo. Le feste, per tali eventi, sono veramente feste: piene di allegria, di buon umore, di canti. Voleranno anche degli scappellotti, ci scapperà qualche coltellata (è di moda) ma poi tutti si rappacificheranno senza rancori.

Il caso è differente quando ci sono battesimi. Siamo in guerra e se il neonato è figlio di tedeschi il nome da imporre sarà Guglielmo o Francesco Giuseppe. Oppure, se è figlio di italiani, sarà Vittorio, Giorgio, Alberto, o con nomi più simpatici come Trento.

È il 4 ottobre. D’un tratto si sente un colpo e un tonfo. Nel mezzo della stanza sta Primo: è caduto


La difficoltà della scelta sorge quando il bambino è figlio di padre svizzero-francese e di madre svizzero-tedesca. La Svizzera è neutrale da secoli e non ha nulla a che vedere con la guerra. Come si chiamerà il bambino? Capraro salva capra e cavoli: lo chiama Neutral! E il nome rimane.

È finita la guerra. Arrivano nuovi emigranti e Bariloche si rinforza con altri nomi italiani, bellunesi e castionesi: De Barba, De Col, Candeago, Dal Farra, Della Gasperina, De Pellegrin, Fant e tanti, tanti altri.
Bariloche continua a crescere e le forze avversarie pure. Capraro sente già il peso degli anni e delle responsabilità e comincia a notare degli sgretolamenti.

Capraro è contrattista delle ferrovie dello stato. Già ha costruito il ponte sul Rio Negro, tra Patagones e Viedma. Il treno si avvicina, giorno per giorno, a Bariloche. Il treno! È sempre stato il sogno di Capraro portare il treno a Bariloche, e ora sta per vederlo realizzato.

Ha preso l’incarico di costruire la scarpata da Comallo al Nahuel Huapi. Gli impegni sono ogni giorno più rischiosi. Deve moltiplicarsi per realizzare ciò che si è proposto, senza tener conto che il giorno ha solamente ventiquattro ore e che il calendario non si può stirare. Ogni sforzo ha il suo limite e ogni illusione pure. Passare oltre è un delirio. Non si può stare nello stesso tempo a Pilcaniyeu sorvegliando i lavori, al municipio di Bariloche per attendere ai doveri della carica, al Correntoso per affari personali e a Buenos Aires per reclamare paghe arretrate, paghe che lui ha già abbonato agli operai di sua tasca.

L’anno 1930 è un anno disastroso per le finanze di tutto il mondo e gli effetti si sentono pure a Bariloche. Le paghe tardano e gli operai protestano. Capraro, ancora una volta, le affronta a sue spese, e a sue spese affronta, per accelerare il tempo, la scarpata dal ponte sul torrente Nirihuau a Bariloche. È la fine, però lui non si arrende. Farlo sarebbe dimostrare debolezza e questo può permetterselo chiunque, però non lui. E continua a lottare. Gli ostacoli si moltiplicano. Quello che ieri sembrava un nonnulla oggi si converte in una montagna di difficoltà.

La scarpata arriva fino a Bariloche; anche le rotaie ci sono. Manca solo il treno, testimonianza irrefutabile del suo spirito di impresario, commerciante, industriale, agricoltore, politico, edile e lavoratore. Sembra ormai che abbia vinto, sembra ormai che il suo sogno si converta in realtà.

Arriva così il mese di ottobre del 1932. Capraro sente che c’è qualcosa che non va, qualcosa che non cammina, che lo ha tradito e si ritira al Correntoso, nella sua casa in mezzo ai boschi e in riva al lago, solo.
È il 4 ottobre. D’un tratto si sente un colpo e un tonfo. Nel mezzo della stanza sta Primo: è caduto, caduto per sempre. Tra le mani ha una rivoltella che ha reso possibile il suo passaggio all’eternità. È sua? È stato lui a spararsi? È stato un altro? Non si saprà mai.

Noi pensiamo: come è possibile che lui, l’indomito, l’invincibile, si sia lasciato vincere, abbia ceduto alla debolezza?
Capraro è sparito ma il suo spirito rimane! Rimane, squilla perenne della sua figura, del suo amore per il lavoro, per la Patria Italia e per la Patria Argentina, ma soprattutto per San Carlos de Bariloche, meta dei suoi sogni, vero paradiso terrestre in Argentina, scoperto e fatto conoscere al mondo da lui, Primo Capraro.

Bariloche lo ricorda ogni anno. Una strada, la diagonal Capraro, una scuola, quella dell’Associazione culturale Germano-Argentina, e un monumento, dichiarato monumento nazionale. Da quest’ultimo Capraro guarda, giorno e notte, il lago Nahuel Huapi, il suo lago, e sorride quando vede le acque azzurre riempirsi di vele e di imbarcazioni e migliaia e migliaia di turisti che, passandogli davanti, rispettosamente lo salutano.

Storia di un sognatore – prima parte

12 marzo 1873. Siamo a Castion, frazione di Belluno. Nella casa dei Capraro un vispo bimbetto apre gli occhietti alla vita. È il primogenito e, filosoficamente, il padre lo chiamerà Primo. Quando gli nascerà un altro figlio, sarà chiamato, logicamente, Secondo.

La fanciullezza di Primo trascorre uguale a quella di tutti gli altri bambini: scuole elementari, bisticci con i compagni con qualche pugno, ecc.
Poi frequenta la scuola industriale di Belluno, dove si iscrive a un corso di costruzioni, dato che ha il bernoccolo della matematica. È già un bel giovinotto quando la Patria lo chiama al servizio militare e compie il suo dovere nel Genio. Tre anni dopo, quando ritorna, è già uomo fatto.
Siamo nel 1897 e Primo è disposto a lanciarsi per il mondo, sicuro delle proprie forze.

Ha sentito parlare dell’America e anche lui pensa a quelle terre lontane, ma, prudentemente, pensa che è meglio incominciare da poco. Rotti gli ormeggi incomincia il viaggio. Punto di partenza: Castion; punto di arrivo: be’ quello lo dirà il destino. Prima di lanciarsi all’America, e come misurando le proprie forze, visita paesi vicini all’Italia. Teme che la nostalgia gli giochi qualche brutto scherzo. Conosce così l’Austria, la Svizzera e la Germania. E proprio in Germania, sulle rive del Reno, conosce a una ragazza. Vorrebbe farla subito sua sposa, però comprende che per formare una famiglia è necessaria anche una certa posizione economica e lui ha solo due braccia, forti e robuste, una volontà di ferro e un cuore che trabocca di amore.

Non è sufficiente, così almeno pensa, e aspetta. Intanto lavora e risparmia. Sogna l’America e là non bisogna andare a casaccio e studia il posto. Arriva a Londra. C’è una compagnia che cerca gente e lavoratori per mandarli nelle miniere di Pachuca (Messico). Primo si presenta e in pochi minuti ha un contratto in mano. Ci sono anche dei compagni e anche loro sono contrattati. Primo, quasi automaticamente diventato capo e direttore della squadretta, aveva assicurato loro un avvenire prospero in una miniera d’oro e li aveva convinti a seguirlo. Partono così per il Messico. Incominciava il secolo ventesimo. Il viaggio si svolge senza inconvenienti.

Arrivati in Messico si presenta, contratto alla mano, all’amministrazione della miniera e qui succede il finimondo. Il gerente della compagnia non riconosce né il contratto e neppure i padroni della miniera, dato che il governo messicano ha concesso a lui tutti i diritti immaginabili e possibili. Primo ascolta e non si raccapezza. Poi, filosoficamente, alza le spalle e se ne va. «L’America è grande!» dice.

E i compagni che aveva entusiasmato? Primo non perde coraggio e ancora una volta li convince a seguirlo. Passa così al Perù, però anche qui non c’è niente da fare. Passa al Cile e arriva a Santiago con nessuna speranza di lavoro. Il gruppo si sgretola e anche Primo deve confessare, a malincuore, che è stato sconfitto. «Bisogna ritornare in Italia – dice – e per farlo ci sono due strade. O attraverso l’Argentina oppure aggirando lo stretto di Magellano».

Il gruppo sceglie il primo itinerario e, poco dopo, si sfascia. Primo aspetta a partire perché gli è venuta un’idea. Si ricorda che, stando a Londra, ha ascoltato una conferenza di Francesco Pascasio Moreno che diceva mari e monti di una zona della Patagonia e decide di andare a vedere.

Arriva alla zona dei laghi cileni e già sente qualche cosa nell’aria: paesaggi meravigliosi, degni delle zone più belle del mondo. Continua il viaggio e, superato il passo Perez Rosales, rimane con gli occhi spalancati. Capraro ammutolisce. Capraro è montanaro, credeva di aver superato la stregoneria e l’incanto delle montagne e qui, invece, l’innato amore alla montagna risorge, forte, prepotente. Ecco, là in fondo, il Tronador, il Lanin; e, più vicino a lui, il Lopez dalle pareti imponenti, e il Catedral, tutto una guglia; e poi altri e altri ancora, monti che si specchiano nei laghi limpidi e azzurri, e le isole, e i ruscelli saltellanti tra pietre e tronchi.

Capraro è sbalordito e lì, su due piedi, decide. Si sente come un nuovo Cristoforo Colombo. Se il genovese ha scoperto l’America, egli scoprirà la regione più bella dell’America!

Uomo pratico, cerca subito dove alloggiare e sceglie il Correntoso. È un torrente impetuoso che esce dal lago dello stesso nome e sfocia nel lago Nahuel Huapi. Correntoso! Il nome stesso significa quello che è, e Capraro lo comprova subito, perché vuole guadarlo.

Sono i primi anni, anni febbrili e pieni di intenso lavoro. Capraro è il capo. Corre da una parte all’altra dando ordini, istruzioni, consigli. A volte alza la voce, grida, sbraita. Vuole imporsi e nello stesso tempo vuole che ogni cosa si faccia bene.

Sulla riva opposta ci sono tende indie e quando Antriauc, caciche della zona, lo vede spogliarsi per gettarsi in acqua, gli grida: «Attento! Acqua forte! Non passare!» Capraro non ci bada e si tuffa. Nuota un po’ ma la corrente è troppo forte. Allora si immerge e quando riappare è a pochi passi dalla riva. Allunga le braccia in cerca di appiglio. I rami dei cespugli non resistono e cade in acqua due, tre volte. La situazione si fa pericolosa e si salva afferrandosi a una fune che gli tira il caciche.

Asciugate le vesti, Capraro continua il viaggio. Ha sentito che nella provincia del Chubut (distante circa quattrocento chilometri!), in una fattoria, c’è bisogno di manodopera. Il viaggio procede bene e conosce paesetti, meglio dire gruppi di case, e regioni. Esplora pure le sorgenti del Chubut, il fiume più grande della zona, e impara come si va a cavallo. Laggiù la gente si diverte nel vedere come il cavallo fa ruzzolare il cavaliere. Capraro, per amor proprio, si attacca fortemente all’animale e resiste.

Neppure a Leleque Primo ha fortuna. Non c’è posto per quello che vuole e sa fare e non ci sono quattrini. Capraro pensa che è il destino che vuole così perché vuole che si dedichi a far conoscere al mondo questa zona privilegiata.
Durante il viaggio di ritorno pensa e ripensa. Sente una voce interna che gli dice: «Ti ho aspettato tanto tempo e ora che sei arrivato non ti lascerò scappare. Pensaci e deciditi. Tu sei capace di questo e di altro ancora!»

E Capraro si decide e vede – come in una visione – come si converte in realtà un sogno accarezzato da tanti predecessori: Bariloche, città incantata! Già di ritorno, entusiasmato dal suo sogno, ospite in casa di amici a Bariloche espone loro il suo progetto e la decisione di attuarlo subito. Lo ascoltano e vedendolo così euforico, non lo interrompono. Ma quando si ritira, uno dice: «Quell’italiano è un pazzo!» «No – lo corregge un altro – è un sognatore e i sogni difficilmente si avverano!»

Capraro non si preoccupa per questa indifferenza. Si preoccupa invece di ottenere manodopera. Ci sono strade da fare, e ferrovie, e ponti e case e alberghi, moli, imbarcazioni ecc. ecc. e piantare industrie, officine, falegnamerie, centrali elettriche e mille cose ancora e allora incomincia una fitta corrispondenza con i suoi paesani di Castion e di Belluno e qualche lettera va anche in Germania dove, sulle rive del Reno, una ragazza aspetta e spera. Convince tanto gli uni che l’altra e nel 1903 parte per Buenos Aires.

Arriva la sposa e arrivano anche i primi emigranti, attratti dal fascino che ha ispirato loro Capraro. Sul molo è un vociare e un gridare in dialetto, italiano, tedesco. Amici che rivede, amici ai quali parla con entusiasmo della zona che popoleranno.

Finite le pratiche doganali, la carovana si mette in marcia. Ci saranno vari giorni di viaggio, però non importa. Arrivano a San Carlos de Bariloche dopo 1.800 chilometri di marcia, disposti a occupare terre, a costruire case e strade, a fondare un paese, una città. Capraro li guida dando ordini, istruzioni e consigli. In poco tempo sono sistemati e lavorano. Le industrie principali sono presto pronte: centrale elettrica, falegnameria, fucine meccaniche… Il paese progredisce sotto lo stimolo di Capraro.

Sono i primi anni, anni febbrili e pieni di intenso lavoro. Capraro è il capo. Corre da una parte all’altra dando ordini, istruzioni, consigli. A volte alza la voce, grida, sbraita. Vuole imporsi e nello stesso tempo vuole che ogni cosa si faccia bene. Pensa al futuro: pensa alle centinaia di migliaia di turisti che visiteranno Bariloche. Si dedica anche ad altre attività: commerciali, politiche, diplomatiche e giornalistiche.

Ed è così che, nelle lettere che scrive, si può leggere, tra le altre cose, una intestazione che dice: “Commercio in generale, frutta, importazione ed esportazione, falegnameria, carpenteria, centrale elettrica, agente Ford, cantiere navale, corrispondente del Banco d’Italia”. E avrebbe potuto aggiungere: agente consolare d’Italia, corrispondente dei giornali “La Nación” e “La Patria degli Italiani”, sindaco e agricoltore.

Il paese è ancora piccolo ed è logico che si avveri ciò che dice un proverbio: “Paese piccolo, inferno grande!” Sorgono gli oppositori e il paese si divide in Capraristi e Anticapraristi.

Continua…

Pasqua alla fine del mondo

Di Ernestina Dalla Corte Lucio

La Pasqua in Argentina rappresenta per tutti un momento di pausa, famiglia, relax e tante delizie. 

L’Argentina è un Paese cattolico con all’interno – tra le tante – due collettività di migranti molto importanti che celebrano la Pasqua: gli spagnoli e gli italiani. Più della metà degli argentini ha almeno un antenato italiano. Tanti sono veneti e bellunesi che hanno cercato di mantenere vive le tradizioni religiose e gastronomiche dei territori di origine. Ecco allora che il tempo pasquale è particolarmente sentito e partecipato per le famiglie italo argentine anche alla fine del mondo.

Nell’emisfero Sud, questo periodo non segna l’inizio della primavera, come in Italia, bensì dell’autunno. In ogni caso, il bel tempo di fine estate ancora ci accompagna e sebbene le foglie inizino a cadere, si cerca di allestire le proprie case con uova colorate e fiori.

È tradizione passare la Pasqua in famiglia, pranzando insieme all’aria aperta. Sfortunatamente, una tradizione che non abbiamo conservato dall’Italia è quella della Pasquetta: niente lunedì dell’Angelo, qui. Si compensa, però, con un weekend “extra large” che nemmeno a Natale è così lungo. Quattro giorni festivi: giovedì, venerdì Santo con la Via Crucis, il sabato di Gloria e la domenica di Pasqua.

… in Argentina non c’è la Colomba. Qui c’è la “Rosca di Pascua”, una deliziosa ciambella con canditi

Di solito le famiglie approfittano del fine settimana per trascorrere delle mini vacanze, mentre altri restano a casa e si preparano per la festa più importante della domenica. 

Proprio la domenica, si scambiano uova tra familiari e amici, accompagnati da un buon asado, empanadas de vigilia e una torta speciale di Pasqua.

Un’altra differenza nell’ambito culinario è che in Argentina non c’è la Colomba. Qui c’è la “Rosca di Pascua”, una deliziosa ciambella con canditi. Dentro è vuota e sopra ha la crema pasticciera e delle ciliegie con della granella di zucchero. Riservato ai tempi di Pasqua e all’Epifania, questo dolce di origine galiziana ha subìto alcune modifiche: oltre alla ricetta tradizionale, troviamo quelle fatte con cioccolato e dulce de leche

Visto che durante la settimana Santa la carne viene evitata, una tradizione che si mantiene ogni anno è quella di mangiare il pesce. Protagoniste sono le empanadas de vigilia, ossia empanadas con il ripieno a base di pesce (tonno o sgombro tra gli altri), più cipolla, aglio, peperoni dolci e altre verdure. 

Famiglia, religione, relax e buon cibo sono alcuni degli ingredienti di una Pasqua in Argentina. Una festa che cerca di tramandare le tradizioni ereditate dagli antenati europei mantenendole vive ancora oggi nei discendenti, come fanno tanti dei “nostri” bellunesi nel mondo. 

Rosca di Pascua, immagine tratta da www.sbs.com.au